“Ti è mai
accaduto di vedere una città che assomigli a questa?”
Chiedeva
Kublai a Marco Polo sporgendo la mano inanellata fuori dal
baldacchino di seta del bucintoro imperiale, a indicare i ponti che
s'incurvano sui canali, i palazzi principeschi le cui soglie di marmo
s'immergono nell'acqua, l'andirivieni di battelli leggeri che
volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano
ceste di ortaggi sulle piazze dei mercati, i balconi, le altane, le
cupole, i campanili, i giardini delle isole che verdeggiano nel
grigio della laguna.
L'imperatore,
accompagnato dal suo dignitario forestiero, visitava Quinsai, antica
capitale di spodestate dinastie, ultima perla incastonata nella
corona del Gran Khan. “No, sire” rispose Marco “mai avrei
immaginato che potesse esistere una città simile a questa”.
L'imperatore
cercò di scrutarlo negli occhi. Lo straniero abbassò lo sguardo.
Kublai restò silenzioso per tutto il giorno. Dopo il tramonto, sulle
terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze
delle sue ambascerie. D'abitudine il Gran Khan terminava le sue sere
assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo
sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d'accendere le
fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell'Augusto Sonno. Ma
stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza.
“Dimmi
ancora un'altra città” insisteva.
“ … di
là l'uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante … “
riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d'un
gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma
ora toccò a lui d'arrendersi. Era l'alba quando disse: “Sire,
ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco”
“Ne resta
una di cui non parli mai”
Marco Polo
chinò il capo.
“Venezia”
disse il Kan.
Marco
sorrise “E di che altro credevi che ti parlassi?”
L'imperatore
non batté ciglio “Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome”
E Polo:
“Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia”
“Quando ti
chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia,
quando ti chiedo di Venezia”
“Per
distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città
che resta implicita. Per me è Venezia”
“Dovresti
allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza,
descrivendo Venezia così com'è, tutta quanta, senza omettere nulla
di ciò che ricordi di lei” L'acqua del lago era appena increspata;
il riflesso di rame dell'antica reggia dei Sung si frantumava in
riverberi scintillanti come foglie che galleggiano.
“Le
immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si
cancellano” disse Polo “Forse Venezia ho paura di perderla tutta
in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già
perduta a poco a poco”.
Nelle puntate precedenti
abbiamo raccontato del libertinaggio a Venezia nei suoi secoli d'oro.
Giungiamo ora dunque al Settecento, l'ultimo secolo di vita della
Serenissima.
Se innegabilmente i
Veneziani nei secoli precedenti si abbandonavano ben spesso al vizio,
altrettanto spesso però operarono cose egregie ed onorevoli per sé
o per la patria. Mentre nel Settecento regnava ahimè l'assoluta
mollezza e lascivia senza le virtù degli antenati.
Il marcio partiva già
nell'educazione affidata ad abati ignoranti o a monache scandalose.
Non stupisce quindi l'altissimo numero di richieste di
separazione che nel solo ultimo decennio del Settecento ammontarono a
quasi trecento. Né stupisce conoscere di numerosi casi di mariti
che pur di non scontentare la moglie si prodigavano in prima persona
a riappacificare il cavalier servente colla propria moglie in
seguito ad un qualche litigio ...
Ma chi era il "cavalier
servente"?
Ce lo spiega il de
Brosses:
"E' di regola che le
dame veneziane posseggano un amante, e sarebbe una specie di disonore
per una dama non tenere un uomo per proprio conto. Le famiglie
approvano e si lascia che la sposa faccia la sua scelta, dando
l'esclusione a questo o a quello. Queste attuali pratiche delle dame
han diminuito di molto i fasti delle monache che in passato avevano
il monopolio della galanteria. Con tutto ciò, anche oggidì, un buon
numero di esse si dedica agli impegni con onore, poiché al momento
in cui scrivo, havvi una furiosa briga fra tre conventi della città
per sapere quale fra essi avrà il privilegio di procurare una
“amica” al nuovo Nunzio Apostolico che sta per arrivare".
Giova osservare che
talvolta gli sfacciati mezzani facevano passare per monache agli
occhi degli incauti stranieri, donne che non lo erano affatto; nella
stessa guisa in cui offrivano qualche prostituta sotto il titolo di
moglie del tal nobile. Ma peraltro erano talvolta davvero mogli
di patrizi se come si narra, un dì, un certo patrizio si sentì
proporre la propria consorte!
