mercoledì 16 marzo 2016

Gentile Bellini alla corte dell'Impero Ottomano

Durante il Rinascimento gli europei hanno un rapporto quasi schizofrenico con l'impero ottomano, da un lato temuto come la minaccia più spaventosa e dall'altro rispettato, ammirato e da qualcuno anche desiderato come modello sociale/politico alternativo rispetto all'intollerante e guerresco Occidente.
Ma anche gli Ottomani hanno un rapporto schizofrenico nei confronti dell'Europa, dove si uniscono da un lato il fascino e il desiderio di apprendere la loro tecnologia, e dall'altro la repulsione, il senso di superiorità indotto dalla fede islamica verso quei barbari dei cristiani.
La fascinazione per l'Occidente è legata in gran parte alle tecnologie occidentali, perché molto presto ci si rende conto che, anche se l'impero è perfettamente in grado di affrontare i cristiani alla pari sul campo di battaglia e ha una cultura altrettanto complessa, tuttavia ci sono tanti aspetti in cui l'Occidente ha un margine di superiorità. Basta guardare gli acquisti dei sultani, delle loro famiglie, delle loro donne, gli acquisti dei gran visir e dei pascià: c'è tutta una serie di merci che nel Cinquecento e nel Seicento gli ottomani sono costretti a comprare in Occidente, perché nel loro impero non si producono. Sono commerci che non si interrompono mai, e proseguono con estrema disinvoltura anche in tempo di guerra. Sultani e gran visir ordinano a Venezia occhiali, carte geografiche, orologi, vetri, lampade. Le lampade per le grandi moschee di Costantinopoli sono comprate a Venezia, perché nessuno produce vetri come quelli che si fanno qui.
Ci sono anche consumi voluttuari che rendono i turchi dipendenti dall'Occidente: per esempio a Costantinopoli è di gran moda il formaggio parmigiano, che però a quell'epoca si chiamava "piacentino".
Quando la figlia del sultano Solimano, Mihrimah, decide di offrire un nuovo acquedotto per la Mecca, per dare da bere ai pellegrini, gli attrezzi per i lavori li deve ordinare in Occidente, perché nell'impero nessuno sa produrre acciaio di così buona qualità.
Succede perfino che quando sta per scoppiare la guerra tra Venezia e gli Ottomani (è la guerra che poi porterà alla battaglia di Lepanto), il comandante della flotta imperiale turca, il kapudan pascià, abbia la faccia tosta di andare dall'ambasciatore veneziano per comprare dei fanali dai mercanti veneziani da mettere sulla sua galera!
Del resto la flotta del sultano era fornita di cannoni fabbricati con la consulenza di tecnici occidentali.
L'impero ottomano compensava questa sua arretratezza tecnologica con altri punti di forza, culturali, sociali e politici, ma non c'è dubbio che abbiano sempre percepito il fatto che vi erano degli aspetti in cui i barbari occidentali, misteriosamente, per volere di Dio, avevano un margine di superiorità.
Un esempio straordinario di questa fascinazione contraddittoria, è rappresentato dalle arti figurative. La civiltà occidentale nel Medioevo e ancor più nel Rinascimento, punta moltissimo sulla pittura e sulle arti figurative in genere, sia sul piano comunicativo sia della conoscenza della realtà che ci circonda.
Il mondo islamico invece ha un rapporto molto più difficile con le arti figurative, perché in teoria, se si dovessero ascoltare i dettami della legge islamica, raffigurare degli esseri viventi è un atto di empietà: significa riprodurre qualcosa che Dio ha creato e di cui lui solo è il padrone. Per cui solo il miscredente cristiano può pensare di rappresentare Dio con la barba bianca e non rendersi conto che sta commettendo un atto vergognoso nei suoi confronti.
Tuttavia i turchi musulmani sanno benissimo che i barbari occidentali hanno inventato delle tecniche di pittura straordinarie, e ne sono affascinati.
Non è forse un caso che il sultano che più di tutti si è interessato alla pittura europea, sia proprio quello straordinario personaggio che è Maometto II il Conquistatore, il quale chiama a Costantinopoli (in questa città che lui sta trasformando di nuovo in una grande capitale mondiale) dei pittori rinascimentali, tra cui Gentile Bellini da Venezia, il quale esegue il suo ritratto.
Questo quadro esiste ancora oggi (o almeno la critica lo riconosce come tale) e rappresenta la fisionomia turca di Maometto II, con la sua barbetta a punta.
Alla morte del sultano, il successore Beyazit II, che è un pio musulmano, trova vergognosa la faccenda del ritratto e lo fa vendere al bazar.
Il quadro poi andrà perso e, dopo chissà quali peripezie, ritrovato (oggi si trova a Londra), ma quel che è certo è che a Costantinopoli non ne seguirà alcuna tradizione pittorica.


