martedì 26 ottobre 2010

Elena Lucrezia Corner Piscopia

Certo non è una prova definitiva della condizione femminile a Venezia all'epoca della Serenissima, il fatto che una nobildonna veneziana, Elena Lucrezia, Corner Piscopia, sia stata la prima donna al mondo a conseguire una laurea, però possiamo considerarlo un indice significativo del fatto che a Venezia le donne avevano una libertà superiore a quella del resto d'Europa.
Il padre di Elena si chiamava Giovanni Battista, era Procuratore di San Marco (la più alta carica dignitaria dopo il Doge) ed era un uomo di grande cultura: disponeva di una biblioteca personale di circa 4.000 volumi. Elena crebbe in questo ambiente e trovò nel padre incoraggiamento e aiuto al conseguimento dei suoi obiettivi culturali.
Elena nacque nel 1646 nel palazzo sul Canal Grande che diventerà di proprietà della famiglia Loredan e che oggi ospita il Municipio di Venezia. A sette anni il padre la affida ad insegnanti privati e a 15 anni parlava correntemente greco, latino, ebraico, spagnolo, francese e arabo. Ma lei studia anche matematica, astronomia e filosofia sotto la guida di uno dei maggiori scienziati del momento, Carlo Rinaldini.
Il padre consapevole del suo talento la iscrive all'Università di Padova, dove Elena vorrebbe studiare teologia, ma non le viene consentito. Sceglie quindi di dedicarsi alla filosofia, e nel 1677, in presenza dell'intero collegio di Padova, di gran parte del Senato e di un folto pubblico, sostenne la tesi sull'Analitica e Fisica di Aristotele. Il 25 giugno del 1678 viene insignita, prima donna al mondo, del titolo di "doctor". Data la grande affluenza di pubblico, la cerimonia si svolse in una chiesa!
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò, all'assistenza dei poveri. Morì a Padova il 26 luglio del 1684 malata di tubercolosi. Le sue spoglie riposano  nella chiesa di Santa Giustina.


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giovedì 21 ottobre 2010

Acqua dolce a Venezia

"Venezia è in acqua ma non ha acqua" (M. Sanudo)
L'approvvigionamento di acqua potabile fu problema di primaria importanza per Venezia fin dai primi momenti della sua vita, e si può dire si protrasse lungo tutto l'arco della sua millenaria storia.
Quando le popolazioni della terraferma, sotto la pressione delle invasioni barbariche, trovarono rifugio nelle isole della laguna, è molto probabile che abbiano dapprima approfittato delle acque dei fiumi che entravano in laguna. Si sa per certo che si procuravano l'acqua anche da pozzi naturali di acqua piovana.
Con il trasferimento della sede del governo a Rialto, per evitare la spesa del trasporto dell'acqua dolce dai pozzi del litorale, si cominciarono a realizzare una o più cisterne d'uso pubblico nei cortili delle case, cisterne che raccoglievano l'acqua piovana dopo essere stata filtrata da uno strato di sabbia . All'inizio del 1300 in città erano presenti già un centinaio di pozzi.
Allo scopo di incrementare sempre più il numero di pozzi furono presi provvedimenti di varia natura, ad esempio le corporazioni religiose che ne avessero costruiti all'interno dei conventi venivano largamente sovvenzionate dallo Stato purché i pozzi fossero lasciati in libero uso a tutti i cittadini.
Furono adottate misure di vigilanza per evitare sprechi nel consumo: i parroci (detti appunto "piovani") custodivano le chiavi dei pozzi con l'incarico di aprirli due sole volte al giorno, al suono della "campana dei pozzi". Esistevano anche pozzi dedicati al solo uso dei poveri, come quello di San Marcuola.
Ma il continuo aumento della popolazione e dei commerci determinò un consumo di acqua tale che le cisterne non erano più sufficienti. Pertanto nel 1540 il Senato decretò la realizzazione dello scavo del canale Seriola allo scopo di portare le acque del fiume Brenta fino ai margini della laguna, presso Fusina, in modo da rendere più agevole il trasporto dell'acqua a Venezia. Il trasporto veniva effettuato tramite barche apposite chiamate "burchi". Addetti a questo trasporto erano gli "acquaroli", associazione costituitasi  fin dal secolo XIV, con sede in un modesto edificio nel pressi della Chiesa di San Basegio.
L'acqua poteva essere venduta in piccole quantità, per le strade, dai "bigolanti", al grido "acqua mo!". Questi venditori ambulanti portavano l'acqua dolce direttamente alle case o ai negozi che ne facevano richiesta.
Nel Settecento i "bigolanti" erano circa un centinaio (per lo più donne) e acquisivano il diritto di vendita con un contributo annuo di 20 soldi pagato agli "acquaroli".



