A Venezia nel marzo 1505 Aldo Manuzio stampa Gli Asolani di Pietro Bembo. Sono dialoghi in prosa, in tre giornate, nel giardino della ex regina di Cipro, Caterina Corner, a Asolo.
I dialoghi di Asolo si svolgono fra tre giovani e tre donne. Parlano dell'amore da tre punti di vista. L'amore fa soffrire ("amore senza amaro, non si puote"). L'amore è fonte di gioia. L'amore è desiderio di vera bellezza, e la bellezza "non è altro che una grazia che di proporzione e di convenienza nasce e d'armonia delle cose"; anzi la vera bellezza è quella divina.
Siamo così ad una manifestazione di amor "platonico". Chi si interessa a queste cose ritroverà un personaggio chiamato Pietro Bembo che parla di amor platonico nel Cortegiano di Baldassar Castiglione.
Qui negli Asolani c'è qualcosa di più dei discorsi sull'amore; i dialoganti citano o recitano volta per volta poesie composte da loro stessi (cioè da Pietro Bembo).
Gli Asolani sono il manifesto del bembismo, o meglio del "petrarchismo bembesco". Fissato col Canzoniere aldino del 1501 il criterio linguistico e stilistico, Gli Asolani fissano i criteri di gusto, ideologici, antropologici della poesia. Il Bembo indica nel Petrarca (che aveva soggiornato a Venezia dal 1362 al 1367) un ideale di vita e di amori, oltre che di poesia e di lingua. Tale vita, tali amori, vanno imitati.
Questa operazione 1501-1505 di Manuzio-Bembo ha un successo immediato, ampio, profondo. Il modo di poetare, la lingua, gli ideali di vita e di amori così propugnati resteranno più o meno validi in tutt'Italia per tre secoli almeno, con gli opportuni adattamenti regionali.
Dopo Petrarca pochi han potuto scrivere senza subirne l'influsso. La lingua, lo stile, la vita, gli amori del Petrarca mettono rami lunghi che arrivano per esempio a Giusto dei Conti e a Matteo Maria Boiardo.
Con il Canzoniere aldino nasce una certa unità d'Italia, con gli Asolani l'unità si consolida.
I seguaci del petrarchismo bembesco sono uguali in tutt'Italia. Può avere senso raggrupparli in area veneta e lombarda, area tosco-romana, area meridionale: ma quello che conta è proprio il fatto inverso, unitario, per cui si scrive nello stesso modo dalla valle del Sinni a Casale Monferrato.
Nell'uniformità del mucchio, ovviamente, se qualcosa si distingue sono i particolari biografici. Massimo interesse suscitano i particolari biografici delle poetesse (nessuna stagione della letteratura italiana ha tante poetesse come questa).
Vittoria Colonna è una gran dama (ritratta da Sebastiano del Piombo e da Michelangelo, con cui intrecciò un lungo rapporto di amicizia); è una vera signora anche Veronica Gambara (scrive della bellezza di Brescia, poi sale un po' nella nostra considerazione perché va a Correggio). La padovana Gaspara Stampa è di famiglia nobile ma fa la cantante e la cortigiana. L'altra padovana, Isabella Adreini, fa l'attrice. La romana Tullia d'Aragona è cortigiana ma viene dispensata dal portare il velo giallo per meriti poetici. La veneziana Veronica Franco è cortigiana senza dispense, e sulla sua professionalità sappiamo tante cose...
Tra questi poeti e poetesse nessuno è esente da un certo petrarchismo bembesco. Nei casi più estremi questi poeti non scrivono ma trascrivono. Prendono pari pari parole e frasi, emistichi e versi del Petrarca. Chi studia queste cose vi dirà, per esempio, che in due canzoni di Pietro Bembo (totale 136 versi) ci sono solo 8 parole che non hanno riscontro nel Petrarca. E andava a memoria...
Il petrarchismo bembesco è un movimento sociale serio. Guai a chi non riesce ad inserirsi.
Il veneziano Antonio Brocardo è amico di Pietro Bembo, e scrive come Pietro Bembo comanda. Poi entra in polemica col maestro, e tutti gli danno addosso con una tale ferocia che Antonio Brocardo muore di crepacuore.
C'è chi per lealtà vuole strafare: il veneziano Celio Magno scrive una canzone petrarchesca bembesca intitolata Deus che sembra sia la più lunga della letteratura italiana.
Asolo (sdrucciolo, àsolo) è al giorno d'oggi un comune in provincia di Treviso. Il castello di Asolo, in gran parte demolito nel 1820, era il palazzo pretorio, riservato ai podestà veneziani. Venuto a morte nel 1473 Giacomo II di Lusignano, re di Cipro, la Serenissima costringe la vedova, Caterina Cornaro, ad abdicare a suo (della Serenissima) favore (1479), pagandole una pensione e dandole la signoria di Asolo. La vedova vive in questo castello.
Caterina è un donnone tizianesco (il ritratto agli Uffizi è di Tiziano e bottega), e sta qui con dodici damigelle, un nano nero chiamato Zavir con funzioni di giullare, e ottanta giovanotti con funzioni varie. Morirà nel 1510.
Alcuni dicono che nel castello di Asolo si fanno feste meravigliose, ma è dubbio, aggiungono, che vi si accolgano letterati e artisti a dialogare sull'amor platonico. Pietro Bembo può essere tra gli ospiti perché è parente della padrona di casa e ha fama di uomo di mondo.
Leggere su un'enciclopedia le voci dedicate ai Cornaro dà poco sugo. Di palazzi Corner, Venezia è piena. Il più famoso è progettato dal Sansovino per uno Jacopo Corner nipote di Caterina.