(fonte: A. Barbero)

lunedì 7 marzo 2016

Il Doge Andrea Gritti e il rinnovamento politico culturale veneziano.

Nel 1523 viene eletto doge Andrea Gritti. Questa data segna l’inizio di un breve, ma estremamente significativo periodo di riforme per la città di Venezia ed il suo territorio.
Il nuovo Doge, l’eroe di Padova e della riconquista dei territori veneziani ai tempi della lega di Cambrai, apre un’importante stagione di cambiamenti nell’amministrazione della Serenissima, che investe moltissimi settori dello stato.
Dal punto di vista economico, si registra una serie di riforme mirate alla razionalizzazione amministrativa ed affiancate da un’innovativa riorganizzazione del credito bancario. Nel 1526, con il divieto agli uffici pubblici di accettare qualsiasi divisa straniera, si attua un’unificazione monetaria all’interno dei territori veneti, dove precedentemente, le città soggette alla Serenissima utilizzavano ancora conii locali.
Due le importanti novità in campo economico introdotte nel 1528: la prima consiste nell’utilizzo, per la prima volta nella storia, della partita doppia nell’amministrazione pubblica: efficacissimo contributo di natura pratica suggerito dal grande matematico italiano amico di Leonardo da Vinci, Luca Pacioli.
Il secondo, innovativo provvedimento del 1528 vede la Zecca dello stato veneziano cambiare intimamente la sua natura e funzione. Da cassa di deposito dei prestiti obbligatori allo stato, legati alla decima e al catasto, è trasformata in banca di stato nella quale chiunque, anche forestiero, può effettuare depositi ad interesse, in cambio di ricevute trasferibili.
Un altro settore statale, oggetto di tentativi riformistici interessanti per quanto destinati all’insuccesso, è quello del diritto, nella cosiddetta “renovatio legis”
Già all’inizio del suo dogado il Gritti è fortemente orientato alla riforma del sistema giuridico veneziano; di antica fondazione e basato per lo più sull’arbitrio dei magistrati, la cui libertà interpretativa delle leggi è estremamente ampia. L’idea è quella di una riforma radicale dello Statuto, per una maggior razionalizzazione del sistema giudiziario, ad un tempo troppo poco rigoroso e mal codificato. È significativo che, nonostante la revisione giudiziaria sia tentata dal Gritti per l’intero corso del suo dogado, essa non vedrà mai una realizzazione. La resistenza della nobiltà veneziana a questa, come ad altre riforme è di natura conservatrice.
Da una parte infatti la nuova codificazione avrebbe reso il giudice un “tecnico del diritto”: si sarebbe in qualche modo negata la peculiarità del patriziato veneziano, che tradizionalmente ricopriva, per brevi periodi, le più diverse cariche pubbliche. Dall’altra, è ipotizzabile che la riforma del diritto mirasse a un rafforzamento dell’oligarchia, in linea con l’orientamento del Gritti, cosa anch’essa temuta dalla media e piccola nobiltà.
Questa opposizione era immagine di quel conflitto sotterraneo tra “Vecchio Mondo” e “Nuovo Mondo” che sarà elemento costante di tutto il dogado grittiano.
Un altro aspetto cruciale, per quanto riguarda le novità introdotte nell’‘era grittiana’, è la ‘renovatio rei militaris’, affidata dal Gritti al Capitano generale della Serenissima, Francesco Maria della Rovere, amico personale del Doge.
A pochi anni dalle ombre di Cambrai, quando Gritti stesso, prima di essere investito della carica di Doge, aveva dovuto misurare sul campo i limiti dell’organizzazione militare veneziana sulla terraferma, era impossibile non rendersi conto della debolezza della Serenissima sui campi di battaglia. E anche in questo settore la ricetta dell’entourage grittiano è la stessa: rinnovamento, razionalità e innovazione tecnica volte ad una maggiore efficienza.