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lunedì 18 ottobre 2010

La via delle spezie

Semi, cortecce, delicate foglie e minuscoli frutti, essiccati e usati per aromatizzare i cibi, sono alla base della ricchezza di Venezia. Species deriva dal latino e significa merce speciale, di valore. In opposizione alle cose ordinarie questa definizione include, quindi, tutti i prodotti costosi e unici nel loro genere.
Provenienti da terre avvolte nel mito, le spezie fuggono il banale, il quotidiano, il consueto, evocano sensazioni sconosciute, sapori insospettabili, raffinatezze inaudite. Il loro impiego in cucina risale al tempo dei Romani, quando il Mediterraneo era un lago senza frontiere.
Se il mito colloca le spezie tra gli alberi del paradiso terrestre, i medici dell'antichità le considerano un rimedio contro le malattie. L'importanza di uno stretto legame tra dietetica e benessere ne determina perciò un uso abbondante sia nelle vivande che al termine del pasto, servite confettate o mescolate al vino. Se mettiamo definitivamente da parte la falsa opinione che le spezie servissero per conservare i cibi o nascondere gli odori degli alimenti, si comprende che l'uso di quei sapori era una scelta di gusto e benessere. Il loro costo elevato rappresenta poi un elemento di prestigio che assume presto un significato di status symbol.
A consentire il mantenimento del lusso - nel momento in cui l'impero romano si sfalda - ci pensa Venezia che ben presto assume in questo commercio un ruolo determinante. Scelte politiche appropriate  e intelligenti accordi economici consentono ai mercanti veneziani di commerciare in condizioni privilegiate. Così Venezia assume il monopolio e dal bacino di San Marco si dipartono le rotte di levante e di ponente, perché si acquista in Oriente e si esporta in tutta Europa, facendo passare ogni cosa per Rialto. Si crea la mitica Via delle Spezie che dall'Estremo Oriente arriva ad Antiochia e Petra, oppure dall'Indonesia e dall'India attraverso il Golfo Persico, Bassora, e da lì via terra fino a Damasco. C'è poi la "Via del Cinnamomo": Molucche, Madagascar, Zanzibar, risalendo il Nilo fino ad Alessandria d'Egitto.
Cinquemila tonnellate di spezie trasportate annualmente da una cinquantina di galere e da circa tremila navi a vela, rendono l'idea di questo commercio nell'epoca d'oro.
Nel cuore del mercato di Rialto, la Ruga degli Spezieri raccoglie un'eredità lunga di secoli. I magazzini traboccano di spezie di ogni varietà: piper nigrum, pepe longo, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, macis, zafferano, zenzero, in un'orgia di colori e profumi.
Gli spezieri veneziani triturano e mescolano, provano gusti, studiano combinazioni, verificano effetti. Diventano i più abili confezionatori del mercato mondiale, inventano il "marketing" e il "packaging" delle spezie, miscele ready to use che vengono chiamati "sacchetti veneziani"
Poi Vasco de Gama doppia il Capo di Buona Speranza e le merci cominciano ad arrivare in Europa tramite i portoghesi e gli olandesi. è l'inizio della fine della potenza commerciale della Serenissima.

(fonte: C. Coco)


