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martedì 8 giugno 2010

Le galee veneziane nel Quattrocento

Il Quattrocento rappresenta probabilmente l’apogeo del sistema delle galee veneziane, un sofisticato e articolato sistema di trasporto delle merci e dei passeggeri attraverso il Mediterraneo.
Ma cosa erano, e come navigavano le galee veneziane?

Prima di tutto, occorre ricordare che esistevano due tipi di galee, ben distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente alla guerra, e le «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il trasporto di merci o passeggeri. Tuttavia, contrariamente a quanto spesso si crede e si legge, le galee da mercato non erano le uniche navi che viaggiavano sotto la bandiera di San Marco: anzi, la maggior parte della flotta mercantile, dal punto di vista numerico e da quello del tonnellaggio, era composta da navi a vela. Le galee da mercato invece, che erano navi costruite dallo Stato, venivano noleggiate ai nobili che organizzavano il viaggio raccogliendo le merci dei mercanti. Le galee viaggiavano in convogli composti da tre o quattro navi, la cui rotta era stabilita nei dettagli e non poteva essere modificata: le varie mude, così si chiamavano i convogli, percorrevano una o due volte l’anno i percorsi prestabiliti raggiungendo Costantinopoli e il mar Nero (muda di Romania), il medio Oriente (muda di Beirut e Alessandria), la Francia meridionale (muda di Aigues Mortes, porto alla foce del Rodano), l’Inghilterra e l’Olanda (muda di Fiandre) e infine la Tunisia e l’Algeria (muda al trafégo). L’importanza di queste navi consisteva nel fatto che avendo un equipaggio numeroso (almeno 250 uomini tra marinai e rematori) erano considerate estremamente sicure e quindi venivano destinate a trasportare i carichi più preziosi e più leggeri: le spezie, le sete, l’argento e l’oro.
Quando nel corso del Quattrocento i pellegrinaggi in Terrasanta conobbero una grande diffusione, Venezia organizzò ogni anno una o anche due galee destinate esclusivamente a trasportare i pellegrini in Palestina. Questa circostanza riveste un estremo interesse, perché alcuni di questi viaggiatori hanno scritto un resoconto dettagliato del loro viaggio che sono giunti fino a noi, consentendoci di ricostruire nei dettagli lo stile di navigazione di queste navi.

Le galee da mercato erano navi lunghe circa 37 metri al ponte (23 passi e 3 piedi veneziani, come spiegano i quaderni dei capimastri dell’Arsenale di Venezia) e larghe poco più di sei, con un’altezza di puntale tra i 2,5 e i 3 metri. La caratteristica più nota di queste navi è il fatto di essere dotate di circa 150 remi, ciascuno dei quali mosso da un solo uomo, e questo ha generato l’errata convinzione che usassero prevalentemente questo mezzo di propulsione. Niente di più errato. Anche se è vero che le linee d’acqua degli scafi delle galee sono simmetriche e dimostrano la loro derivazione da imbarcazioni a remi, di fatto le galee navigavano prevalentemente a vela e usavano i remi solo come propulsione d’emergenza.
Le prestazioni che potevano raggiungere sotto vela erano notevoli, come d’altra parte ci si può aspettare da navi con un coefficiente di finezza così buono. Con vento a favore potevano raggiungere comodamente i cinque o sei nodi di velocità; tuttavia, dai diari dei pellegrini che andavano in Terrasanta risulta che le navi percorrevano intere tratte a una media di oltre sette nodi.
Insomma, le galee da mercato erano sostanzialmente delle navi a vela. A cosa servivano allora i rematori?
Fondamentalmente, prima dell’avvento dell’artiglieria, servivano a difendersi. Come spiega lo storico americano Fredrick Lane, «per le galee da mercato la loro capacità di difendersi era seconda come importanza solo alla sua sicurezza in mare, giacché esse erano progettate per combinare non solo alcuni dei vantaggi delle navi a remi con quelli delle navi a vela, ma anche quelli di una nave da guerra con quelli di un mercantile. L'elevato numero di uomini necessari su una galea per manovrare i remi forniva la base per una forza combattente molto più numerosa di quella che poteva essere impiegata su una nave tonda. In tutto l'equipaggio di una galea da mercato contava più di 200 uomini, ciascuno dei quali poteva essere chiamato a prender parte alla sua difesa. Le armi per questo scopo venivano fornite dall'Arsenale e trasportate in un apposito locale della stiva».

I diari dei pellegrini permettono di ricostruire in modo abbastanza accurato la vita a bordo. Prima di tutto, chi intendeva compiere un viaggio in Terrasanta stilava un vero e proprio contratto, estremamente dettagliato, che precisava diritti e doveri delle due parti (ossia del viaggiatore e del patronus della galea). A bordo i pellegrini dormivano per lo più nella grande stiva della nave e, come scriveva nel 1484 Felix Faber (Urbis venetianae fidelis descriptio), si trattava di una «inquieta dormitione». I giacigli erano disposti per madiere, e i pellegrini dormivano con il capo verso la murata e i piedi verso il centronave. Non essendoci fonti di luci a parte il boccaporto principale, ci si doveva avventurare portando con sé un lume. Felix Faber allude alla continue liti, soprattutto all’inizio del viaggio, tra chi voleva dormire e chi voleva rimanere sveglio, liti che spesso terminavano appunto col lancio dei pitali sopra le candele irrispettose…
Al mattino, i bisogni corporali venivano espletati a prua, dove si trovavano due appositi fori, davanti ai quali, nota il frate, si forma una coda «come in quaresima davanti al confessore». In nave, sostiene Faber, occorre lavarsi spesso, per evitare il rischio di prendere i pidocchi. «Ci sono molti invece che non sono provvisti di ricambi, e sono avvolti in tali puzze e fetori, che nella barba e nei capelli crescono i vermi».
Il pranzo era consumato due volte al giorno, al mattino e alla sera, e gli uomini a bordo venivano chiamati a tre «tavole» ben distinte a seconda del rango sociale: gli uomini da remo mangiavano sui loro banchi; i marinai, i balestrieri, il personale specializzato in genere a una mensa intermedia e infine il comitus con lo stato maggiore della galea mangiavano «come se fossero stati a Venezia».


Fonte: Martino Sacchi