Affascinanti invece le voci che le enciclopedie dedicano ai Lusignano. Il castello di Lusignan nel Poitou risale al principio del IX secolo. Si sono proprio estinti con Giacomo II nel 1473. Quando Marcel Proust fa dire a uno dei suoi Guermantes "noi discendiamo in linea diretta dai Lusignano", scherza.
Insoddisfacente, generica la descrizione del giardino che dà il Bembo negli Asolani. Ad ogni buon conto il poeta inglese Robert Browning distruggerà il giardino per farcisi costruire una villa.
Pochi sono i ricordi di Caterina Cornaro che può scovare in Asolo il turista al giorno d'oggi. Al fantasma della regina di Cipro si è sovraimpresso quello dell'attrice Eleonora Duse, qui sepolta. Ma era morta a Pittsburgh (Pennsylvania), nel 1924. Era nata nel 1858 a Vigevano.
martedì 5 gennaio 2016
Venezia e la letteratura italiana
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martedì 13 ottobre 2015
La Venexiana
A Venezia verso il 1536 in
un circolo privato si rappresenta una commedia intitolata La
Venexiana, che non vuol dire “la donna di Venezia” (i
personaggi principali sono due donne veneziane), bensì “la commedia
ambientata a Venezia” (come La
Cortigiana di Pietro Aretino non vuol dire “la meretrice
d'alto bordo” o “la donna di palazzo”, bensì “la commedia
ambientata a corte”).
Non si sa chi sia l'autore
(o l'autrice).
E' certo che è stata
scritta espressamente per la rappresentazione teatrale.
Viene rappresentata una
volta sola, per un pubblico esclusivamente maschile.
Gli attori sono tutti
uomini.
Due donne, Anzola (Angela)
e Valiera (Valeria) si contendono l'amore di un giovane soldato di
ventura lombardo, Giulio, venuto a Venezia a cercar fortuna. Anzola è
vedova da poco. Valiera, più giovane, è sposata ad un vecchio.
Entrambe hanno una serva. Parlano tutte in veneziano, Giulio parla un
italiano lezioso. Un facchino parla bergamasco.
Le due donne stanno in due
case vicine a quello che ancora oggi si chiama campo San Barnaba. Ci
sono altre precisazioni topografiche: San Marco, Rialto, calle di
Gallipoli che dà sul campo dei Frari.
Si è potuto precisare che
le due donne sono di due rami della famiglia Valier. Anzola è vedova
di un Marco Barbarigo, capo del Consiglio dei Dieci, Valiera ha
sposato un Giacomo Semitecolo, “Avogador di Comun”
(all'Avvocatura di Stato competono tra l'altro i delitti d'onore e
gli adulteri). Valiera ha una sorella, Laura, sposata ad un
Berbarigo, cognata quindi di Anzola.
Queste minuzie
contribuiscono al colore locale e ci aiutano a capire che la commedia
ha un tono diffamatorio, piccatamente libellistico, nel gusto di
Pietro Aretino (che è arrivato a Venezia nel 1527, e in questo
anno 1536 è ben vivo – morirà qui nel 1556).
La sensualità delle due
donne, che dà nel torbido, è a metà strada tra l'eleganza di
Leonardo Giustinian e gli eccessi di Maffio Venier.
E' facile dire che La
Veneixiana è la più bella commedia d'area veneta del
Cinquecento. I confronti con le commedie di Pietro Aretino e di
Angelo Beolco sono appropriati. Si può anche dire che La Veneixiana
è la più bella commedia italiana del Cinquecento, ma prima di far
graduatorie su scale di merito è opportuno sentire su scala
geografica la lontananza delle aree in cui nascono le commedie
ferraresi di Ludovico Ariosto e le commedie fiorentine di Niccolò
Macchiavelli.
La Veneixiana, dopo
la sua prima e unica rappresentazione cinquecentesca, viene poi
dimenticata, e riscoperta e pubblicata solo nel 1928.
Gli studi hanno fatto
notevoli progressi negli ultimi decenni, eppure, o forse proprio per
questo, si resta col sospetto che nell'area veneziana ci sia ancora
da scavare e da scoprire, e che sia opportuno vederla come un'area
lontana da altre, più ricca di altre, da considerare in una
prospettiva di maggior autonomia letteraria.
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domenica 30 agosto 2015
Viaggio a Venezia, 1914
Les valises dans la gondole,
qu'elle prenait la main de son mari : — Tu as eu raison, dit-elle. On en peut varier a l'infini l'occasion,
le vertige spontané qui saisit le voyageur
débarquant à Venise reste toujours de cette qualité-là. Instantanément tout a disparu.
Plus de souvenirs, plus de soucis, plus rien de la vie qui s'interpose.
L'ivresse est immédiate, totale et profonde.
On est pris, entraîné, arraché à la terre, enlevé sur des ailes — on a soi-même des ailes ; les coussins si doux de la gondole semblent des nuages sur lesquels on repose.
Demain? Nous verrons bien, il sera temps encore.
Mais soyons heureux, grisons-nous, glissons comme on court dans les rêves,
balançons-nous dans la souple barque noire comme on se berce au son des valses.
Et les palais défilent le long du canal, ainsi qu'au théâtre la toile roulée,
et qui simule un paysage traversé par un héros en marche.
Un monde irréel s'offre à nous ; pour la première fois, l'impossible est arrivé. Tendons les mains pour le saisir!
Et il ne s'enfuit pas, il ne s'évanouit pas en fumée ; notre étreinte le serre ;
nous le tenons, le touchons, le caressons, il est à nous enfin.
(André Maurel)
Le valigie in gondola, lei prese la mano del marito: - Avevi ragione, disse. Si può cambiare l'occasione all'infinito, ma la vertigine spontanea
che coglie il viaggiatore quando sbarca a Venezia, rimane di questa qualità.