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giovedì 14 ottobre 2010

Chiesa dei Santi Biagio e Cataldo

Verso l'estremità occidentale della Giudecca dove, alla fine dell'Ottocento sorse l'imponente mole del Mulino Stucky, esisteva una modesta chiesa a servizio dei pellegrini della Terrasanta, dedicata ai Santi Biagio e Cataldo. La prima consacrazione della chiesa risale al 1188. Nel 1222 la beata Giuliana dei Conti di Collalto giunse su questa isola dove fondò un monastero annesso alla preesistente chiesa. Nel XVI secolo l'intero complesso subì un importante restauro, e la chiesa venne completamente rinnovata per mano di Michele Sanmicheli. Un ultimo restauro venne effettuano agli inizi del '700, sotto la direzione di Domenico Rossi e di Giorgio Massari. I lavori comportarono anche la demolizione del coro pensile le cui colonne furono impiegate per realizzare il portico laterale della vicina chiesa di S. Eufemia. Si rinnovarono anche gli arredi, gli altari e la decorazione pittorica con nuovi dipinti e pale d'altare.
A giudicare dalla vastità e dal numero degli ambienti, oltre ai fatti storici a cui fu legata (tra i quali la visita di Pio VII nel 1800), si deve pensare che la Chiesa e il monastero dei Santi Biagio e Cataldo avessero raggiunto nei secoli una notevole consistenza edilizia e una sempre maggiore importanza.
Ciò non valse però ad impedirne la soppressione nel 1810 e la conseguente spoliazione. Fu dapprima utilizzato come ospedale per malattie infettive, quindi il complesso passò in mano a privati che iniziarono a demolirlo per ricavare materiale da costruzione. Nel 1882 quel poco che restava fu raso al suolo e disperso.




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lunedì 11 ottobre 2010

Liber Mutus

Il Liber Mutus rappresenta il più famoso ed enigmatico testo alchemico. Il libro tratta del processo psicologico di realizzazione del sé proiettato dagli alchimisti nella trasmutazione della materia, la ricerca dell'immortalità, simbolizzata dall'oro, nel Lapis Philosophorum, e nell' elixir vitae.
In sole 15 tavole, sono illustrate tutte le operazioni fondamentali della Grande Opera attraverso un insieme di immagini allegoriche, ricche di dettagli, il cui simbolismo il lettore è chiamato ad interpretare. Il linguaggio iconografico è considerato sufficiente di per sé a comunicare quei segreti che è impossibile esprimere per mezzo della parola.
Le uniche frasi scritte si trovano nella prima, nella penultima e nell'ultima tavola. Nella prima tavola leggiamo: "Il Libro Muto, nel quale l'intera filosofia ermetica viene rappresentata in forma di figure geroglifiche, consacrato a Dio misericordioso, tre volte massimo ottimo, e dedicato ai soli figli dell'Arte, da un autore il cui nome è Altus".
Le enigmatiche serie di numeri e di sigle che seguono vanno lette al contrario (da destra a sinistra) e si rivelano essere dei riferimenti a specifici versetti biblici.
Nella penultima tavola, in fondo, leggiamo: "Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai": consiglio singolare per un libro in cui non c'è praticamente nulla da "leggere" in senso stretto, eppure è un invito prezioso a ricavare dalle immagini quegli insegnamenti che la parola non potrebbe comunicare.
Nell'ultima tavola, i due filatteri che escono dalla bocca dell'uomo e della donna inginocchiati di fronte alla gloria dell'alchimista recano le parole: "Dotato di occhi chiaroveggenti te ne vai".
La prima edizione stampata del Liber Mutus fu pubblicata a La Rochelle nel 1677. Le tavole, ridisegnate e migliorate dal punto di vista grafico, furono poi incluse nella monumentale Biblioteca Alchemica Curiosa di Manget (Genève, 1702). Seguirono quindi varie riedizioni del libro, tra le quali merita una menzione particolare una versione a colori, ritrovata in un manoscritto della fine del XVIII secolo custodito alla "Library of Congress" di Washington.
Una preziosa copia della versione manoscritta originale fu portata a Venezia da Joserf Nassì e nascosta nel giardino segreto di Melchisedec dietro alla Schola Levantina in Ghetto Vecchio...




