giovedì 15 maggio 2014

Marco Polo e il Milione

A Genova, nell'autunno del 1298, dopo la battaglia di Curzola, il "nobile cuore dei genovesi ha la gentile saggezza di fare a Marco Polo, tra gli altri cinquemila prigionieri in attesa di riscatto, onorevole cortesia" (Anonimo Genovese).
La prigionia di Marco Polo a Genova è una prigionia dorata, analoga a quella di Re Enzo a Bologna (molto diversa da quella del conte Ugolino a Pisa o da quella di Iacopone da Todi...).
In prigione Marco Polo si ritrova come compagno di cella Rustichello da Pisa, che era lì dal 1284.
Rustichello da Pisa è uno scrittore abbastanza noto, specializzato in rifacimenti di romanzi della Tavola Rotonda. Rustichello non scrive in questo o quel neo-latino d'Italia, né in latino, bensì in "francese di Lombardia" (derivato dalla lingua d'oil).
Nella dorata prigionia di Genova, il veneziano Marco Polo parla e parla col pisano Rustichello, e può darsi che parlino proprio in "francese di Lombardia" (forse Marco parla in "franco-veneto"... è sempre affascinante immaginare in quali lingue comunicassero le persone nei secoli passati).
Verosimilmente Marco Polo è un bravo narratore, a voce. Raccontare le cose oralmente a volte, a certe persone, vien meglio che per iscritto. Per esempio Giovanni da Pian del Carpine raccontava meglio i suoi viaggi a voce che per iscritto. Ma Giovanni da Pian del Carpine era anche uno che provava a scriverli (senza troppo successo) i suoi racconti (in latino); forse qualche impaccio della sua inettitudine di scrittore si riverberava nel parlare. Marco Polo non aveva nemmeno questo impaccio, probabilmente Marco Polo non aveva mai preso la penna in mano, se non per i suoi conti da mercante.
Così, per nostra grandissima fortuna, Marco Polo parla liberamente, a braccio, e Rustichello da Pisa, ascolta, socchiudendo gli occhi. Che storie straordinarie! Come assomigliano ai romanzi della Tavola Rotonda che Rustichello da Pisa ha nelle orecchie!
Poi Rustichello inizierà a scrivere quel che Marco Polo gli racconta.
Che un libro possa nascere così lo vediamo tutti i giorni. Un uomo politico, un capitano d'industria, un campione sportivo o un'attrice, firmano un libro di memorie che è stato scritto per loro incarico da un romanziere o da un giornalista. A volte in copertina figurano i due nomi, a volte ne figura solo uno: il nome di chi non ha scritto il libro...
Fiumi di inchiostro son corsi ponendosi il problema della vera paternità del libro che nasce a Genova sotto la penna di Rustichello da Pisa, seguendo (come?) le labbra di Marco Polo. Una cosa è certa, il libro ha molto l'aria di esser stato scritto da un rifacitore professionista di romanzi della Tavola Rotonda.
Il libro ha subito un'immensa fortuna, proprio perché si fa leggere come un libro di intrattenimento. Uno dei titoli che ha nei codici rimastici è Le divisament dou monde (in "francese di Lombardia" significa: "La descrizione del mondo"). Viene poi riscritto in francese e assume il titolo di Livre des merveilles ("Libro delle meraviglie"). Ha immediatamente una traduzione in latino: De mirabilibus mundi ("Le meraviglie del mondo"). In traduzione latina leggerà questo libro, scritto a Genova, il (forse) genovese Cristoforo Colombo, e ci si scalderà la fantasia, e ci farà delle note (il codice postillato da Cristoforo Colombo si conserva nella Biblioteca di Siviglia). Seguiranno traduzioni in neo-latino veneziano e in neo-latino fiorentino. Titolo: Libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione. Il soprannome "milione" sembra derivare dal fatto che la gente non creda minimamente ai suoi racconti, e ritiene che siano un milione di frottole. Ma tutti ritengono che il libro sia davvero molto bello da leggere.
Il Milione vive quindi molte vite e avrà innumerevoli traduzioni. In molti manoscritti viene trascritto insieme ai romanzi della Tavola Rotonda o ai romanzi del "ciclo classico" (tratti da Omero e Virgilio). Non è forse un caso se Matteo Maria Boiardo, scrivendo l'Orlando Innamorato, fa provenire la bellissima Angelica proprio dal Catai...
Resta da dire che Il Milione, per chi ha gusti letterari, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Oscar Wilde lo metteva nel numero ristrettissimo dei libri che val la pena di leggere, anzi, nel numero ancor più ristretto dei libri che val la pena di rileggere.
Vi consigliamo pertanto di leggere e rileggere il Milione, e non abbiamo altro da dire.