Immediatamente tutto scompare. Niente ricordi, niente preoccupazioni,
nulla della vita che si interpone.
L'ubriachezza è immediata, totale e profonda.
Si è catturati, trascinati, strappati dalla terra, sollevati da ali - abbiamo in noi stessi le ali; i cuscini morbidi della gondola
sembrano nubi su cui riposare. Domani? Vedremo, ci sarà tempo.
Ma cerchiamo di essere felici, noi così grigi, scivolando
come si corre nei sogni, ondeggiando nella morbida barca nera
come cullandosi a suon di valzer.
E i palazzi che sfilano lungo il canale, come una tappezzeria teatrale
che simula un paesaggio attraversato da un eroe in cammino.
Un mondo irreale si offre a noi; per la prima volta,
l'impossibile è accaduto. Tendiamo le mani per afferrarlo! Non fugge, non svanisce come fumo, il nostro abbraccio lo trattiene; lo tocchiamo, lo accarezziamo,
finalmente è nostro.
("Quindici giorni a Venezia", André Maurel)
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venerdì 24 luglio 2015
La voga alla veneta
Ci fa obbligo soffermarci, seppur brevemente, per sottolineare la nobiltà della voga alla veneta, che si differenzia da quella praticata in tutte le altre città di mare del mondo.
Già la posizione eretta e non seduta conferisce un'immagine di fierezza sconosciuta nelle altre realtà marine.
Se poi consideriamo la gondola, imbarcazione che incarna perfettamente questo concetto, non troviamo nessun natante che le si possa solo avvicinare per sviluppo tecnologico. Tredici essenze di legno diverse concorrono alla realizzazioni di questa magnifica barca, lunga circa 11 metri e costruita con forma asimmetrica per consentire una perfetta manovrabilità anche governandola da soli.
Prendiamo le forcole, gli scalmi dei nostri remi, sembrano meravigliose sculture che non trovano nessun paragone nelle altre culture marine.
Si può ben dire che la potenza della Serenissima si fondasse oltre che su uno spregiudicato spirito mercantile, sulle braccia delle su genti che, non bisogna dimenticarlo, fino al sedicesimo secolo vogavano nelle galee per libera scelta.
Potenti braccia avevano i nostri isolani che trasportavano le varie merci da una parte all'altra della laguna spingendo sui remi delle loro barche.
Chissà se erano giunte in città notizie circa Camus de Lorraine, geniale meccanico che costruiva automi per il re di Francia e che, nel primo Settecento, nel porto di Tolosa, sperimentò un gigantesco remo meccanico in grado di muovere grandi battelli in condizioni di acque calme. Nonostante il buon esito non fu incoraggiato dal suo sovrano e finì in miseria ramingo per l'Europa.
Non passò da Venezia, forse temeva di fare una brutta fine nella mani dei gondolieri!
Questi esosi rematori restituiscono l'incanto dell'esser trasportati per il canali della città accompagnati dallo sciabordio del remo.
Ci si domanda se, come era in uso in tutte le grandi città d'Europa per i portantini e i codega nel XVII secolo, anche i gondolieri portassero alla cintura la clessidra per valutare le proprie prestazioni.
Oggi, nella motorizzazione generale, oltre ai gondolieri, restano gruppi di appassionati che si raccolgono nelle associazioni sportive remiere, dove è anche possibile prendere lezioni di voga veneta, perpetuando quindi una tradizione millenaria.
(Fonte: Navigar in laguna. Fuga e Vianello. Edito da Mare di Carta)
Già la posizione eretta e non seduta conferisce un'immagine di fierezza sconosciuta nelle altre realtà marine.
Se poi consideriamo la gondola, imbarcazione che incarna perfettamente questo concetto, non troviamo nessun natante che le si possa solo avvicinare per sviluppo tecnologico. Tredici essenze di legno diverse concorrono alla realizzazioni di questa magnifica barca, lunga circa 11 metri e costruita con forma asimmetrica per consentire una perfetta manovrabilità anche governandola da soli.
Prendiamo le forcole, gli scalmi dei nostri remi, sembrano meravigliose sculture che non trovano nessun paragone nelle altre culture marine.
Si può ben dire che la potenza della Serenissima si fondasse oltre che su uno spregiudicato spirito mercantile, sulle braccia delle su genti che, non bisogna dimenticarlo, fino al sedicesimo secolo vogavano nelle galee per libera scelta.
Potenti braccia avevano i nostri isolani che trasportavano le varie merci da una parte all'altra della laguna spingendo sui remi delle loro barche.
Chissà se erano giunte in città notizie circa Camus de Lorraine, geniale meccanico che costruiva automi per il re di Francia e che, nel primo Settecento, nel porto di Tolosa, sperimentò un gigantesco remo meccanico in grado di muovere grandi battelli in condizioni di acque calme. Nonostante il buon esito non fu incoraggiato dal suo sovrano e finì in miseria ramingo per l'Europa.
Non passò da Venezia, forse temeva di fare una brutta fine nella mani dei gondolieri!
Questi esosi rematori restituiscono l'incanto dell'esser trasportati per il canali della città accompagnati dallo sciabordio del remo.
Ci si domanda se, come era in uso in tutte le grandi città d'Europa per i portantini e i codega nel XVII secolo, anche i gondolieri portassero alla cintura la clessidra per valutare le proprie prestazioni.
Oggi, nella motorizzazione generale, oltre ai gondolieri, restano gruppi di appassionati che si raccolgono nelle associazioni sportive remiere, dove è anche possibile prendere lezioni di voga veneta, perpetuando quindi una tradizione millenaria.