Anche le leggi si fan più
permissive e capita d'incontrar cortigiane ovunque in città comprese
le chiese, a qualsiasi ora.
Un cronista accenna ad un
nuovo costume adottato dalle gentildonne, le quali uscivano al
passeggio calzando semplici pianelle e coperte soltanto di un
sottanino. Lo stesso cronista narra altresì della sfrenatezza
con cui le gentildonne si abbandonano al gioco d'azzardo, che le
riducevano al punto di dover pagare col proprio corpo.
I luoghi preposti al gioco
venivano chiamati casin(nel senso di piccola casa) o ridotti (dal latino
"redursi"=recarsi). Ma alcuni di questi casin
servivano anche ad altro scopo, forniti com'erano di eleganti letti,
di ricchi specchi, di quadri lascivi, di vasche da bagno e di tavoli
sopra i quali stavano pagine scandalose, quali le poesie del poeta
Giorgio
Baffo.
Nel Settecento, alle
monache e alle cortigiane, s'aggiungono le cantanti e le ballerine di
teatro. Gli ambasciatori e i rappresentati di corti estere
facevano a gara per accaparrarsi le più aggraziate tra le deità
della scena, valendosi nell'opera di fidati mezzani, i quali molto
spesso erano gondolieri.
Talvolta la tariffa
per la conquista era fissa come c'insegna un cronista parlando della
Pelosina (e non voglio sapere perché la chiamassero così ..), che
si faceva applaudire al teatro San Beneto; sua madre, scrive il
cronista: “desidererebbe farla uscire dalla virginità al suono di
300 zecchini” (ti ci compravi una casa con 300 zecchini ...).
Ma ci sono anche casi
contrari, come l'interessante storia di Stella Cellini.
Stella Cellini era una
giovane attrice ballerina che si esibiva al Teatro di San Cassian.
Molto amata dal pubblico, la ballerina viveva in una casa in affitto
di proprietà del Procuratore Tommaso Sandi.
Il Tommaso Sandi in
questione si invaghì della ballerina, ma venne da essa rifiutato.
Così, per vendetta, la sfrattò da casa e la denunciò di vita
scandalosa con un Turco (!). Ma Stella Cellini non si fece
intimorire e si presentò in tribunale con un certificato di
verginità redatto da due ostetriche e contro-firmato da un parroco.
Vinse così la causa e fu completamente riabilitata e tornò a
calcare le scene ancor più amata. E fu così che da allora a
Venezia non si giurò più sulla Vergine Maria ma sulla vergine
Cellini.
Sempre sul fronte del
gentil sesso non si può non nominare Cecilia Zeno.
Cecilia, di nobili natali,
fu l'amante del doge Andrea Tron e per questo soprannominata la
"Trona". Donna colta e di spirito, difese strenuamente
i suoi ideali di donna libera e i suoi principi anti-clericali. Fu
anche discreta poetessa e benefattrice. Era grande amante del
teatro e aveva un palco fisso presso il Teatro di San Beneto.
Celebre fu l'episodio del 1785 quando fu allestito un grande
spettacolo nel Teatro ed ella sub-affittò il suo palco, per una
somma spropositata, ai duchi di Curlandia in visita alla città. E subito il popolo
motteggiò: “Brava la Trona, la vende el palco più caro de la
mona!” E lei, che era donna di spirito, prontamente rispose:
”Gavè razon, perché questa, al caso, la dono!”. E il popolo
di rimando: "La Trona, la mona, la dona!".
Il 26 marzo
1511 un tremendo terremoto colpiva la città facendo rovinare alcune
case e vacillare le due colonne di Piazzetta San Marco. La
mattina seguente il patriarca Antonio Contarini, si presentava al
Collegio Ducale per affermare che quel terremoto era necessariamente
un castigo mandato dall'alto a Venezia per i tanti peccati che vi
venivano commessi, primo fra tutti quello della carne. In
particolare il Patriarca volle ricordare un fatto avvenuto l'anno
prima, quando alcuni giovani patrizi osarono ballare tutta una notte
con le monache del convento della Celestia, al suono di pifferi e
trombe, ed essendosi recato lui stesso a rimproverarle, tutte si
misero alla porta rifiutando di farlo entrare.
Ma né il
terremoto, né tanto meno la sua predica, sortirono particolare
effetto, e tutto continuò come sempre.
Secondo
la testimonianza di Marin Sanudo, agli inizi del Cinquecento, le
meretrici in città sommavano ad 11.654, un numero impressionante se
si pensa che la popolazione totale era di circa 130.000 persone!
