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lunedì 31 ottobre 2011

Via Garibaldi

Posta all'inizio della Riva dei Sette Martiri, in realtà è un rio terà. Fu realizzata nel 1807 interrando il canale preesistente e unendo le due fondamente che lo affiancavano, e chiamata Via Eugenia in onore di Eugène Beauharnais, allora viceré d'Italia. Il nome venne poi modificato in Strada Nuova dei Giardini, infine nel 1866, con l'ingresso delle truppe italiane, la via venne dedicata a Giuseppe Garibaldi, al quale fu poi innalzato il monumento all'ingresso dei Giardini.
Posta nel popoloso sestiere di Castello, la via Garibaldi è sempre piena di vita; ricca di negozi di ogni tipo, bar, ristoranti e una chiesa (San Francesco da Paola); un tempo c'era anche un cinema. Alla mattina vi si trova un mercato di frutta, verdura e pesce, e si respira aria di paese.
Il turista che percorre la via Garibaldi, tracciando una diagonale tra l'isola di San Pietro e la Basilica della Salute che si intravede all'orizzonte, vi giunge un po' timido ma di buon umore, perché crederà d'aver preso finalmente confidenza con la città e perché da poco si è fatto fotografare accanto alle enormi ancore del Museo Navale (gemelle di quelle del Ministero della Marina a Roma). Eccolo dunque, il turista, imboccare con baldanza l'anomalo boulevard di cui poco sa, visto che dalle guide è praticamente ignorato.
Secondo Napoleone e l'architetto Antonio Selva, questa strada doveva conferire modernità ed eleganza alla città, ma al contrario, a due secoli di distanza, via Garibaldi è divenuta la linea di confine oltre la quale resiste nella sua grandezza e nella sua miseria la venezianità popolare che riesce a relegare il turista a mera tappezzeria.
La via è sempre animata: al mattino, tra i banchi del mercato, le casalinghe scendono in pantofole per fare più in fretta la spese, salvo poi trattenersi a parlare tra di loro (bandita ovviamente la lingua italiana) delle cose di cui parlano le donne da sempre: i figli, gli uomini e gli schei ("soldi") che non bastano mai; al pomeriggio sciami di bambini giocano ancora ai giochi di una volta; mentre la sera, bar e osterie traboccano di uomini (per lo più artigiani e barcaioli). Il turista sopraggiunto, proverà a comprendere qualcosa di quegli infervorati dialoghi, potrà farlo liberamente giacché nessuno gli baderà, ma non capirà nulla, se non forse che si sta parlando di barche e di pesce; ma se tornerà l'indomani e, meglio, ancora il giorno dopo, sarà accolto come chi si appresta a far parte della comunità.
Questo succede nel sestiere di Castello, sventrato dalla volontà di Napoleone, ma giammai estirpato della sua venezianità.

mercoledì 5 gennaio 2011

Venezia all'alba del XX secolo

Davanti all'obiettivo di Tomaso Filippi, alcune giovani veneziane si espongono con candore popolare che intenerisce: colgono l'acqua dai pozzi, rattoppano le reti da pesca, oppure vendono ceste di pesce al mercato di Rialto. Le loro madri, sedute in cerchio sull'uscio di casa, infilano perle chiacchierando tra loro. I corpi sono infagottati negli abiti consunti e troppo larghi. I volti sono tristi, i capelli ribelli, le scarpe scalcagnate.
Quando l'alba sorge sul XX secolo, Venezia soffre di un netto ritardo rispetto alle altre città italiane. Bisogna creare lavoro, unire l'isola alla terraferma. La fragile struttura acquatica viene sventrata con fragore e brutalità. La modernità preme e si affretta ad omogeneizzare e banalizzare tutto.
I ricchi stranieri acquistano a basso prezzo i palazzi da sogno che erano stati abbandonati dalle antiche famiglie patrizie della Serenissima. I nuovi occupanti ricevono ed invitano il fior fiore degli scrittori, dei pittori, degli esteti e dei collezionisti che, di giorno e di notte, esplorano, con il naso all'insù, il labirinto delle calli silenziose e deserte. All'ora del tè si passeggia in Piazza San Marco, prima di ritrovarsi al Quadri o al Florian, sulle piccole panchine cremisi, avvolti nei cappotti confezionati dallo spagnolo Mariano Fortuny. Si vive Venezia dentro se stessi, come una religione. Infine, calata la sera, sotto le stelle, nelle gondole o nelle barche da pesca, ci si dà alla serenata, ripassando o inventando melodie veneziane.
Offesi e feriti da una modernità rumorosa, invadente ed aggressiva, molti veneziani guardano con diffidenza e freddezza la loro immagine dai contorni poco definiti che si riflette nello specchio spezzato del presente.
L'amore folle, ossessivo, a volte addirittura morboso degli stranieri per Venezia aiuta forse alcuni di loro a riprendere il filo del discorso bruscamente interrotto con il loro passato. A scendere nel pozzo buio e profondo della storia per cercarvi i tesori che decenni di occupazione francese ed austriaca avevano finito col nascondere e far dimenticare. Un patrimonio la cui esistenza era stata cancellata, e che bisognava ora riesumare, trascrivere, pubblicare, suonare, studiare e trasmettere ai più giovani.

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