(Fonte: Navigar in laguna. Fuga e Vianello. Edito da Mare di Carta)
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venerdì 19 giugno 2015
Venezia è una regata
Ho fantasticato molto
leggendo il libro “Venezia è una regata”. Ho fantasticato in
lungo e in largo nello spazio: ho immaginato di tracciare dentro e
intorno a Venezia, tutti i percorsi delle innumerevoli regate, e li
ho immaginati simultaneamente, decine e decine di linee in movimento,
tracciati, flussi, come una specie di circolazione sanguigna che
solca l'organismo in cui la città è immersa, irrorando e
ossigenando la sua vita.
Le regate sono simboli
attivi, una pratica necessaria tanto quanto la manutenzione urbana,
il restauro degli edifici, lo scavo del fondale fangoso dei rii. Le
regate svolgono un compito di manutenzione della comunità, di tutte
le comunità sparse fra il centro e le isole della laguna.
L'esperienza della voga veneta non ha molti eguali. E' difficile da confrontare con qualcos'altro.
Apparentemente si potrebbe paragonare alla bicicletta, in fin dei
conti, anche in quel caso il pilota è allo stesso tempo il carico e
il motore del mezzo di trasporto. Ma in barca, vogando alla veneta,
si sta in piedi, si avanza da fermi a forza di braccia. Le gambe non
camminano, non pedalano, Danno anche loro una spinta, sì, ma
puntellandosi senza fare un passo. Sono le braccia a far muovere
tutto, e in avanti, non all'indietro come nella voga all'inglese. Ci
si getta in avanti con le mani e le braccia, quasi abbozzando la fase
iniziale di un tuffo.
Vogando all'inglese, la
forza motrice corporea si ottiene raccogliendo le braccia al torace,
richiamandole a sé. Nella voga alla veneziana si fa il contrario, si
allontanano le braccia, via, con tutta la forza. E' un doppio pugno
sferrato al mondo che ottiene l'effetto di attraversarlo scorrendoci
sopra.
E' un gesto fossile, che
viene da epoche lontane, ma che è ancora vivo e in buona salute.
Una necessità quotidiana
che trovava e continua a trovare nella regata la sua festa, la sua
forma assoluta, il suo fasto svincolato da scopi pratici ancora in
vigore, come traghettare passeggeri da una riva all'altra del Canal
Grande o portare in giro i turisti.
(dalla prefazione di
Tiziano Scarpa – libro edito da San Marco Press Ltd e Supernova
edizioni srl)
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domenica 26 aprile 2015
Pietro Aretino, il cortigiano letterato nella Venezia del Cinquecento
Arriva a Roma nel 1517 un
uomo di venticinque anni, nato ad Arezzo. Non s'è mai saputo il nome
del padre e non ci ha mai tenuto neanche lui a saperlo. L'han
battezzato Pietro, e si fa chiamare Aretino dal nome della città
natale. Passa l'adolescenza a Perugia, dove probabilmente fa buoni
studi, ma non studi latini. Un letterato italiano che non sa il
latino. Digiuno di educazione umanistica.
Fa il pittore, poi smette.
Comincia a scrivere, poi smette.
A Roma non trova un
protettore, cerca di farsi largo scrivendo cose varie: conquista una
buona notorietà scrivendo delle pasquinate tra il 1521 e il 1522.
Le pasquinate dell'Aretino
sono eccellenti, perché l'Aretino ha grandi doti di scrittore
satirico; ma solo a Roma si ha questa occasione di scrivere cose da
appiccicare alla statua di Pasquino.
Con il nuovo papa Adriano
VI, l'Aretino non sente tirare aria buona e se ne va in giro tra
Bologna, Arezzo, Firenze, Mantova, Reggio nell'Emilia; ora comincia
ad avere dei protettori: il cardinale Giulio de' Medici, il capitano
di ventura Giovanni dalle Bande Nere.
Torna a Roma nel 1523.
Comincia ad essere sulla trentina e fa un passo avanti: dopo le
pasquinate che gli avevano dato i primi successi, si butta sul filone
erotico.
L'erotismo, nella
letteratura italiana di questi anni, non è merce né rara né
clandestina. Ma Pietro Aretino fa qualcosa di più, come chi faccia
fumetti o fotoromanzi anziché racconti: parte da una base di
erotismo figurativo. Scrive sedici sonetti a commento di sedici
incisioni che Marcantonio Raimondi ha cavato da sedici figure di
Giulio Romano. Suoi coetanei, suoi amici.
Questi sonetti sono noti
con il titolo di Sonetti lussuriosi
o Le Posizioni o
I Modi.
Il secondo titolo fa capire che costituiscono un piccolo Kama-sutra.
Sapete
tutti che il Kama-sutra
(“aforismi sull'amore”) è un trattato scritto in sanscrito fra il
IV e il VII secolo dc, attribuito a Vatsyayana, e rientra nella
letteratura religiosa indiana facendo del Kama,
amore fisico, uno dei tre fini dell'esistenza.
Mentre
del Kama-sutra
tutti parlano tranquillamente, c'è ancora qualcuno che parla con
qualche imbarazzo dei Modi
dell'Aretino. Forse gli fa senso che siano scritti nella sua lingua
materna. Alcuni libri di Storia della letteratura italiana non fanno
menzione di questa opera di Pietro Aretino.
Chi
vuol seguire il filone erotico nella storia della letteratura
italiana trova i Modi
dell'Aretino un poco freddi in confronto a certe poesie di Maffio
Venier (Venezia,
1550 – 1586)
o del grande Giorgio Baffo (Venezia,
1694 – 1768).
Anche
nella disinvolta Roma di questi anni, i Modi
fanno
comunque scandalo. Un vescovo lo fa accoltellare il 28 luglio 1525.
Questo vescovo si chiama Gian Matteo Giberti (certi suoi scritti
avranno peso sulle decisioni del Concilio di Trento).
