lunedì 10 giugno 2013

Poesia e musica nelle villotte friulane

La villotta è una particolare forma polifonica a tre o quattro voci su testi di vario metro, nata nel XV secolo e di origine friulana.
La diffusione in altre zone dell'Italia settentrionale diede luogo a forme locali, quali la villotta alla veneziana e la villotta alla mantovana.
Il musicologo Fausto Torrefranca (1883 - 1955), sostiene la villotta nascere alla fine del ‘400 come aria di danza a canto, dove la voce portante veniva mescolata, in un dialogo tra voce solista e coro d’accompagnamento, a comporre una polifonia, incatenata dal “nio”, sorta di ritornello atto al ballo, ma anche legante tra diverse quartine.Sembra una stretta gabbia, ma è la forma di espressione che ha funzionato per almeno quattro secoli permettendo alla forma di modello chiuso una libera e fertile espressione popolare ancora viva seppur in forma popolaresca.
Michele Leicht (1827-1897), storico cividalese, sostiene che questi piccoli canti sono la forma filosofica friulana per aggiungere contenuti e arricchire lo spirito.Un pensiero malinconico che libera, o che allarga la sensazione momentanea di libertà, per insaporire il presente. La vena poetica stava nella grande capacità di rimescolare le parole e tirare fuori il succo, alludendo, pungendo con ironia, senza mai toccare il nervo del dente che duole. Un lampo che scoppiettando arriva dritto al bersaglio.
Angelo Dalmedico, in "Canti del popolo Veneziano" nel 1848, e probabilmente riferendosi ai friulani immigrati a Venezia, dice: “Sino alla fine del secolo passato, le villotte venivano cantate accompagnate dal contrabbasso, dal mandolino e dalla chitarra. Ora vengono cantate dalle donne accompagnate dal cembalo coi sonagli, tessendo un ballo con un intermezzo che chiamano “nio” che ha una musica ancora più allegra".
Forse chi delle villotte ne ha scritto in maniera più estatica è stato Pier Paolo Pasolini (1922-1975) , che definisce un “cjandît lusôr inocent” (una luce candida e innocente) così ne scrive “Brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito talvolta ciecamente malinconico, malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi di pino, nelle notti tiepide”.

Vorave far la morte picinina:
morto la sera, e vivo la matina
Vorìa morire e no vorìa la morte
Vorìa sentir chi me pianze pì forte.
Vorìa sentir i me amici e i me parenti,
Vorìa sentir li preti con la croze
Et lo mio amor a gridar ad alta voze

Sant’Antonio miracoloso
Fé che fasso pase con mio moroso
E se no volé che fasso pase co lu
Andéve a far benedir anca vu

Ch’el mar fusse d’inchiostro mi vorave
E’l ciel ch’el fussi duto quanto un sfoio:
el nome suo in continuo scrivarave
digando a tuti el ben che mi ghe voio.

Esser vorave un oselin de un’ora
E svolarghe al mio ben dove el lavora
Svolarghe su la ponta del capelo
Per dirghe: - cossa fastu, amante belo?

Ma mi vorìa far come fa’l vento
Batter giù li balconi e saltar dentro
Saltar di dentro senza far fracasso
Darve tre basi e poi andare a spasso

Che fosse ‘na viola, dio el volesse!
E in piazza l’ortolana me portasse:
vegnesse el me moroso, e el me crompasse
e sora el so capel el me metesse!