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giovedì 7 ottobre 2010

Frederick Rolfe, Baron Corvo

"Corvo", perché questo epitaffio? Per romanticismo?
A Rolfe era sempre piaciuto il blasone, quand'era seminarista si componeva lo stemma, immaginava insegne, arrivava in refettorio con un corvo impagliato sulla spalla.
Una vita di solitudine e di miseria, un carattere instabile, eccentrico, cavilloso, vizioso, vendicativo, dotato per tutte le arti, sempre in lite con gli amici, cartomante, invaghito del passato della Chiesa, del Rinascimento, adorava i fasti cattolici senza la vocazione del sacerdozio.
A. Symons, nella sua famosa Quest for Corvo (indagine postuma condotta presso tutti coloro che avevano conosciuto Rolfe), traccia la sua vita dal seminario fino a Venezia.
Baron Corvo però non doveva trovare da appollaiarsi in quella città senza alberi.
Membro del circolo nautico del Bucintoro, Corvo aveva anche imparato a condurre la gondola, arte antica e difficile. Quando cadeva in acqua, continuava a fumare la pipa, così come Byron quando nuotava nel Canal Grande teneva il sigaro in bocca per "non perdere di vista le stelle".
Corvo, autore del prestigioso Adriano VII (1904), che conobbe il successo solo dopo la sua morte (1913), ci ha lasciato, del suo incontro con Venezia, una lettera bella quanto una notte bianca in laguna: "Un mondo crepuscolare, fatto d'un cielo senza nubi, d'un mare senza increspature, dove tutto è malva, tiepido, liquido e limpido, tagliato da strisce di rame bronzeo, che va fondendosi nell'azzurro insondabile".
Ancora ci sembra di vedere Corvo scacciato da tutte le locande, portare a spasso i suoi panni in un paniere e dormire sul fondo di una barca, sempre sull'orlo del suicidio, scrivere a fior d'acqua su un quaderno gigante, in pieno inverno, le sue famose "Lettere a Millard" che nessuno potrà mai leggere.


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lunedì 4 ottobre 2010

Osterie, Bacari e dintorni a Venezia

A Venezia si incontrano diverse Calli del Magazen (di cui vediamo nella foto un nizioletto curiosamente reinterpretato), ma contrariamente a quanto potrebbe sembrare i Magazen non erano "magazzini", ma rivendite di vino al minuto. Nei Magazen inoltre si praticava il prestito su pegno e vi si riceveva in cambio due terzi in denaro e un terzo in vino di bassa qualità, detto appunto “vin da pegni”.
Anticamente a Venezia esistevano varie tipologie di locali, oltre ai magazen c’erano le osterie, che svolgevano anche funzione di albergo, poi c’erano le malvasie, dedite alla sola rivendita di vino foresto, cioè straniero (ricordiamo che la malvasia non è un vino siciliano ma greco), poi c’erano i bastioni e i samarchi, vere e proprie bettole dove si potevano anche mangiare i famosi cicheti, cioè gli antenati delle tapas spagnole, poi c’erano le furatole, dove si consumavano pasti veri e propri, infine c’erano i fritolini, dove si consumava solo pesce fritto e polenta.
Più recenti sono i "bacari", locali dove tradizionalmente si beve un'ombra di vino e si gustano i cicheti. Il nome forse deriva dai "bacari" (singolare: bacaro), un termine, che a sua volta deriva dal "Baccho", dio del vino. Secondo un'altra teoria deriva da "far bàcara", espressione veneziana per "festeggiare". "Bacari" si chiamavano una volta quei vignaioli e vinai, che venivano a Venezia con un barile di vino per venderlo in Piazza San Marco, insieme con dei piccoli spuntini.
Nei veri bacari è possibile consumare anche vino di ottima qualità.

"Chi ben beve, ben dorme,
chi ben dorme, mal no pensa,
chi mal no pensa, mal no fa,
chi mal no fa, in Paradiso va.
Ora ben bevè che el Paradiso avarè!"