Dello
stesso anno è la prima redazione di una commedia, La
Cortigiana,
che Pietro Aretino completerà e stamperà solo in seguito. E' il
rovescio degli ideali del Cortegiano
di
Baldassar Castiglione, che circola in questi anni, manoscritto.
Dunque Pietro Aretino non vola solo nei cieli astratti
dell'erotismo, ma si impiglia anche in questioni ideologiche che
toccano i fondamenti della società dell'epoca. Così le coltellate
si spiegano un po' meglio.
Come
nel 1517 aveva dovuto lasciare Roma per colpa delle pasquinate, così
per colpa dei Modi
e
della Cortigiana
e forse di qualcos'altro che non sappiamo, Pietro Aretino deve
nuovamente lasciare Roma.
Arriva
a Venezia nel marzo del 1527. Ha trentacinque anni. Si sistema bene,
con la protezione di potenti patrizi e impianta una dinamica attività
editoriale con vari stampatori, tra cui Francesco Marcolini (della
cui moglie diventerà amante).
Questo
Marcolini stampa anche libri musicali con tipi mobili secondo un
sistema di sua invenzione.
Pietro
Aretino per primo riconosce nella stampa uno strumento economico e
politico, E' il primo manager dell'industria culturale.
Fa
stampare opere proprie, scrive opere proprie in funzione della loro
pubblicazione a stampa, e scrive cose diverse a seconda dei momenti,
cercando di indovinare i gusti del pubblico e tenendo conto dell'aria
che tira a livello politico.
Le
cose che scrive Pietro Aretino vanno dalla letteratura erotica a
quella religiosa o agiografica. Tocca tutte le forme: sonetti e versi
vari, commedie, tragedie, poemi cavallereschi, dialoghi, lettere.
Per
le lettere, inventa qualcosa di nuovo: raccoglie in volumi lettere
che scrive e lettere che riceve, come un editorialista d'oggi. E' una
corrispondenza che coinvolge tutti i personaggi illustri del suo
tempo, papi, imperatori e re. Pietro Aretino definisce se stesso
“segretario del mondo”. Ludovico Ariosto lo definisce “flagello
dei principi”, perché sa adulare ma anche minacciare e ricattare
personaggi come Francesco I e Carlo V.
Nel
campo delle arti conosce tutti e intrattiene rapporti eccellenti con
Tiziano, che gli fa un ritratto spettacoloso (agli Uffizi di
Firenze). Pietro Aretino ha gusti precisi ed è bravissimo a
descrivere opere d'arte. Bisognerà arrivare a Giovan Battista Marino
(nel Seicento) per trovare cose simili, ma l'Aretino è più bravo.
La
casa di Pietro Aretino a Venezia è un centro di potere. E' una casa
bella, luminosa, allegra, piena di donne e di figli di Pietro Aretino
e di amici fidati, che entrano ed escono, come entra ed esce, a
fiumi, il denaro.
La
casa sta sul Canal Grande, fra rio di San Grisostomo e rio dei Santi
Apostoli; dalle finestre si vede il ponte di Rialto, non quello che
vediamo noi oggi, che sarà costruito tra il 1588 e il 1592; ma
quello in legno che si vede nel celebre dipinto di Vittore Carpaccio
(alle Gallerie dell'Accademia).
Pietro
Aretino, vede, quando si affaccia alla finestra:
mille
persone e altrettante gondole su l'hora dei mercati. Le piazze del
mio occhio dritto sono le beccarie e la pescaria, e il campo del
mancino, il ponte e il fondaco dei Tedeschi, a l'incontro di tutti e
due ho il Rialto, calcato d'huomini da faccende. Sonvi le vigne ne i
burchi, le caccie e l'uccellagioni nelle botteghe, gli orti nello
spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a
l'alba miro l'acqua coperta d'ogni ragion di cosa, che si trova nelle
sue stagioni.
Nel
1551 trasloca a Palazzo Dandolo, sempre sul Canal Grande (poco
lontano da Palazzo Bembo, dove abita Pietro Bembo).
Il
rio che bagna un lato della sua casa, vien detto “rio de l'Aretino”
e le donne che transitano a casa sua, per piacere o per dovere, si
fan chiamare “le Aretine”.
Secondo
una leggenda a palazzo Dandolo Pietro Aretino tanto ride per una
storia che gli son venuti a raccontare sulle sue sorelle, ospiti di
un bordello di Arezzo, tanto e tanto ride che casca dalla seggiola e
muore.
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lunedì 16 febbraio 2015
San Marco, il leone alato e la Repubblica di Venezia
Il
leone alato (con il libro, ma anche alle volte con un calamaio) è il
simbolo dell'evangelista San Marco, patrono della Serenissima
Repubblica di Venezia.
I
quattro evangelisti sono tutti accompagnati da un simbolo preciso:
oltre al leone di San Marco, l'iconografia ricorda il toro di San
Luca, l'angelo di Matteo e l'aquila di Giovanni.
L'origine
di questi simboli è antichissima e sembra doversi trovare in un
brano di Ezechiele (1, 5-14) con la visione di Dio in trono
circondato da quattro esseri animati (tetramorfo). Nell'Apocalisse la
visione è di Cristo in trono circondato da 24 vegliardi, ciascuno
con un'arpa, da sette lampade di fuoco e dalle stesse quattro
creature di Ezechiele che divengono poi i simboli degli evangelisti.
Nel
Medioevo, gli esegeti trovarono anche la giustificazione dei simboli
e precisarono che San Marco è rappresentato dal leone in quanto il
suo Vangelo (il più breve) inizia con la voce maestosa di Giovanni
Battista che "ruggisce" nel deserto "conforme a quanto
sta scritto in Isaia profeta".