venerdì 24 maggio 2013

Wagner a Venezia

Dopo un primo soggiorno dal 1856 al 1859, Richard Wagner e la sua famiglia tornarono a Venezia nel 1882. Dapprima alloggiarono all'hotel Europa poi si trasferirono a Cà Vendramin-Calergi.
Il loro appartamento era all'ammezzato nell'ala affacciata sul giardino, era formato da 28 stanze, cucina e servizi; Wagner apprezzava soprattutto la grande sala per ricevere gli ospiti, la cui doppia finestra offriva una splendida vista sul Canal Grande.
Franz Liszt, che andò a trovare la figlia Cosima e il genero, soggiornò a Cà Vendramin-Calergi sul finire del 1882. Liszt e Wagner furono visti spesso seduti uno di fronte all'altro, davanti all'ampia finestra sul Canal Grande, mentre chiacchieravano. Fu proprio qui che Liszt scrisse la prima stesura de "La lugubre gondola" ispirata dai remi di una gondola che, racconta gli "bastonavano il cervello".
Ma a Wagner non sarà concesso di godere a lungo della bella casa veneziana. Egli infatti morirà, nel suo studio, il 13 febbraio 1883, a causa di una paralisi cardiaca.
Le sue spoglie furono trasportate via gondola alla stazione ferroviaria e da lì in treno fino in Baviera. D'Annunzio descrisse il trasporto della salma di Wagner nel suo romanzo "Il fuoco" scrivendo "Il mondo pareva diminuito di valore", sempre D'Annunzio dettò le parole per la lapide posta sul muro esterno del palazzo, verso il Canal Grande. Il 19 aprile venne organizzato un concerto in suo onore nel giardino del palazzo, concerto al quale assistettero centinaia di barche ormeggiate in Canal Grande.
Spesso, durante i suoi numerosi soggiorni a Venezia, a Wagner capitava di assistere in Piazza San Marco a concerti tenuti dalle bande musicali militari austriache che suonavano sue opere. I veneziani ascoltavano volentieri, ma non applaudivano mai; non per mancata ammirazione verso Wagner ma per dispetto verso i militari austriaci.
La vigilia di Natale del 1882, per festeggiare il compleanno della moglie Cosima, Wagner diresse un concerto privato nelle sale Apollinee della Fenice. Fu suonata la Sinfonia in Do maggiore, opera giovanile, eseguita dagli allievi e dagli insegnanti del Liceo Benedetto Marcello (la bacchetta è stata gelosamente conservata). Liszt era presente, e su richiesta di Wagner, suonò al pianoforte un'aria di Rossini.

domenica 28 aprile 2013

La chiesa di Santa Croce alla Giudecca

La chiesa e il complesso conventuale risalgono agli inizi del 1300, ma già nel 1500 subì una radicale ristrutturazione, e ulteriori rimaneggiamenti ebbero luogo lungo i secoli.
La chiesa un tempo era molto nota oltre che per i ricchi arredi, anche e soprattutto per il gran numero di reliquie in essa conservate, in essa infatti si trovavano: reliquie lignee della Croce di Cristo (da cui il nome della Chiesa), l'indice della mano destra di San Giovanni Crisostomo, la testa di San Teofane martire, un piede di Santa Teodosia martire, il corpo di Sant'Atanasio patriarca di Alessandria e il corpo della beata Eufemia Giustinian, già badessa del monastero.
Eufemia Giustinian nacque nel 1409 e all'età di soli sedici anni entrò nel monastero della Santa Croce alla Giudecca, per divenirne badessa nel 1444. La sua grande carità cristiana si era mostrata concretamente durante una grave pestilenza che colpì la città nel 1464, in quell'occasione dimostrò animo intrepido assistendo numerosi malati afflitti dalla peste. Morì nel 1487 e il suo corpo si mantenne incorrotto. Venne poi beatificata.
Legato alla figura della badessa e ad un pozzo del monastero è nota un'antica leggenda. Sempre durante la pestilenza del 1464 successe al monastero un fatto straordinario: si narra che una notte qualcuno bussò alla porta del convento, la badessa aprì lo spioncino e vide un uomo incappucciato, senza timore alcuno aprì la porta allo sconosciuto e lo invitò ad entrare. Lo straniero disse di essere assetato e di stare semplicemente cercando un poco d'acqua. La suora lo condusse quindi al loro pozzo e gli porse da bere. L'uomo si scoprì il volto e svelò di essere San Sebastiano. Colpito dalla generosità di Eufemia annunciò che l'acqua di quel pozzo avrebbe preservato le monache di quel convento dal morbo della pesta.
A tal punto si diffuse la leggenda che durante la peste del 1575 (quella del Redentore) frotte di persone si accalcavano quotidianamente davanti al portone del monastero chiedendo di poter bere l'acqua del pozzo di San Sebastiano; addirittura più volte le suore furono costrette a chiamare le forze dell'ordine per far sciogliere gli assembramenti!
Con l'arrivo di Napoleone  il monastero fu soppresso e divenne una casa di correzione che arrivò ad ospitare diverse centinaia di detenuti. Fu poi un magazzino per la raccolta del tabacco, e dagli anni sessanta del Novecento è divenuta sede sussidiaria dell'Archivio di Stato di Venezia.