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giovedì 30 settembre 2010

Il convento di San Lorenzo

Un primo monastero di monache benedettine riservato al patriziato venne fondato nell’850 per iniziativa della potente famiglia Partecipazio, con il tempo il complesso accrebbe le sue ricchezze in maniera vertiginosa, già nel 1100 era proprietario di circa 200 immobili in città e vari appezzamenti in campagna, tutte rendite utili che si sommavano alle ricche doti portate delle novizie che provenivano tutte da benestanti famiglie nobili.
Nel tempo chiesa e monastero hanno subito numerosi lavori di restauro e modifiche, durante uno di questi lavori andarono purtroppo dispersi i resti di Marco Polo che qui era sepolto. San Lorenzo oltre ad essere uno dei due conventi riservati ai patrizi (l’altro è San Zaccaria) era anche uno dei cinque conventi doppi dove cioè vivevano sia frati che monache. E' chiaro che trattandosi di donne costrette alla vita conventuale dalle loro famiglie solo per accrescere il capitale dei figli maschi, queste non erano esattamente guidate dalla vocazione! E così per rivalsa esigevano distinzioni e privilegi, anzi, nei conventi, lontane dalla severità familiare, erano in un certo senso più libere e potevano abbandonarsi ad un ozio raffinato e libertino.
Ma non tutte accettavano supinamente il loro destino: una voce forte fu quella della monaca  Anna Tarabotti che all’inizio del 1600 scrisse un libretto titolato: “L’inferno monacale”, dove denunciava le autorità politiche e religiose di basso maschilismo, contestando i condizionamenti, le repressioni e le mortificazioni che le sue contemporanee, lei per prima, dovevano subire – ma fu una voce isolata, le costrizioni perdurarono e così i vizi ed i lussi delle monache. Da citare una nota dal diario del Granduca di Toscana Cosimo III, che venne qui in visita agli inizi del 1700, dove descrisse le monache in ”abito più da ninfe che da monache”.
Ma tutta questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze indesiderate – in tutta la città per questo v’erano diverse imprese che producevano contraccettivi, fabbricati con budella di animali, in dialetto erano chiamati "condoni", termine che qualcuno fa risalire ad un ipotetico medico inglese Condom di cui però non c’è alcuna certezza della sua esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere”="proteggere". Questo interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel 1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno di Napoli (ed è per questo tra l’altro che la sifilide viene anche detta "mal francese", cosa curiosa è che in Francia invece la chiamano "mal napolitaine"). Tra i personaggi famosi colpiti dalla sifilide ricordiamo Casanova, Giorgio Baffo e Papa Giulio II!




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lunedì 27 settembre 2010

Le profezie di San Malachia

San Malachia era un monaco benedettino irlandese vissuto nell'XI secolo. Nato ad Armagh nel 1094, ancora adolescente divenne l'abate del proprio convento. Cominciò ad avere visioni nel 1139, in occasione del suo primo viaggio a Roma. Dopo questa visita Malachia O'Morgair scrisse le proprie profezie, composte da 111 frasi in latino, corrispondenti a 111 pontificati, da quello di Celestino II (1143-1144) fino all'ultimo pontefice, Petrus Romanus. Il penultimo è l'attuale pontefice, Benedetto XVI.
Secondo la profezia con l'ultimo papa Petrus Romanus, che secondo alcuni sarà portoghese, la Chiesa Cattolica Romana concluderà la propria esistenza.
San Malachia morì il giorno da lui stesso predetto: il 2 novembre 1148, a Chiaravalle, presso il suo grande amico San Bernardo da Chiaravalle.
Le sue Profezie vennero archiviate in Vaticano e pubblicate parzialmente la prima volta a Venezia solo nel 1527. La lista completa delle profezie venne poi pubblicata, sempre a Venezia, da Arnold Wion nel 1595. La scelta di pubblicare le Profezie di San Malachia a Venezia dipese sia dalla grande libertà di stampa ivi presente, sia per la presenza della più grande industria editoriale e tipografica d'Europa.
Questi sono i papi veneziani da lui profetizzati e realmente accaduti:
- Gregorio XII (1406-1415) (Angelo Correr): "Nauta de ponte nigro" [marinaio del Ponte Nero] Angelo Correr fu infatti anche vescovo dell'Isola di Negroponte, allora possedimento veneziano
- Eugenio IV (1431-1447) (Gabriele Coldumer): "Lupa coelistina" [lupa celestina] La lupa appare sullo stemma di Siena, città di cui fu vescovo, e dove faceva parte dell' Ordine dei Celestini
- Paolo II (1464-1471) (Pietro Barbo) "De cervo et leone" [del cervo e del leone] Egli fu vescovo di Cervia ("cervo") nei pressi di Ravenna, mentre il leone è chiaro simbolo marciano
- Alessandro VIII (1689-1691) (Pietro Vito Ottoboni) "Poenitentia gloriosa" [penitenza gloriosa] Allusione alla vita penitente di San Bruno, commemorato il 6 ottobre, giorno in cui Pietro VIto Ottoboni fu eletto Papa
- Clemente XIII (1758-1769) (Carlo della Torre Rezzonico) "Rosa Umbriae" [rosa dell'Umbria] Carlo fu governatore dell'Umbria, regione di San Francesco d'Assisi, "Rosa" della Cristianità
- Pio IX (1903-1914) (Giuseppe Melchiorre Sarto) "Ignis ardens" [fuoco ardente] Forse in riferimento al fatto che quando iniziò la Prima Guerra Mondiale Pio IX voleva assolutamente recarsi al fronte per impedire i combattimenti
- Giovanni XXIII (1958-1963) (Angelo Giuseppe Roncalli) "Pastor et Nauta" [pastore e marinaio] che condusse la Chiesa in una nuova direzione