Avventurosa
la vita di questo santo, compagno degli Apostoli, figlio di una Maria
vedova, proprietario di una casa a Gerusalemme ove si rifugia Pietro
uscito miracolosamente di prigione. Iniziato alla vita apostolica
dal cugino Barnaba, Pietro lo considera come un figlio, mentre i
rapporti con Paolo sono più difficili (e come dargli torto...).
Antiochia,
Cipro, Roma sono alcune delle tappe dei viaggi di Marco, il quale
avrebbe poi predicato in Alessandria d'Egitto dove sarebbe stato
martirizzato al tempo di Traiano, col fuoco o forse trascinato per le
vie con una fune legata al collo.
Intorno
all'anno 828, Buono (tribuno di Malamocco e Rustico da Torcello
(mercante) sbarcano, con altri compagni, in Egitto e trafugano il
corpo di San Marco, già allora venerato dai cristiani in Oriente,
sostituendolo nell'urna con quello della Beata Claudia. Per sfuggire
ai controlli, la reliquia viene nascosta tra carni di maiale,
considerata immonda dai Saraceni.
L'ultimo
giorno di gennaio dell'anno 829, San Marco viene accolto
trionfalmente dal Doge e dai veneziani, e diviene il simbolo della
nascente Repubblica, sostituendo San Teodoro di origine greca, anche
in un empito di autonomia nei confronti dell'Impero d'Oriente.
Comincia
subito la costruzione della basilica ad in essa viene posto il corpo
di San Marco, forse nella cripta; poi ritrovato nel 1094 in un'urna
dentro ad un pilastro. Davanti a questo pilastro è accesa una
lampada perenne a ricordo dell'avvenimento. La scoperta del 1811, in
epoca napoleonica, e la ricognizione del 1835, durante il dominio
austriaco, completano la storia della reliquia che adesso è deposta
sotto l'altare maggiore della basilica.
La
leggenda narra che Marco, prima di recarsi ad Alessandria, sarebbe
stato ad Aquileia (di cui alcuni lo vogliono vescovo). Partendo da
questa località, si ferma nella laguna veneta per riposarsi (proprio
dove oggi sorge la chiesa di San Francesco della Vigna, alle cui
spalle ancora c'è una piccola cappella a ricordo dell'avvenimento,
oggi trasformata in magazzino...). Durante la notte ivi trascorsa,
gli appare un angelo che gli predice che in quelle isole vi sarebbero
stati abitanti straordinari, a lui devoti, e che le sue ossa qui
avrebbero trovato riposo, e lo saluta a nome di Cristo, con la
celebre frase: "Pax tibi Marce evangelista meus". Sono
appunto le parole che appaiono sul libro aperto del leone alato.
L'esistenza della parola "pax" porta a chiudere il libro in
caso di guerra.
San Marco è dagli storici spesso identificato nel Vangelo, al momento dell'arresto di Gesù, nel ragazzo che stava seguendolo "avvolto solo di un panno di lino. Tentarono di afferrarlo, ma lui, lasciato cadere il panno, se ne fuggi via nudo".
sabato 17 gennaio 2015
Ermolao Barbaro e la cultura pragmatica veneziana
Nel 1484, Ermolao Barbaro
crea a Padova il primo orto botanico d'Italia.
Questo è solo un episodio
nell'attività di un personaggio multiforme, attorno al quale di
possono accennare i tratti salienti di una nuova cultura, con
tendenze più scientifiche che letterarie, anzi, proprio pragmatiche
e tecniche.
Il patriziato colto a
Venezia non è un circolo accademico come nella Firenze medicea; o
accademico-curiale come nella Roma pontificia; o
cancelleresco-cortigiano come nella Milano viscontea-sforzesca o
nella Napoli aragonese. E' invece un gruppo, attraverso le
generazioni, di persone autorevoli, indipendenti moralmente e
materialmente, che subordinano la loro attività di lettori e
scrittori al servizio dello Stato, dedicando ai libri il tempo che
risparmiano nell'attività politico-amministrativa e nelle missioni
diplomatiche.
Ermolao Barbaro, figlio e
nipote di personaggi di questo tipo, nasce a Venezia nel 1453, e fin
da ragazzo intreccia ottimi studi a viaggi col padre, ambasciatore di
Venezia a Napoli, a Milano e a Roma.
Entrato ben presto nelle
massime magistrature di Venezia, è anche professore a Padova.
Coetaneo del Poliziano, ha
con lui rapporti amichevoli e distesi, un poco più polemici ma di
stima con Giovanni Pico della Mirandola.
Se a spanne, la cultura
della Firenze medicea è “platonizzante”, Ermolao Barbaro studia
piuttosto Aristotele e Plinio il Vecchio, e può considerarsi uno
scienziato, un precursore del metodo sperimentale (almeno, tale lo
considereranno Linneo e Leibniz).
Se si considera Ermolao
Barbaro come un “umanista esclusivo” e si sfogliano certe sue
opere piuttosto che altre, è impossibile rendersi conto della sua
importanza; l'importanza stessa dell'intera cultura veneziana è
difficile da cogliere in una prospettiva fiorentino-centrica come
quella che la storia italiana ha ancora in gran parte al giorno
d'oggi.
E' giusto sapere che sarà
allievo di Ermolao Barbaro un certo Pietro Bembo.
Gli anni del Barbaro sono
gli anni dei Bellini, di Carpaccio, di Giorgione,
Il quadro del Giorgione, I
tre filosofi, mostra un giovane che dà le spalle a due gravi
personaggi con barba e turbante (rappresentanti del pensiero greco ed
arabo) e volge lo sguardo verso una grotta. Quel giovane è Ermolao
Barbaro.