lunedì 1 aprile 2013

La Battaglia di Lepanto e l'astuzia dei veneziani

La Battaglia di Lepanto, nel golfo di Patrasso, fu lo scontro decisivo tra la flotta cristiana e quella turca.
Il 20 maggio del 1571 Papa Pio V creò la Lega Santa alla quale parteciparono oltre allo Stato Pontificio, Venezia, Genova, la Spagna, i Savoia e Malta -  la flotta cristiana era formata da circa 200 galere di cui oltre la metà erano veneziane, con al comando il Capitano da Mar Sebastiano Venier, la flotta turca ne aveva circa 250.
La prima linea della flotta cristiana era formata da galeazze mercantili veneziane trasformate per l’occasione in navi da guerra, ma  quello che i turchi non sapevano era che erano state armate di cannoni non solo a prua, come tutte le normali galee, ma anche sui fianchi e a poppa.
La mattina del 7 ottobre avvenne lo scontro, le galeazze veneziane in prima fila stavano molto distanziate tra loro e i turchi lo interpretarono come un errore tattico e attaccarono subito infilandosi con gran parte della loro flotta tra la galeazze veneziane. Appena giunsero all’altezza delle navi queste distribuirono una tale potenza di fuoco dai fianchi che la flotta turca venne subito quasi dimezzata, non ebbero tempo di capire cosa fosse successo che il resto della flotta cristiana attaccò e la vittoria fu piuttosto rapida, anche perché i veneziani attaccarono e affondarono la galeotta dell’ammiraglio responsabile di tutta la potenza turca, Alì Pascià, uccidendolo. La flotta turca fu quasi completamente distrutta, mentre quella cristiana subì, tutto sommato, poche perdite.
La gioia per la vittoria fu enorme e si festeggiò in tutta Europa – naturalmente il Papa non poteva certo ammettere che il merito della vittoria fosse per lo più dei veneziani, così proclamò che era stato grazie alla Madonna del Rosario (che si festeggia appunto il 7 ottobre)...

lunedì 18 marzo 2013

Chiesa e Ospedale di Santa Maria dei Derelitti

 All’inizio questa istituzione era piuttosto modesta, poi all’ospedale venne affiancato un ricovero per orfani: ai ragazzi si insegnava un mestiere e alle ragazze si insegnava musica; ma quello che era un intento solo educativo divenne presto fonte di notevoli entrate economiche, la gente faceva la fila per venire a ascoltare le voci soave delle fanciulle! Fu così che tra gli incassi della scuola di musica e il lascito testamentario di Bartolomeo Carnioni fu possibile ampliare l’ospedale e far costruire la facciata - realizzata dal Longhena - divisa in tre parti: quella inferiore in stile ionico, con mascheroni e festoni di frutta (la scultura sopra l’ingresso rappresenta la Madonna addolorata, un accenno al tema della sofferenza dei malati ospiti dell’ospedale annesso), la fascia centrale presenta dei telamoni con la Pecten Pilgrimea (cioè la conchiglia dei pellegrini) uno porta una borraccia ed un altro un rosario (allusioni alla funzione assistenziale e caritatevole dell’ospedale), nella nicchia centrale: busto di Bartolomeo Carnioni (ricco mercante che possedeva un negozio alle Mercerie e che alla morte, essendo senza eredi, lasciò tutto a questo Ospedale; egli aveva un negozio con insegna allo struzzo, animale che compare ai suo lati; le penne dello struzzo erano simboli di equità e giustizia per il fatto che hanno tutte la stessa lunghezza), la terza parte è l’attico, cioè quell’elemento architettonico continuo che si poneva attorno al tetto per nasconderlo, elemento usato per la prima volta appunto in “Attica” una regione della Grecia.
L'ospizio vero e proprio è un edificio a tre piani, addossato alla chiesa, e vi erano ospitate un centinaio di giovani. La corte interna, anch'essa opera del Longhena, detta "Corte delle quattro stagioni" presenta una vera da pozzo e alcune statue che ricordano lo stile delle ville venete lungo il Brenta. Nel 1770 i gestori dell'Ospedaletto decidono di trasformare la cucina in una prestigiosa sala da musica, che fu decorata da Jacopo Guarana e Agostino Mengozzi. Tutti gli affreschi sono naturalmente a tema musicale, il più notevole è senz'altro quello in fondo alla sala, titolato "Il concerto delle putte intorno ad Apollo". La sala della musica conobbe però una vita breve in quanto nel 1797, anche l'istituzione dell'Ospedaletto, così come di tutti gli altri ospedali, venne soppressa da Napoleone.