(fonte: G. Dossena)





lunedì 31 marzo 2014

Le origini di Venezia

Sfatiamo subito un mito, e cioè quello della città nata dal nulla da libere genti. 
Il termine “Venetia” infatti, insieme all’Istria era inizialmente una delle regioni in cui l’imperatore Augusto aveva diviso il territorio italico, e da quella regione si sarebbe venuta distinguendo una seconda Venetia, questa volta lagunare composta da isole e lidi sparsi tra le foci dell’Isonzo e del Po.
Ad avviare il processo per cui dalla Venetia continentale veniva creandosi la nuova Venetia marittima erano stati fattori esterni legati all’invasione longobarda del 569. In realtà già nel secolo precedente con le scorrerie degli Unni le lagune avevano offerto un rifugio sicuro alle popolazioni della terraferma, ma in fondo la tempesta barbarica era passata abbastanza rapidamente e le genti profughe avevano potuto rientrare alle loro case. Le cose andarono diversamente invece con i Longobardi, in quanto stavolta si trattava della migrazione vera e propria di un intero popolo ben deciso a fermarsi in Italia, cosicché per le genti che si ritiravano in laguna non si sarebbe più riaperta la via del ritorno. Il primo passo quindi nella costruzione di una Venetia diversa ebbe luogo con l’animo del profugo. In sostanza la difesa del vecchio mondo pre-longobardo (e quindi “bizantino”) divenne motivo per la nascita della nuova civiltà veneziana.
In ogni caso gli insediamenti dei profughi sparsi per la laguna non erano certo ancora identificabili come unità urbana e non lo saranno fino al IX secolo.
E’ importante ricordare che le lagune non erano disabitate prima dell’arrivo dei profughi e già il prefetto Cassiodoro nel V sec. aveva lasciato una descrizione precisa delle zone lagunari, le quali erano pienamente inserite nel sistema organizzativo romano.
Che fosse nata dal nulla quindi, come una Venere dalle acque del mare, ad opera di libere genti che fuggivano dai barbari invasori su isole vuote e selvagge, è un’invenzione costruita per ragioni molto concrete, con un’abilità tale per cui ancora oggi quella leggenda è accettata come verità.
I Veneziani, dai massimi vertici dello Stato fino all’ultimo pescatore avevano ogni interesse ad accreditare un racconto del genere, perché se non c’era nulla non c’erano nemmeno subordinazioni e servitù, sicché il mito delle origini dal nulla rende plausibile e porta con sé quello politicamente assai più rilevante dell’originaria libertà di Venezia, ed è dunque la base del programma ideologico destinato ad impedire ogni pretesa o rivendicazione da parte di qualsiasi autorità esterna, uno status che Venezia difenderà fino alla fine dei suoi giorni, mille anni dopo.
La difesa di questa ideologia avverrà a volte con la forza ma molto più spesso con la diplomazia o con abili mosse politiche, basti ricordare la tempestiva trafugazione del corpo di San Marco ad Alessandria d’Egitto nell’828, avvenuta proprio mentre nel sinodo di Mantova si discuteva la giurisdizione spirituale tra Grado (chiesa lagunare legata alle sorti venetiche) e Aquileia (sede patriarcale in sintonia con le autorità politiche del Papato e città di cui la leggenda narra fosse stata fondata proprio da San Marco…). L’arrivo in città della salma marciana affermò dunque definitivamente l’indipendenza di Venezia dall’autorità politica e religiosa di Roma.
La vera e propria nascita della Venezia urbana si fa risalire al 810 quando Agnello Partecipazio, il primo doge della Repubblica, trasferisce la sede del governo da Malamocco a Rivoalto.
Ma per capire appieno l’unicità della storia veneziana è importante ricordare le radici della sua stessa aristocrazia, che non era legata alla nobiltà di sangue come nel resto dell’Europa, ma era invece nata dalle famiglie dei mercanti locali, mercanti che in prima persona rischiavano per creare nuovi commerci, anche molto lontani, e portare redditi alla città stessa. Quasi sempre infatti Venezia deciderà di usare guerra solo per ragioni di commercio, per difendere quindi il proprio diritto e la propria libertà di commerciare. Fatto questo che colpisce ancor di più se si pensa che nel resto del mondo europeo il trattar denaro era considerato nient’affatto nobile, solo i possedimenti terrieri e lo sfruttamento erano considerate attività aristocratiche.
Ecco quindi che la difesa dei propri interessi, e la possibilità di trarne vantaggio per tutte le fasce sociali, compatta l’intero popolo veneziano in una identificazione statale impossibile altrove.