Il territorio della Serenissima viene allora interamente coinvolto in un progetto che lo trasforma in un unico organismo difensivo, nel quale ogni roccaforte, ogni città, ogni collina sono sfruttate o ripensate secondo le loro potenzialità strategiche intrinseche e in relazione con gli altri elementi della unificante “macchina difensiva”. Venezia, in modo machiavellico, trovatasi scoperta dalla “pelle del leone”, ormai troppo ristretta, sceglie di proteggere le parti più fortemente esposte cucendoci sopra la “pelle della volpe” dell’ingegno tecnologico.
Un’altro episodio estremamente interessante, per cogliere il clima culturale, oserei dire rivoluzionario, di questa breve ma significativa stagione veneziana, è la famosa vicenda di Vettor Fausto. Letterato umanista, il Fausto è il promotore di un progetto, presentato al Doge Gritti nel 1525, che mira a “...introdurre nell’Arsenale [...] scientia fondata su methodus e litterae”. In pratica egli propone al Doge un progetto di una quinquereme, ricostruita attraverso la compenetrazione tra lo studio filologico dei testi latini e la conoscenza dell’architettura navale. E anche in questo campo i sogni di innovazione tecnologica dei “grittiani” si scontrano con le resistenze di ampie porzioni del patriziato veneto, sempre spaventato dalla minaccia che degli “specialisti del settore” lo possano scalzare dal suo tradizionale controllo sulle istituzioni veneziane.
Tuttavia, diversamente da quello che sarà l’esito negativo delle riforme legislative, in questo caso il progetto di Vettor Fausto registra una serie di successi. In primo luogo, già nel 1526, nonostante le forti opposizioni, Vettor Fausto ottiene uno squero nell’Arsenale, dove costruire la quinquereme romana, che sarà varata nel 1529.
Il 23 maggio dello stesso anno ha luogo, di fronte alle rive di San Francesco della Vigna, il collaudo dell’imponente nave, che gareggia contro una più esile galera, vincendo la gara a dispetto del suo maggior dislocamento. Il Bembo, entusiasta, scrive che, grazie all’impresa di Vettor Fausto “non si potrà più dire a niun di loro [gli umanisti] come per addietro si solea: va e statti nello scrittoio e nelle tue lettere”.
Il Doge, vedendo la vittoria del “nuovo-antico” sul vecchio, scoppia addirittura in lacrime di gioia.
L’età grittiana è quindi estremamente carica di fermenti culturali. Nel contesto veneziano degli anni 20-30 del Cinquecento, il Rinascimento sembra così fare un salto di qualità significativo. Se prima infatti gli umanisti rinascimentali erano inclini ad un rapporto stretto con il potere, ma sempre da una posizione esterna ad esso, ora nella Serenissima comincia a delinearsi un diverso ruolo per l’uomo di scienza e di lettere. Egli sembra chiamato ad entrare all’interno del meccanismo del potere istituzionale, per poterlo razionalizzare, per rendere più rapidi ed efficaci i suoi meccanismi, per aggiungergliene di nuovi.
Persa la partita sul piano della forza, Venezia cerca di gettare le basi di una sua vittoria futura, attraverso la celebrazione del matrimonio tra sapere e potere, chiamando gli umanisti alla cura della cosa pubblica.
E poiché i matrimoni, per generare figli legittimi, devono essere pubblici, viene affidato al Sansovino il compito di tracciare il segno eloquente di questa unione. E nel 1537 iniziano quindi i lavori di costruzione della Biblioteca Marciana. Nella zona della città deputata alla gestione del potere, da esibire alle rappresentanze diplomatiche, in cui sono organizzati e si svolgono i riti civili e della patria. Per la prima volta una biblioteca di stato entra, e in una posizione di estremo rilievo, all’interno dell’autocelebrazione del potere. L’edificio, che custodirà i testi del Petrarca e la biblioteca platonica del Bessarione, è posto di fronte al Palazzo Ducale, nel cuore politico della città. 

(fonte: F. Merlo)