L'attuale Papa Benedetto XVI, è descritto come "De gloria olivae". Il motto "De gloria olivae" è stato collegato al nome "Benedetto" perché alcuni benedettini  sono anche chiamati "monaci olivetani". Da notare che nell'araldo del Papa è raffigurata un persona di colore sul lato sinistro del simbolo della Diocesi di Frisinga di cui Ratzinger fu arcivescovo. Il termine "olivae" è stato collegato al colore di questo viso di moro. Il 26 aprile 2009 Benedetto ha proclamato santo Bernardo Tolomei, fondatore dell'ordine degli Olivetani.

Alcuni interpreti del testo di Malachia ritengono che Petrus Romanus non si riferisca ad un Papa successivo a questo ma a San Pietro, il primo Papa della storia, quindi l'ultimo papa sarebbe quello attuale...




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(Fonte: P.Zoffoli)

giovedì 23 settembre 2010

I Cavalieri di Malta

L'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detto dei Gerosolimitani, poi di Rodi, infine di Malta, è tra i più illustri e celebri ordini cavallereschi.
Nata come pia fondazione degli Amalfitani a Gerusalemme, amministrava una chiesa e un ospizio vicino al Santo Sepolcro, e si dedicava all'attività ospedaliera e all'assistenza dei pellegrini in Terra Santa almeno dalla seconda metà del sec. XI.
Al momento della conquista di Gerusalemme nel 1099, la confraternita religiosa era guidata da Gherardo. L'entrata massiccia dei cavalieri latini in Terra Santa moltiplicò le attività dell'Ordine. Nel 1123 una Bolla di papa Pasquale II attribuiva ai Gerosolimitani le caratteristiche formali di un ordine religioso della chiesa romana. L'Ordine fu poi costretto dalla situazione politico-militare ad assumere anche compiti difensivi e militari. Da quel momento il nucleo dell'Ordine sarà composto da frati cavalieri, frati servienti e frati cappellani, tutti e tre con voti religiosi di castità, povertà ed obbedienza e compiti ospedalieri e militari.
La prima notizia dell'esistenza di un Priorato Gerosolimitano a Venezia si ha con una lettera di papa Nicolò IV datata 11 settembre 1292 con la quale si ordina al Priore dell'Ordine di San Giovanni a Venezia di impiegare metà delle sue risorse per il sostentamento delle galee inviate in Terra Santa.
Dapprima l'abito dei membri dell'Ordine era una tunica nera con una semplice croce di stoffa bianca, cucita sul petto. Frà Raimondo de Puy introdusse, con la prima Regola dell'Ordine, la croce bianca ottagonale (la croce di Malta), che è rimasta emblema dell'Ordine. La tradizione vuole che la benemerita croce di Malta rappresenti e ricordi perennemente le otto beatitudini evangeliche.
La marina dell'Ordine fu probabilmente la prima nell'Europa del Medioevo ad usare uniformi uguali. I cavalieri infatti portavano tutti sopra la corazza la sopravveste dell'Ordine rossa con croce latina bianca (la croce di Malta era usata come segno personale di appartenenza all'Ordine e non come simbolo militare).
La marina dell'Ordine, con la sua flotta, dovette consegnarsi nel 1798 al corpo militare della spedizione in Egitto di Napoleone, rompendo la neutralità di un Ordine religioso i cui cavalieri avevano promesso di non battersi contro altri cristiani. Il 12 giugno 1798, dopo più di cinquecento anni di gloriosa esistenza, le bandiere rosse e bianco-crociate furono ammainate per l'ultima volta.
A Venezia esiste ancora la Chiesa di San Giovanni Battista sede del Gran Priorato di Lombardia e Venezia dell'Ordine di Malta (Castello 3253).

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