Facendo
un conto sommario, significa che circa una donna ogni cinque era
prostituta di professione.
Ma, essendo
così tante, non c'era abbastanza lavoro per tutte, così avvenne
quella che forse è la prima manifestazione sindacale di protesta nel
mondo: le meretrici scesero in Piazza San Marco per lamentarsi del
poco lavoro e chiedendo un intervento dello Stato.
Le loro
proteste furono ascoltate e il Maggior Consiglio dispose che ben
mille di queste si trasferissero al campo di Mestre, ove era allora
attendato l'esercito di terra veneziano. E si decise di licenziare
tutte quelle fra esse che essendo foreste, abitassero a Venezia da
meno di due anni.
Insomma lo
Stato ascoltava e, se possibile, aiutava tutte le categorie
professionali.
Ma ciò che
colpisce maggiormente è che le meretrici non erano soggette ad
alcuna tassazione!
Giordano
Bruno nella sua commedia il "Candellajo", parlando di
Venezia, dice: "Ivi le prostitute sono esenti da ogni aggravio.
Certo, se il Senato volesse umiliarsi un poco e fare come gli altri,
si farebbe un po' più ricco..." ma evidentemente la Repubblica
era già sufficientemente ricca!
Tale Cesare
Vecellio ci ha lasciato una descrizione minuta dei costumi delle
meretrici dell'epoca: "Le pubbliche meretrici non stanno solo
nei luoghi loro preposti, ma si trovano ovunque in città. Vestono, a
volte, come uomini, nondimeno l'inegualità della fortuna fa sì che
non tutte vadano vestite pompose allo stesso modo. Sulle carni
portano camicia accomodata di sottigliezza ciascuna in base alla
merce che ha da spendere. Molte di loro si trattengono per strada
cantando canzonette amorose con poca grazia.
Alcune
però, fra tante, oltreché colla bellezza del corpo, sollevavansi
sopra le loro pari colle doti dello spirito e coll'educazione onde
erano fornite. Esse erano più propriamente denominate "cortigiane".
Le cortigiane si dedicavano alla musica e non si mostravano ignare
alle lettere, e potevano paragonarsi in parte alla famose etére,
sospiro degli uomini più distinti della Grecia. Non è quindi da
stupirsi se la loro condizione destava l'invidia d'una tra le dame
galanti di Brantome, la quale, avrebbe voluto cangiar tutto il suo
avere in biglietti di banca e recarsi a Venezia per condurre colà
vita cortigianesca, piacevole e felice."
Le
cortigiane costituivano nella Venezia dei secoli d’oro una
categoria sociale e professionale distinta da quella delle comuni
meretrici. Pur esercitando anch’esse la prostituzione, le
cortigiane si distinguevano non solo perché potevano contare su
lauti guadagni e protezioni influenti, ma anche in virtù della loro
classe sociale, della cultura e talvolta anche del talento artistico
e letterario, che erano libere di esercitare pubblicamente proprio
grazie alla loro particolare condizione.
Infatti,
nascere nobile o comunque di famiglia ricca, non era poi così
auspicabile, in quanto avevi solo due opzioni : andare in sposa
a qualcuno che manco conoscevi, o finire in convento.
Ecco
quindi che il mestiere di cortigiana appare come una via di fuga.
Una
fuga che tra l'altro comportava anche la possibilità di ottenere
un'indipendenza economica che ti slegava dagli obblighi famigliari.
Ecco
perché così tante donne scelgono questo mestiere che le rendeva
libere e al contempo ammirate e invidiate.
In
questo secolo venne pubblicato addirittura un catalogo delle
cortigiane con tanto di indirizzi, prezzi e nomi della relativa
matrona (che spesso era la madre...).
La
più celebre tra queste fu senz’altro Veronica
Franco. Nata da famiglia benestante si sposò giovanissima
con un medico, ma abbandonò presto il letto coniugale per darsi alla
vita libera. Era anche poetessa e di buona cultura, aveva diverse
amicizie tra letterati e nobili, e venne anche ritratta da Tintoretto
che le donò poi il quadro.
Ecco,
il fatto in sé che un pittore come Tintoretto avesse ritratto la
Veronica Franco ci dà una misura della considerazione sociale che
avevano queste cortigiane.
La
sua fama era tale che quando Enrico III re di Francia venne in visita
a Venezia nel 1574 volle conoscerla e passò una notte con lei. A
ricordo dell’incontro, Veronica donò al re il proprio ritratto e
due sonetti.