(Fonte: Ortalli e Scarabello)
 

lunedì 6 gennaio 2014

Il sistema fognario veneziano

La laguna, si sa, è da sempre le difesa naturale di Venezia, che difatti non ha mai avuto bisogno di costruire mura difensive. Ma le sue acque hanno però anche un altro, fondamentale, pur se più umile, compito: quello di ripulire la città.
Tutto il sistema fognario di Venezia è affidato all'acqua dei suoi canali che due volte al giorno, con il ritmo della marea, portano via l'acqua sporca e riportano l'acqua pulita dal mare: "l'acqua va in mar" e "il mar va in acqua" dicono i veneziani per descrivere questo processo.
Oggi il mare è forse meno limpido di un tempo, ma tuttora la marea crescente porta un fiume di acqua pulita in ogni rio della città e trascina via lordure d'ogni genere.
Venezia era considerata città pulita e salubre, almeno sino a che le nuove tecniche non dotarono le altre città di sistemi fognari più moderni ed efficienti.
Tutte le abitazioni erano dotate di un sistema di tubature di ceramica, dette canoni da necessario (sembra evidente che cosa si intendesse per necessario...), inserite all'interno dei muri, che scaricavano le acque nere nei gatoli, canalizzazioni sottostanti le pavimentazioni stradali. Da qui venivano convogliate nei canali. Il sistema funziona in gran parte ancora oggi, con qualche cautela in più: prima di arrivare nei rii, il materiale si deposita e decanta nelle vasche biologiche, mentre altre misure igieniche si prendono per gli alberghi e altre sedi.
Fondamentale rimane comunque la funzione di igiene urbana operata dalle acque lagunari.

(Fonte: G. Gianighian, P. Pavanini)