mercoledì 6 marzo 2013

Caterina Corner Regina di Cipro

Fin dal Duecento i veneziani erano presenti a Cipro dove praticavano diversi commerci – l'isola infatti era ricca di vini pregiati e di zucchero (all’epoca prezioso quanto il sale).
Cipro raggiunse il massimo splendore sotto la stirpe dei Lusignano (famiglia di origini francesi) dal 1100 al 1400. La stabilità venne meno quando morì Giovanni II senza figli maschi: il regno passò alla figlia Carlotta che aveva sposato un Savoia, ma Giovanni II aveva anche un figlio illegittimo, Giacomo, che appoggiato dai Veneziani occupò l’isola con la forza ed esiliò Carlotta.
Giacomo si rivolse quindi a Venezia per cercare una sposa e in particolare alla famiglia Corner, la quale aveva forti legami commerciali con i Lusignano. Sull’isola risiedeva stabilmente Andrea Corner mentre suo fratello Marco teneva le relazioni con la piazza di Venezia. Marco aveva una figlia, Caterina, che divenne così, a soli 12 anni la promessa sposa di re Giacomo, sotto la pressione della Repubblica stessa che aveva tutti gli interessi a mantenere un piede nell’isola, e così al compimento del 18° anno Caterina partì per Cipro, con un corteo formato da 4 navi veneziane e 3 cipriote.
L’accoglienza riservata a Caterina a Cipro fu eccezionale, con grandi festeggiamenti e regali da parte del popolo, ma ben presto cominciarono i guai: Giacomo, molto più anziano di lei, aveva già tre figli avuti da tre donne diverse e la convivenza si rivelò difficile... Dopo solo un anno Caterina rimase incinta, ma prima che potesse partorire, Giacomo morì cadendo da cavallo, lasciando il regno nelle sue mani. Fu così che Caterina Corner divenne Regina di Cipro.
Il popolo però si dimostrò presto scontento per via della sua condotta di vita tutta concentrata sui propri piaceri, quasi dimentica del popolo cipriota. Le cose poi peggiorarono con la morte dello zio Andrea e del figlio che nel frattempo era nato. Subito si ripresentarono i Lusignano e i precedenti figli di Giacomo, tutti pretendevano al trono; Venezia dovette intervenire militarmente per sedare ogni pretesa e Caterina fu riconfermata sul trono affiancata da due Consiglieri veneziani.
Ma la Regina sola, triste e annoiata non trovò altro modo per consolarsi che concedersi  lussi ben al di là delle sue possibilità; e di nuovo il malcontento del popolo si fece sentire... fu così quindi che la Serenissima la convinse ad abdicare, promettendole in cambio un appannaggio di 8mila ducati annui e la consegna della villa di Asolo dove si ritirò circondata dal suo seguito e dalla fama per essere stata la prima e unica Regina figlia di Venezia.
Il suo ritorno a Venezia è all'origine di un celebre evento in città, ma questa è un'altra storia...

mercoledì 27 febbraio 2013

Venezia altrimenti - Venise autrement - Venice otherwise


Da un'idea di Walter Fano e Valeria Cozzarini.
Riprese e montaggio di Valeria Cozzarini,
Musiche di Diego Fano.
Venezia altrimenti

mercoledì 20 febbraio 2013

Fra Paolo Sarpi e la questione Chiesa-Stato

Venezia fin dalla sua fondazione aveva sempre difeso la sua indipendenza non solo politica ma anche religiosa; in particolare rifiutando la giurisdizione di Roma e del Papato. Difatti i rapporti tra la Repubblica di Venezia e la Chiesa di Roma furono sempre molto travagliati.
Un episodio chiave è quello legato alla figura di Fra Paolo Sarpi (teologo, storico e scienziato italiano dell'Ordine dei Servi di Maria). Siamo nel 1606 e a Venezia erano stati arrestati per reati comuni due sacerdoti (che a Venezia venivano giudicati dal Foro civile e non da quello ecclesiastico). Papa Paolo V chiese l’immediata consegna dei due religiosi e con l’occasione pretese anche che fossero abolite alcune leggi di privilegio civile grazie alle quali la Serenissima impediva la costruzione di edifici religiosi senza l’autorizzazione del potere statale, ed altre leggi atte a limitare il controllo di Roma sul clero veneziano.
Venezia naturalmente rifiutò e così il Papa emise scomunica verso la città intera, proibendo a tutto il clero veneziano di operare in alcun modo. La crisi fu retta in modo esemplare dal Doge Leonardo Donà, coadiuvato dal consigliere di Stato in teologia e diritto Fra Paolo Sarpi.
Si rispose al Papa che Venezia, nata in libertà, non intendeva render conto a nessuno delle cose temporali mentre in materia religiosa riconosceva come unico superiore il Signore Iddio e la sua Parola. La Repubblica pertanto vietò la pubblicazione della scomunica nei suoi territori e impose a tutto il clero di continuare senza alcuna alterazione l’esercizio delle pratiche religiose. Tutti gli ordini religiosi presenti a Venezia ubbidirono alla Repubblica; l’unica eccezione furono i Gesuiti, che infatti vennero cacciati dalla città.
Una notte mentre Fra Sarpi tornava verso casa fu assalito da due sicari, sul ponte di Santa Fosca, venne colpito da diverse coltellate ma sopravvisse; dei passanti riuscirono a fermare i sicari che vennero subito arrestati e così si seppe che erano stati inviati da Papa Paolo V per uccidere il frate che tanto abilmente stava difendendo Venezia contro la scomunica! Questo episodio rafforzò ulteriormente la durezza con cui Venezia rispondeva a Roma, ma sopratutto mise sotto una luce diversa la spinosa questione agli occhi delle altre grandi potenze europee.
In ogni caso il braccio di ferro tra Roma e Venezia durò qualche mese, ma alla fine Roma dovette cedere, e Venezia ne uscì vittoriosa, con la riaffermazione della sua doppia indipendenza.
Insomma la minaccia pontificia non aveva avuto altro risultato se non cementare ancor più il legame tra le varie categorie sociali veneziane, e rafforzare il senso di appartenenza ad un' idea di Stato che per l’epoca era davvero impensabile in qualunque altro Paese europeo.
E' interessante altresì notare che Fra Paolo Sarpi è il primo religioso nella storia ad affermare la necessità di tenere separati gli interessi temporali da quelli spirituali (nel secolo precedente, un altro veneziano, il nobile Gasparo Contarini, aveva espresso più volte questo concetto in diversi suoi scritti).