Altrettanto celebre fu Angela del Moro, che per esser
figlia d'uno zaffo (cioè di uno sbirro), era soprannominata la
Zaffetta. Il cardinale Ippolito de' Medici, venuto a Venezia nel
1532, scelse proprio la Zaffetta per la prima notte del suo arrivo in
città.
E Pietro Aretino ne faceva il più sfoggiato elogio,
invitandola in diverse occasioni a cena, unitamente al Tiziano e al
Sansovino.
Si può ben dire che in Pietro
Aretino fosse personificato il libertinaggio di Venezia, città
da lui abitata per moltissimo tempo e quivi sepolto.
Dedito, per pubblica fama, alla pederastia, si tenne in
casa, in epoche diverse, alcuni giovanotti, tra cui un certo Polo che
fece maritare con Pierina Riccia, facendosela però cedere ad uso
proprio ed amandola assai, non tanto però da non perseguitare in
tutti i modi Angela Tornimben, moglie di Gian Antonio Serena. Che
fece allora Gian Antonio per vendicarsi? Indusse Pierina a fuggire
dalla casa di Aretino insieme a Caterina Sandella, altra amica
dell'Aretino, dalla quale ebbe una figlia, Adria, il cui padrino di
battesimo era il tipografo Francesco Marcolini, la cui moglie
Isabella, intratteneva pur essa amorosa tresca collo scostumatissimo
Aretino!
Pietro
Aretino è conosciuto principalmente per alcuni
suoi scritti dal contenuto considerato licenzioso (almeno per
l'epoca), fra cui i conosciutissimi Sonetti
lussuriosi.
Ma
scrisse anche opere di contenuto religioso.Questa,
che oggi potrebbe apparire incoerenza, fu in realtà, per molti
versi, un modello dell'intellettuale rinascimentale.
In una sua
lettera scrisse: «Mi dicono ch'io
sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; e tuttavia ho
l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso
chiamarmi felice» E dove avrebbe potuto vivere uno così, se non
a Venezia?
Nell'articolo precedente abbiamo visto qualche esempio di scandalo tra i
nobili veneziani.
Ma
l'apice della sfrontatezza era raggiunto dalle monache dei conventi.
In particolare i conventi patrizi, i quali venivano chiamati "doppi"
in quanto frati e monache vi abitavano insieme. Talvolta le monache
si tenevano qualche frate in vicinanza con il pretesto di venir da
essi guidate negli affari spirituali.
Il
Maggior Consiglio emanava quindi, nel 1385, una legge con cui si
imponeva che il confessore delle monache fosse di non meno di 60
anni!
Ma
il costume di recarsi nei chiostri delle monache era di largo
appannaggio anche dei laici, e così feste e
divertimenti non mancavano per queste suore, che infatti avevano
trasformato il loro parlatoio in un elegante salotto sede di concerti
e spettacoli vari, con un continuo "pellegrinaggio" di
giovani cavalieri mascherati.
Da citare
una nota dal diario del Granduca di Toscana, Cosimo III, che venne
qui in visita agli inizi del Settecento:
”Vestono
leggiadrissimamente con abito bianco alla francese, il busto di bisso
a piegoline, un piccolo velo cinge loro la fronte, sotto la quale
escono li capelli arricciati e lindamente accomodati; seno mezzo
scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache”.
Ma tutta
questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze
indesiderate.
Per questo
motivo in tutta la città v’erano diverse imprese che producevano
contraccettivi, fabbricati con budella di animali, che in dialetto
erano chiamati condon, termine che qualcuno fa risalire ad un
ipotetico medico inglese Condom, di cui però non è mai stata
accertata l'esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere”
= "proteggere".
Questo
interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di
difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel
1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno
di Napoli, ed è per questo tra l’altro che la sifilide veniva
detta mal francese; la cosa curiosa è che in Francia invece
la chiamano mal napolitaine!
A Venezia la
legge prevedeva pene severe per i "monachini", cioè le
persone che intrattenevano relazioni amorose con le monache, che
andavano dalle multe, al carcere, fino alla pubblica frusta e al
bando.
Ma se da una
parte la legislazione veneziana si occupava di questi problemi, non
trascurava l'argomento della pubblica prostituzione, giacché si
legge in diversi decreti dell'epoca che le meretrici erano
considerate "omninamente necessarie in Venezia".