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domenica 4 gennaio 2015
Ramusio e la nascita della geografia moderna
Nel 1439, Cosimo de' Medici il Vecchio riesce a manovrare affinché il concilio, iniziato a Ferrara, sia trasferito a Firenze. Cosimo sa che questo è essenziale per il prestigio suo e della sua città.
In quegli anni il papa Eugenio IV ha fissato la sede papale in Firenze.
Col concilio giunge a Firenze la schiuma della terra, potremmo fare molti nomi, che danno suoni più o meno altisonanti, per esempio il cardinale Bessarione e Giorgio Gemisto Pletòne: uomini dottissimi che da Costantinopoli portano sangue fresco nelle vene degli umanisti, avidi di aggiungere la conoscenza del greco a quella del latino.
Firenze (assieme a Venezia) è terra più grecizzante d'altre, fin dai tempi del Crisolòra.
Cosimo il Vecchio crede anche al greco come elemento di prestigio, e approfitta dell'occasione per porre le basi di una Accademia Platonica con interessi filosofici, della quale sarà gran capo, negli anni seguenti, Marsilio Ficino.
Mentre Cosimo il Vecchio pensa al prestigio che gli può venire dal concilio, dalla letteratura greca e dalla filosofia, altri vedono il mondo con colori diversi e pensano per esempio alla geografia.
Ci son persone di diversa, non minore intelligenza, a Firenze in quegli anni, che pensano alla geografia. Uno è Paolo Dal Pozzo Toscanelli, amico di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti.
Vien costretto ad occuparsi di geografia anche Poggio Bracciolini. Per ordine del papa Eugenio IV deve frequentare un mercante veneziano, Niccolò dei Conti.
Questo Niccolò dei Conti è nato verso la fine del Trecento e morirà, forse a Chioggia, nel 1469.
E' partito da Damasco in Siria nel 1414 per un viaggio commerciale in Oriente durato ventitré anni. Ventiquattro anni era durato il viaggio di Marco Polo.
A differenza di Marco Polo, Niccolò dei Conti ha ritenuto utile farsi musulmano, e viene qui a Firenze nell'anno 1439, per farsi perdonare dal papa. Il papa gli concede il perdono a patto che racconti a Poggio Bracciolini la storia del suo viaggio in Oriente.
Si riproduce dunque (anche se non spontaneamente, bensì per ordine pontificio) la situazione del 1298, quando Marco Polo raccontò la storia del suo viaggio in Oriente a Rustichello da Pisa.
Nel 1298 ne era nato un capolavoro, in questo anno 1439 (colpa di Niccolò dei Conti? colpa di Poggio Bracciolini?) ne nasce un libretto che ha un successo molto limitato.
Il libretto di Poggio Bracciolini, scritto in latino, entra in una delle sue opere, De varietate fortunae. Poi viene ristampato a sé, come estratto, sempre in latino, col titolo India recognita, da un tipografo tedesco che lavora a Cremona.
I libri che i tedeschi (inventori della stampa a caratteri mobili) stampano a Cremona in latino, li leggono in Portogallo. Il libro tedesco-cremonese-fiorentino-veneziano viene tradotto in portoghese.
Il grandissimo veneziano Giovan Battista Ramusio (1485-1557) ha sentito parlare del concittadino Niccolò dei Conti, e sa come cercare i libri, ma non riesce a trovare né il libro De varietate fortunae, né l'estratto tedesco-cremonese. Trova infine l'edizione portoghese, e ritraduce dal portoghese al veneziano.
Oggi possiamo leggere Niccolò dei Conti nel testo del Ramusio.
Giovan Battista Ramusio fu diplomatico, geografo e umanista della Repubblica di Venezia e fu l'autore del primo trattato geografico dell'età moderna, titolato Delle navigationi et viaggi. L'idea di comporre questo trattato risale al periodo in cui Ramusio ebbe l'incarico di prendere contatti con il navigatore Sebastiano Caboto, figlio di Giovanni Caboto.
Nella descrizione del viaggio di Niccolò dei Conti ci troviamo diverse cose interessanti: egli giunge fino a Giava e Sumatra. Vediamo le mogli dei maragià salire sul rogo con la salma dello sposo, conosciamo la crudeltà dei malesi, e l'amok (c'è sulle enciclopedie, non c'è nei libri di Salgari... se non volete ch'io parli di Salgari, parlerò sanscrito: il maragià è il maha-raja, corrispondente al latino magnus rex).
Ma non abbiamo un capolavoro come il Milione. Sarà invece uno dei testi sui quali si baserà Ramusio per la stesura del suo testo fondamentale nella storia della geografia.
In quegli anni il papa Eugenio IV ha fissato la sede papale in Firenze.
Col concilio giunge a Firenze la schiuma della terra, potremmo fare molti nomi, che danno suoni più o meno altisonanti, per esempio il cardinale Bessarione e Giorgio Gemisto Pletòne: uomini dottissimi che da Costantinopoli portano sangue fresco nelle vene degli umanisti, avidi di aggiungere la conoscenza del greco a quella del latino.
Firenze (assieme a Venezia) è terra più grecizzante d'altre, fin dai tempi del Crisolòra.
Cosimo il Vecchio crede anche al greco come elemento di prestigio, e approfitta dell'occasione per porre le basi di una Accademia Platonica con interessi filosofici, della quale sarà gran capo, negli anni seguenti, Marsilio Ficino.
Mentre Cosimo il Vecchio pensa al prestigio che gli può venire dal concilio, dalla letteratura greca e dalla filosofia, altri vedono il mondo con colori diversi e pensano per esempio alla geografia.
Ci son persone di diversa, non minore intelligenza, a Firenze in quegli anni, che pensano alla geografia. Uno è Paolo Dal Pozzo Toscanelli, amico di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti.