giovedì 7 novembre 2013

Le origini delle Regate veneziane

Le origini delle Regate si fanno risalire al XIII secolo, anche se, considerando la competitività degli uomini, possiamo facilmente immaginare i pescatori e gli ortolani sfidarsi a gara tra loro per raggiungere i mercati, fin dai tempi della prima colonizzazione della laguna.
Il termine "regata", che oggi è internazionale (inglese "regatta", francese "régate", tedesco "regatta"...), è voce veneta, a sottolineare la paternità veneziana di tutte le moderne competizioni remiere. C'è chi lo fa derivare da "riga", intesa come l'allineamento di partenza, chi da una contrazione di "remigata" (remata), chi da dal termine "recaptare" cioè contendere.
Il termine regata passò a Genova nel XIII secolo, in Inghilterra e in Francia nel XVII secolo, in Germania e in Spagna nel XVIII.
Nella tradizione veneziana l'origine della regata è legata alla Festa delle Marie che si celebrò a Venezia fin dall'anno 942. In un pometto in versi latini del 1300 circa, viene descritta una gara su barche con premio "come si suol fare nella corsa dei cavalli"; detto per inciso, la frase "positum praevia munus habet, ut solet in cursu fieri certamen equorum" è forse la più antica memoria scritta di regate, se si eccettua la nota di un antico manoscritto che parla di una regata che si sarebbe svolta il 16 settembre 1274.
Queste fonti non attestano però l'esistenza di vere e proprie competizioni, come è invece provato dopo il 1300. Un decreto del 1315 del Doge Soranzo ordina che ogni anno, nel giorno di San Paolo (25 gennaio), si faccia una regata per l'esercizio dei giovani ai remi. Il decreto non fa però che dare veste ufficiale alla consuetudine nata tra i balestrieri di gareggiare tra loro lungo il percorso tra San Marco e il Lido.
Il 31 maggio 1531 un altro decreto stabilì che l'Arsenale costruisse 25 galee specificamente da competizione, che gareggiassero, 4 volte l'anno, in occasione delle feste dei SS. Apostoli, della Sensa, di S.ta Marina e di San Bartolomeo. Al primo equipaggio spettavano 200 ducati, al secondo 150, al terzo 100, e così via fino ai 40 del sesto.
Ma le regate venivano organizzate anche in occasioni mondane o di visite di persone importanti. Nel 1369 si tennero due regate in onore del Marchese Nicolò d'Este di Ferrara, nel 1441 se ne corse una per le nozze di Jacopo Foscari con Lucrezia Contarini, così come se ne corsero più d'una nel 1422 in onore di Francesco Sforza e della sua sposa.
Il 1493 è un anno importante perché vi ebbe luogo la prima regata femminile: 48 donne delle isole "in vesti di lino succinte" si dettero battaglia su 12 barche a 4 remi, in onore di Eleonora d'Este.
Con la caduta della Repubblica, nel 1797, anche le regate persero in fasto, pur non venendo naturalmente a cessare.
Giungiamo così al 1899 quando il Comitato Cittadino dei festeggiamenti, nominato in occasione della III Biennale, ebbe l'idea di riproporre fastosamente la Regata durante il periodo dell'esposizione d'arte. Appoggiato da Filippo Grimani (il sindaco d'oro) e con il concorso entusiastico di tutta Venezia, il Comitato riuscì a dar vita prima grande "Regata Storica" dei tempi moderni.

(Fonte: Silvio Testa)

mercoledì 4 settembre 2013

Lo scialle veneziano, un simbolo scomparso

Già al tempo in cui E.M. Baroni scriveva (nel 1921)), con passione di veneziano e commozione d'artista, un libretto-elogio dello scialle veneziano, il bel costume caratteristico andava scomparendo dalle calli di Venezia:

"Ora, questo originale adornamento femminile, questo stupendo ed elegante capo del corredo della donna, accenna a scomparire. Le fanciulle veneziane, specie le più giovani, sembra quasi abbiano in disprezzo lo scialle, e si direbbe che il sogno più roseo di una gaia sartina o di una piccola operaia sia quello di poter indossare la camicetta e sfoggiare il cappello, in luogo di offrire all'ammirazione della folla le ben salde spalle ammantate di nero e al bacio del sole le folte e belle capellature bionde, brune, castane o tizianesche... Lo scialle sta per scomparire... Quel magnifico scialle decorativo dalle ampie pieghe artistiche, dalla foggia che carezza le forme e dava ad esse una seducente flessuosità, una insuperata morbidezza, ed abbelliva il corpo femminile di misteriosi fascini".

I lussuosi scialli adorni di fiori irreali, costituivano il mantello da sera preferito dalla belle ed eleganti dame veneziane. Ma fra tutti, il più semplice e insieme il più elegante, era pur sempre lo scialle nero, fine, adorno di pochi fiori di seta ricamati sul morbido tessuto all'origine delle lunghe, sottilissime frange.