Tutte le
meretrici erano sottoposte alla sorveglianza dei Signori della Notte
e dei Capi di Sestiere, tra le varie limitazioni a cui erano
costrette ricordiamo che non potevano frequentare osterie, né
recarsi in Chiesa durante la Messa della domenica, né indossare
gioielli.
Un decreto
del 1360 stabiliva che tutte le meretrici dovevano essere confinate
in un'area nei pressi della chiesa di San Matteo di Rialto (chiesa
poi scomparsa). Zona ribattezzata "Castelletto"
forse perché c'erano delle torri sui tetti delle case, come usava
all'epoca.
Tra le altre
regole ricordiamo: l'obbligo di portare al collo, come segno
distintivo, un fazzoletto giallo; approssimandosi la notte, dovevano,
allo scocco della prima campana di San Marco, recarsi tutte nel già
menzionato Castelletto, mentre durante il giorno potevano circolare
liberamente per la città, eccetto durante le feste di Natale e di
Pasqua, nonché in tutte le feste dedicate alla Madonna.
Ad ogni casa
del Castelletto era preposta una direttrice chiamata "matrona"
a cui spettava di dividere ogni mese, fra le sue dipendenti, i
guadagni conservati in una cassa, cassa che veniva aperta solo in
presenza di un rappresentante di Stato.
Questo per
garantire che le meretrici fossero correttamente retribuite.
Sì, perché
se da un lato queste meretrici subivano leggi che limitavano la loro
libertà, da altre leggi venivano protette e difese. Si provvide ad
esempio a controllare che coloro i quali ne avessero riscattate dalle
matrone, non le tiranneggiassero, e che coloro che ne avevano sposate
non continuassero a tenerle nel Castelletto.
Si
deputarono delle guardie armate che tutte le notti sorvegliassero il
loro quartiere perché nessuno potesse far loro del male, e si proibì
di entrare nel Castelletto armati, sempre al fine di proteggerle.
Insomma
niente veniva lasciato al caso nella Repubblica Serenissima,
qualunque mestiere era regolamentato e protetto.
Nel
quattordicesimo secolo Venezia raggiunse l'apice della sua grandezza.
Grandi
erano le ricchezze che vi transitavano e di conseguenza numerose le
persone che vi risiedevano stabilmente o per limitati periodi legati
a trattative commerciali.
Naturalmente
tra i vari servizi di accoglienza offerti non mancava certo la
prostituzione.
Le
nuove leve, se così possiamo chiamarle, provenivano per lo più
dalle numerose orfane (soprattutto figlie illegittime di nobili,
abbandonate) che popolavano le strade della città.
Alcune
di queste venivano salvate da organizzazioni religiose o statali, ma
molte erano quelle che non si riusciva a soccorrere.
Tra
i soccorritori ricordiamo fra' Pieruzzo d'Assisi, francescano, che di
contrada in contrada raccoglieva gli orfani che riusciva a trovare
per portarli nelle case di proprietà dei frati intorno alla chiesa
di San Francesco della Vigna. Nel 1346 aprì un vero e proprio
istituto per trovatelli in parrocchia San Giovanni in Bragora col
nome di Pietà. Primo dei quattro cosiddetti "ospedali"
nei quali ai bambini veniva insegnato un mestiere mentre alle bambine
si insegnava musica e canto.
Ma
queste attività di assistenza non erano certo in grado di arginare
del tutto il fenomeno della prostituzione, tanto più che non
necessariamente le meretrici erano orfane abbandonate, anzi spesso
erano avviate al mestiere dalle loro stesse madri.
Inoltre
capitava anche che alcune ragazze venissero rapite alle loro famiglie
nelle campagne dell'entroterra per costringerle a prostituirsi in
città.
Alcuni
storici dell'epoca lamentavano il degrado dei costumi dell'epoca, ma
questi costumi non sono certo mai mancati nella storia dell'uomo
presso qualunque società; ciò che distingueva però la
prostituzione a Venezia era che qui era strettamente regolamentata
dallo Stato, ma ne parleremo meglio in un prossimo articolo.
Per
pura curiosità possiamo narrare qualcuna delle storie più celebri
che diedero scandalo all'epoca.
Ad
esempio la tresca tra il doge Andrea Dandolo e Isabella Fieschi,
moglie di Luchino Visconti, duca di Milano.
Isabella,
dopo aver adornato di molte ramosa corna la testa del povero marito,
simulò nel 1347 di aver fatto voto di recarsi a Venezia per la festa
della Sensa.