Vien costretto ad occuparsi di geografia anche Poggio Bracciolini. Per ordine del papa Eugenio IV deve frequentare un mercante veneziano, Niccolò dei Conti.
Questo Niccolò dei Conti è nato verso la fine del Trecento e morirà, forse a Chioggia, nel 1469.
E' partito da Damasco in Siria nel 1414 per un viaggio commerciale in Oriente durato ventitré anni. Ventiquattro anni era durato il viaggio di Marco Polo.
A differenza di Marco Polo, Niccolò dei Conti ha ritenuto utile farsi musulmano, e viene qui a Firenze nell'anno 1439, per farsi perdonare dal papa. Il papa gli concede il perdono a patto che racconti a Poggio Bracciolini la storia del suo viaggio in Oriente.
Si riproduce dunque (anche se non spontaneamente, bensì per ordine pontificio) la situazione del 1298, quando Marco Polo raccontò la storia del suo viaggio in Oriente a Rustichello da Pisa.
Nel 1298 ne era nato un capolavoro, in questo anno 1439 (colpa di Niccolò dei Conti? colpa di Poggio Bracciolini?) ne nasce un libretto che ha un successo molto limitato.
Il libretto di Poggio Bracciolini, scritto in latino, entra in una delle sue opere, De varietate fortunae. Poi viene ristampato a sé, come estratto, sempre in latino, col titolo India recognita, da un tipografo tedesco che lavora a Cremona.
I libri che i tedeschi (inventori della stampa a caratteri mobili) stampano a Cremona in latino, li leggono in Portogallo. Il libro tedesco-cremonese-fiorentino-veneziano viene tradotto in portoghese.
Il grandissimo veneziano Giovan Battista Ramusio (1485-1557) ha sentito parlare del concittadino Niccolò dei Conti, e sa come cercare i libri, ma non riesce a trovare né il libro De varietate fortunae, né l'estratto tedesco-cremonese. Trova infine l'edizione portoghese, e ritraduce dal portoghese al veneziano.
Oggi possiamo leggere Niccolò dei Conti nel testo del Ramusio.
Giovan Battista Ramusio fu diplomatico, geografo e umanista della Repubblica di Venezia e fu l'autore del primo trattato geografico dell'età moderna, titolato Delle navigationi et viaggi. L'idea di comporre questo trattato risale al periodo in cui Ramusio ebbe l'incarico di prendere contatti con il navigatore Sebastiano Caboto, figlio di Giovanni Caboto.
Nella descrizione del viaggio di Niccolò dei Conti ci troviamo diverse cose interessanti: egli giunge fino a Giava e Sumatra. Vediamo le mogli dei maragià salire sul rogo con la salma dello sposo, conosciamo la crudeltà dei malesi, e l'amok (c'è sulle enciclopedie, non c'è nei libri di Salgari... se non volete ch'io parli di Salgari, parlerò sanscrito: il maragià è il maha-raja, corrispondente al latino magnus rex).
Ma non abbiamo un capolavoro come il Milione. Sarà invece uno dei testi sui quali si baserà Ramusio per la stesura del suo testo fondamentale nella storia della geografia.
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martedì 2 dicembre 2014
La nascita di Venezia
VENEZIA
"Con una forza di volontà panteista
Il piccolo artefice del Mar dei Coralli,
Eroico nell'abisso azzurro,
Erige una splendida galleria e una lunga arcata,
Costruzioni ricche di molti fregi, di ghirlande marmoree,
A riprova di ciò che un verme sa fare,
Faticando in un'acqua più bassa,
Esperto in un'arte simile,
Un essere intrepido mostrò la potenza di Pan,
Quando Venezia sorse in scogliere di palazzi"
(H. Melville)
ATTILA
"Tre mesi d'assedio, cibo scarso, l'esercito protesta,
Meditando sotto le mura di Aquileia
Egli vede le cicogne: Guardate! Se ne vanno!
Dio parla agli uccelli. La città è nostra".
Così è.
Non lasciano pietra su pietra dove passano,
Gli abitanti che sopravvivono, fuggono di qua di là,
E alcuni si volgono alla costa, alle paludi,
Alle isole sull'Adriatico. Qui.
Tre generazioni dopo, Cassiodoro,
Li trova, un popolo che, come uccelli acquatici,
Ha fissato il suo nido sul petto delle onde.
Un'economia cresce sul sale, e lo commercia,
Sorge, ed è Venezia. Che adesso sprofonda.
Lo Stato fondato inconsapevolmente dagli Unni"
(P. Martin)
"Con una forza di volontà panteista
Il piccolo artefice del Mar dei Coralli,
Eroico nell'abisso azzurro,
Erige una splendida galleria e una lunga arcata,
Costruzioni ricche di molti fregi, di ghirlande marmoree,
A riprova di ciò che un verme sa fare,
Faticando in un'acqua più bassa,
Esperto in un'arte simile,
Un essere intrepido mostrò la potenza di Pan,
Quando Venezia sorse in scogliere di palazzi"
(H. Melville)
ATTILA
"Tre mesi d'assedio, cibo scarso, l'esercito protesta,
Meditando sotto le mura di Aquileia
Egli vede le cicogne: Guardate! Se ne vanno!
Dio parla agli uccelli. La città è nostra".
Così è.
Non lasciano pietra su pietra dove passano,
Gli abitanti che sopravvivono, fuggono di qua di là,
E alcuni si volgono alla costa, alle paludi,
Alle isole sull'Adriatico. Qui.
Tre generazioni dopo, Cassiodoro,
Li trova, un popolo che, come uccelli acquatici,
Ha fissato il suo nido sul petto delle onde.
Un'economia cresce sul sale, e lo commercia,
Sorge, ed è Venezia. Che adesso sprofonda.
Lo Stato fondato inconsapevolmente dagli Unni"
(P. Martin)
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