Perché le donne veneziane abbandonarono quasi del tutto lo scialle?
Prima della guerra lo scialle si manteneva nell'uso generale delle popolane, perché la tradizione legava in certo qual modo il diritto di portare lo scialle (el fazuol, dei tempi antichi) all'onestà e alla rispettabilità delle dame, nei secoli passati el fazuol era infatti interdetto  alle meretrici, e la proibizione era rimasta nelle consuetudini.
E venne la guerra. Migliaia di veneziane furono costrette a cercar rifugio in altre città d'Italia, e a rimaner profughe per anni. Trovandosi in ambienti nuovi, dove le donne non portavano lo scialle, le veneziane si adeguarono. E una volta tornate a Venezia, molte di esse non lo indossarono più.
Nel frattempo la svalutazione della lira indusse parecchie donne del popolo a inalberare il cappellino, per contro il prezzo notevolmente aumentato degli scialli, divenuto oggetto relativamente di lusso in confronto dei cappellini e delle blouses, dissuase molte altre donne dal mantenersi fedeli ad un costume che forse avrebbero voluto serbare.
Così in pochi anni di dopo guerra, il caratteristico costume muliebre veneziano scomparve quasi totalmente dalla calli veneziane.

Non sarà possibile far rivivere il graziosissimo costume che s'intona squisitamente con i capelli corti e le gonne succinte voluti dalla moda contemporanea?
La risposta è sì, grazie a Sabrina e Betty della Sartoria dei Dogi, che tra i tanti antichi capi riportati in vita, realizzano magnifici scialli ricamati a mano, in perfetto stile veneziano.
La Sartoria è una delle tappe del tour degli artigiani proposto da L'altra Venezia.

Per informazioni: info@laltravenezia.it

Fonte: "Lo scialle veneziano" di E.M.Baroni, edito da Filippi Editore Venezia


martedì 27 agosto 2013

La maschera di Pantalone, mercante di Venezia

Maschera di Pantalone a Venezia
La compenetrazione radicale tra Venezia e la maschera, pone la questione se fosse il Carnevale ad entrare in tal modo nella quotidianità o se l'ambiguità della maschera si innestasse sulla ambiguità ideologica della società veneziana. Si noti comunque che la maschera di Pantalone, che è la più veneziana, non intende proporre alcun elemento di esotismo o di grottesco, ma soltanto riproporre il prototipo di cittadino veneziano:
"Vada ognun persuaso che questa mascara fosse stata istituita anche prima dell'introduzione delle rappresentazioni teatrali, poiché il vestire di costui denota quello de' cittadini veneti del secolo XVI".

Ricostruendo l'origine del teatro veneziano all'inizio del Cinquecento e segnalandovi la presenza corruttrice di "interlocutori mascherati ridicoli e soggetti a beffe", si rileva tra costoro l'introduzione di un "vecchio cittadino veneziano" che venne chiamato "Pantalone" (sembra dall'abitudine dei mercanti della Serenissima di piantare il vessillo di San Marco ovunque si recassero, per cui detti "pianta leone")
"La maschera veneziana ebbe da principio anche il soprannome di Magnifico. Titolo onorifico molto in uso a Venezia nel secolo XVI, indirizzato soprattutto ai patrizi". Non è improbabile che l'uso di questo titolo venisse anche utilizzato per indicare il lustro e la dignità sociale del mercante veneziano. Titolo infine non disgiunto da un palese intento parodistico, nei confronti di una borghesia che spesso scimmiotta gli attributi dell'aristocrazia.

Dunque originariamente Pantalone non è una maschera ma una caricatura del veneziano modello: mercante, ricco, avaro. Tuttavia alcuni caratteri della maschera (la barbetta a punta, il sopracciglio alzato) sono gli stessi della commedia greca antica.
Spesso Pantalone è raffigurato come un vecchio, perché secondo una tipologia comica già antecedente, i suoi difetti appaiono più marcati e ridicoli. Naso adunco, barba a punta, sopracciglio alzato, sono però anche tratti levantini, quasi giudaici, degni appunto di un "Mercante di Venezia" shakespeariano.
Ma attenzione a quanto avvisava Allardyce Nicoll:
"E' dunque un personaggio d'una drammaticità ben più sottile di quella d'un semplice vecchio logorato dall'età. Nel pensare a Pantalone dovremmo dimenticare il personaggio di Shakespeare, scarno e smunto, i piedi infilati in pantofole, e cerca di vederlo come fu veramente, o almeno come avrebbe dovuto essere: un mercante di mezza età, vigoroso, onesto, con alle spalle una bella carriera, coinvolto in vicende sentimentali cui non sempre riesce a tener testa".