giovedì 6 dicembre 2012

L'Arte dei pasticceri veneziani

"Scaleter" è il termine col quale si indicavano i pasticceri a Venezia. Il nome deriva da alcuni dolci che si producevano in occasioni di feste particolari o matrimoni: erano come cialde con impressi dei segni simili a gradini di una scala.
La prima sede dell'Arte fu nella chiesa di S. Fantin, dove ancora oggi è custodito il loro stendardo con l'immagine di San Fantino, loro protettore. Poi passarono ai Frari e a S. Paternian. Nel Settecento ebbero ospitalità presso la magistratura del Fontego della Farina, a Rialto. Alla fine della Repubblica erano presenti in città 59 botteghe.
Come ogni mestiere aveva delle regole severe: si doveva lavorare quattro anni come garzoni, poi altri sei come lavoranti e infine si poteva affrontare la prova per diventare maestri di bottega; se bocciati bisognava continuare per altri due anni come lavoranti e poi si poteva ritentare. Tra le varie prove si ricordano: "impastar et cucinar dodici savoiardi, dodici pani di Spagna, dodici bozzoladi del Zane, dodici bozzoladi caneladi col marzapan e dodici sfogiade tutti da due soldi l'uno con dodici storti e dodici scalette".
Il Levi segnala che nella loro mariegola (statuto) si trovano alcune disposizioni curiose: "che niun Scaleter ardisca di lavorare o far lavorare in pasta done, cavali, gali, oseli, calisoni ne cesteli".

venerdì 23 novembre 2012

L'ingiusta condanna a morte di Antonio Foscarini

Lungo il rio terà Foscarini, popolarmente detto degli alberetti, sorgeva un palazzo Foscarini, abbattuto nell'Ottocento con l'interramento del rio. Vi abitò il Cavaliere Antonio Foscarini, senatore e ambasciatore di Venezia in Inghilterra e in Francia.
Antonio era l'amante della contessa Alathea Talbot di Arundel and Surrey, consorte di Thomas Howard, Maresciallo d'Inghilterra, che risiedeva a palazzo Mocenigo a S. Samuele. Lì si recava il Foscarini, di nascosto, ogni sera. L'abitazione della Contessa era frequentata da molte personalità, tra esse il segretario dell'ambasciatore di Spagna, stato col quale Venezia non aveva buoni rapporti.
Il Foscarini venne arrestato con l'accusa di aver svelato al segretario spagnolo i resoconti delle sedute segrete del Senato. Fu interrogato per cinque ore, chiuso in carcere e condannato a morte. Era il 20 aprile 1622. Se solo avesse confessato il vero motivo delle sue visite...
Il 22 agosto dello stesso anno il Consiglio dei X ordinava l'arresto di un tale Girolamo Vano. Costui era stato il teste principale  a carico del Foscarini. In carcere Vano confessò e indicò, nella persona di Giulio Cazzari, la vera spia.
Il 16 gennaio 1623, la Repubblica proclamava solennemente il proprio errore e l'innocenza di Antonio Foscarini.
Il suo corpo venne riesumato e Venezia ne onorò la memoria con un funerale di stato, dedicandogli poi la lapide che ancor oggi può essere letta sulla sua tomba, nella chiesa di San Stae.