Pantalone vecchio e giovane, dunque. Pantalone vecchio in "La dispettosa moglie" (Alessandro Zatta, 1667). Il "Pantalone imbertonao" ("innamorato"), commedia eponima pubblicata nel 1673, laddove la scena è una Venezia pre-turistica, già piena di "foresti" (l'oggetto dell'innamoramento di Pantalone è una giovane francese...).
Pantalone diventa perfino povero e affronta la "Bancarotta, ovvero il mercante fallito" (Goldoni, 1740). Il trattamento della maschera in Goldoni nella Commedia dell'Arte è particolarmente attento al suo simbolismo depositario di una mentalità in declino.

Ma a parte Goldoni e la suggestione di un Pantalone ebraico, la figura del padrone non sembra aver goduto della medesima fortuna di quella del servitore. Lo stesso Carlo Gozzi, sebbene ben più tradizionalista di Goldoni, presenta il suo Pantalone in modo anacronistico, quasi umiliante. Anche perché i vizi che la maschera doveva incarnare, soprattutto l'avarizia (ma anche la libidine senile), erano destinati, attraverso una lettura severa e a volta nostalgica a trasformarsi in virtù borghese.

Infine i francesi chiameranno "Pantaloni" quei veneziani che:
"Erano pescatori, sono divenuti mercanti, si fecero corsari ed ora sono usurai". E si giunge così al fatale 1797.

Fonti: Alessando Scarsella, Grevembroch, Spezzani, Allardyce Nicoll.

lunedì 10 giugno 2013

Poesia e musica nelle villotte friulane

La villotta è una particolare forma polifonica a tre o quattro voci su testi di vario metro, nata nel XV secolo e di origine friulana.
La diffusione in altre zone dell'Italia settentrionale diede luogo a forme locali, quali la villotta alla veneziana e la villotta alla mantovana.
Il musicologo Fausto Torrefranca (1883 - 1955), sostiene la villotta nascere alla fine del ‘400 come aria di danza a canto, dove la voce portante veniva mescolata, in un dialogo tra voce solista e coro d’accompagnamento, a comporre una polifonia, incatenata dal “nio”, sorta di ritornello atto al ballo, ma anche legante tra diverse quartine.Sembra una stretta gabbia, ma è la forma di espressione che ha funzionato per almeno quattro secoli permettendo alla forma di modello chiuso una libera e fertile espressione popolare ancora viva seppur in forma popolaresca.
Michele Leicht (1827-1897), storico cividalese, sostiene che questi piccoli canti sono la forma filosofica friulana per aggiungere contenuti e arricchire lo spirito.Un pensiero malinconico che libera, o che allarga la sensazione momentanea di libertà, per insaporire il presente. La vena poetica stava nella grande capacità di rimescolare le parole e tirare fuori il succo, alludendo, pungendo con ironia, senza mai toccare il nervo del dente che duole. Un lampo che scoppiettando arriva dritto al bersaglio.
Angelo Dalmedico, in "Canti del popolo Veneziano" nel 1848, e probabilmente riferendosi ai friulani immigrati a Venezia, dice: “Sino alla fine del secolo passato, le villotte venivano cantate accompagnate dal contrabbasso, dal mandolino e dalla chitarra. Ora vengono cantate dalle donne accompagnate dal cembalo coi sonagli, tessendo un ballo con un intermezzo che chiamano “nio” che ha una musica ancora più allegra".
Forse chi delle villotte ne ha scritto in maniera più estatica è stato Pier Paolo Pasolini (1922-1975) , che definisce un “cjandît lusôr inocent” (una luce candida e innocente) così ne scrive “Brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito talvolta ciecamente malinconico, malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi di pino, nelle notti tiepide”.

Vorave far la morte picinina:
morto la sera, e vivo la matina
Vorìa morire e no vorìa la morte
Vorìa sentir chi me pianze pì forte.
Vorìa sentir i me amici e i me parenti,
Vorìa sentir li preti con la croze
Et lo mio amor a gridar ad alta voze

Sant’Antonio miracoloso
Fé che fasso pase con mio moroso
E se no volé che fasso pase co lu
Andéve a far benedir anca vu

Ch’el mar fusse d’inchiostro mi vorave
E’l ciel ch’el fussi duto quanto un sfoio:
el nome suo in continuo scrivarave
digando a tuti el ben che mi ghe voio.

Esser vorave un oselin de un’ora
E svolarghe al mio ben dove el lavora
Svolarghe su la ponta del capelo
Per dirghe: - cossa fastu, amante belo?

Ma mi vorìa far come fa’l vento
Batter giù li balconi e saltar dentro
Saltar di dentro senza far fracasso
Darve tre basi e poi andare a spasso

Che fosse ‘na viola, dio el volesse!
E in piazza l’ortolana me portasse:
vegnesse el me moroso, e el me crompasse
e sora el so capel el me metesse!

venerdì 24 maggio 2013

Wagner a Venezia

Dopo un primo soggiorno dal 1856 al 1859, Richard Wagner e la sua famiglia tornarono a Venezia nel 1882. Dapprima alloggiarono all'hotel Europa poi si trasferirono a Cà Vendramin-Calergi.
Il loro appartamento era all'ammezzato nell'ala affacciata sul giardino, era formato da 28 stanze, cucina e servizi; Wagner apprezzava soprattutto la grande sala per ricevere gli ospiti, la cui doppia finestra offriva una splendida vista sul Canal Grande.
Franz Liszt, che andò a trovare la figlia Cosima e il genero, soggiornò a Cà Vendramin-Calergi sul finire del 1882. Liszt e Wagner furono visti spesso seduti uno di fronte all'altro, davanti all'ampia finestra sul Canal Grande, mentre chiacchieravano. Fu proprio qui che Liszt scrisse la prima stesura de "La lugubre gondola" ispirata dai remi di una gondola che, racconta gli "bastonavano il cervello".
Ma a Wagner non sarà concesso di godere a lungo della bella casa veneziana. Egli infatti morirà, nel suo studio, il 13 febbraio 1883, a causa di una paralisi cardiaca.
Le sue spoglie furono trasportate via gondola alla stazione ferroviaria e da lì in treno fino in Baviera. D'Annunzio descrisse il trasporto della salma di Wagner nel suo romanzo "Il fuoco" scrivendo "Il mondo pareva diminuito di valore", sempre D'Annunzio dettò le parole per la lapide posta sul muro esterno del palazzo, verso il Canal Grande. Il 19 aprile venne organizzato un concerto in suo onore nel giardino del palazzo, concerto al quale assistettero centinaia di barche ormeggiate in Canal Grande.
Spesso, durante i suoi numerosi soggiorni a Venezia, a Wagner capitava di assistere in Piazza San Marco a concerti tenuti dalle bande musicali militari austriache che suonavano sue opere. I veneziani ascoltavano volentieri, ma non applaudivano mai; non per mancata ammirazione verso Wagner ma per dispetto verso i militari austriaci.
La vigilia di Natale del 1882, per festeggiare il compleanno della moglie Cosima, Wagner diresse un concerto privato nelle sale Apollinee della Fenice. Fu suonata la Sinfonia in Do maggiore, opera giovanile, eseguita dagli allievi e dagli insegnanti del Liceo Benedetto Marcello (la bacchetta è stata gelosamente conservata). Liszt era presente, e su richiesta di Wagner, suonò al pianoforte un'aria di Rossini.

domenica 28 aprile 2013

La chiesa di Santa Croce alla Giudecca

La chiesa e il complesso conventuale risalgono agli inizi del 1300, ma già nel 1500 subì una radicale ristrutturazione, e ulteriori rimaneggiamenti ebbero luogo lungo i secoli.
La chiesa un tempo era molto nota oltre che per i ricchi arredi, anche e soprattutto per il gran numero di reliquie in essa conservate, in essa infatti si trovavano: reliquie lignee della Croce di Cristo (da cui il nome della Chiesa), l'indice della mano destra di San Giovanni Crisostomo, la testa di San Teofane martire, un piede di Santa Teodosia martire, il corpo di Sant'Atanasio patriarca di Alessandria e il corpo della beata Eufemia Giustinian, già badessa del monastero.
Eufemia Giustinian nacque nel 1409 e all'età di soli sedici anni entrò nel monastero della Santa Croce alla Giudecca, per divenirne badessa nel 1444. La sua grande carità cristiana si era mostrata concretamente durante una grave pestilenza che colpì la città nel 1464, in quell'occasione dimostrò animo intrepido assistendo numerosi malati afflitti dalla peste. Morì nel 1487 e il suo corpo si mantenne incorrotto. Venne poi beatificata.
Legato alla figura della badessa e ad un pozzo del monastero è nota un'antica leggenda. Sempre durante la pestilenza del 1464 successe al monastero un fatto straordinario: si narra che una notte qualcuno bussò alla porta del convento, la badessa aprì lo spioncino e vide un uomo incappucciato, senza timore alcuno aprì la porta allo sconosciuto e lo invitò ad entrare. Lo straniero disse di essere assetato e di stare semplicemente cercando un poco d'acqua. La suora lo condusse quindi al loro pozzo e gli porse da bere. L'uomo si scoprì il volto e svelò di essere San Sebastiano. Colpito dalla generosità di Eufemia annunciò che l'acqua di quel pozzo avrebbe preservato le monache di quel convento dal morbo della pesta.
A tal punto si diffuse la leggenda che durante la peste del 1575 (quella del Redentore) frotte di persone si accalcavano quotidianamente davanti al portone del monastero chiedendo di poter bere l'acqua del pozzo di San Sebastiano; addirittura più volte le suore furono costrette a chiamare le forze dell'ordine per far sciogliere gli assembramenti!
Con l'arrivo di Napoleone  il monastero fu soppresso e divenne una casa di correzione che arrivò ad ospitare diverse centinaia di detenuti. Fu poi un magazzino per la raccolta del tabacco, e dagli anni sessanta del Novecento è divenuta sede sussidiaria dell'Archivio di Stato di Venezia.

lunedì 1 aprile 2013

La Battaglia di Lepanto e l'astuzia dei veneziani

La Battaglia di Lepanto, nel golfo di Patrasso, fu lo scontro decisivo tra la flotta cristiana e quella turca.
Il 20 maggio del 1571 Papa Pio V creò la Lega Santa alla quale parteciparono oltre allo Stato Pontificio, Venezia, Genova, la Spagna, i Savoia e Malta -  la flotta cristiana era formata da circa 200 galere di cui oltre la metà erano veneziane, con al comando il Capitano da Mar Sebastiano Venier, la flotta turca ne aveva circa 250.
La prima linea della flotta cristiana era formata da galeazze mercantili veneziane trasformate per l’occasione in navi da guerra, ma  quello che i turchi non sapevano era che erano state armate di cannoni non solo a prua, come tutte le normali galee, ma anche sui fianchi e a poppa.
La mattina del 7 ottobre avvenne lo scontro, le galeazze veneziane in prima fila stavano molto distanziate tra loro e i turchi lo interpretarono come un errore tattico e attaccarono subito infilandosi con gran parte della loro flotta tra la galeazze veneziane. Appena giunsero all’altezza delle navi queste distribuirono una tale potenza di fuoco dai fianchi che la flotta turca venne subito quasi dimezzata, non ebbero tempo di capire cosa fosse successo che il resto della flotta cristiana attaccò e la vittoria fu piuttosto rapida, anche perché i veneziani attaccarono e affondarono la galeotta dell’ammiraglio responsabile di tutta la potenza turca, Alì Pascià, uccidendolo. La flotta turca fu quasi completamente distrutta, mentre quella cristiana subì, tutto sommato, poche perdite.
La gioia per la vittoria fu enorme e si festeggiò in tutta Europa – naturalmente il Papa non poteva certo ammettere che il merito della vittoria fosse per lo più dei veneziani, così proclamò che era stato grazie alla Madonna del Rosario (che si festeggia appunto il 7 ottobre)...