Partì
quindi da Milano, con il suo corteo di dame, e arrivò a Venezia
accolta con grandi feste e onori dalla Repubblica. Ma appena giunta
in città, si diede alla più sfrenata licenza, e il doge stesso,
Andrea Dandolo, fu uno di quelli con cui largheggiò dei propri
favori, dando agio anche alle dame del suo seguito di ricercare i
propri piaceri (per l'esattezza nel documento dell'epoca viene
utilizzata la parola "pastura").
Il
viaggio, possiamo letteralmente dire, di "piacere" di
Isabella, costò addirittura la vita al povero Luchino, il quale
avendo avuto notizia dei sollazzi della moglie a Venezia espresse
l'intenzione di vendicarsi, ma fu prevenuto da Isabella con un veleno
che lo portò brevemente alla morte.
Altro
esempio riportato nelle cronache è la storia di Lodovica Gradenigo,
consorte del doge Marino
Falier. Si narra infatti che durante una festa da ballo datasi in
Palazzo Ducale la sera del Giovedì grasso del 1355, il nobile
Michele Steno veniva cacciato dalla sala per alcuni eccessi
dimostrati durante la festa, il quale però si vendicò scrivendo
sopra il seggio del Falier il noto epigramma: "Marin Falier da
la bela mugier. Altri la gode e lu la mantien!". Si dice che
Marino Falier se la prese così tanto per questa frase che decise di
ordire la nota congiura di Stato, che fu poi repressa e che terminò
con la decapitazione del doge.
Interessante,
anche se per motivi diversi, è la storia di Luigi Venier, figlio del
doge Antonio Venier, il quale era l'amante della moglie del nobile
Giovanni dalle Boccole. Accadde che la moglie si stufò di Luigi e
non volle più donargli le sue grazie, questi però non la prese bene
e pensò di attaccare sul ponte di Cà dalle Boccole due grandi corna
accompagnate da una scritta volgarmente pesante contro la famiglia
Dalle Boccole, e per questo veniva catturato e condannato a due mesi
di prigione, seppur figlio del doge stesso. E' interessante il fatto
che il Doge Antonio Venier, il quale avrebbe potuto intervenire per
far almeno diminuire la pena, lasciò che la giustizia facesse il suo
regolare corso, affermando che la giustizia è uguale per tutti.
Abbiamo
visto qualche scandalo legato al mondo della nobiltà, ma anche i
preti non volevano esser da meno e innumerevoli sono i casi di
scandalo raccontati nelle cronache. Ricordiamo ad esempio, don
Stefano Pianigo, piovano di San Polo, che sedusse una vedova, tale
Cristina, e poi la diede in sposa a tale Nicoletto d'Avanzo, col
patto di potersi congiungere con la donna, quando più gli fosse
piaciuto.
Sì,
lo so, nessuno dice più “attaccare bottone”, è una roba da
vecchi; ma io sono vecchio, e magari tra di voi c'è qualcuno che
come me è nato e cresciuto nel secolo scorso e ancora si ricorda di
questo modo di dire, e magari non sa perché mai si dica “attaccare
bottone” riferito all'atto del rivolgere la parola ad una ragazza,
o un ragazzo, che ci sembra interessante e con cui vorremmo... sì
insomma avete capito.
In
ogni città, grande o piccola, c'è sempre una strada, una piazza, un
luogo deputato al camminamento pigro il cui unico fine è guardare, o
farsi guardare, sa mai che magari si incontra una ragazza, o un
ragazzo, piacevole.
In
alcune città si chiama “fare le vasche”, in altre si dice “fare
lo struscio” e così via, a Venezia si diceva “fare
il liston”.
Uno
dei più antichi luoghi di queste passeggiate era quello di Campo
Santo Stefano, già nel XVI secolo. In quel tempo la piazza era
erbosa, salvo una striscia, una "lista" che era selciata e
dove si poteva camminare comodamente avanti e indietro,
chiacchierando e facendosi notare.
Quella
comoda lista selciata veniva chiamata appunto liston.
Lì
alla sera un gran numero di dame sfilavano civettando e lanciando
sguardi ammiccanti ai cavalieri.
Di
queste passeggiate riferisce, naturalmente, anche Giacomo
Casanova nelle sue "Memorie".
Prima
di continuare però dobbiamo fare un salto sull'isola della Giudecca,
presso l'ex ospizio detto delle Zitelle
(non nel senso di donne non sposate, ma di fanciulle orfane). Opera
del Palladio tra l'altro.
Ora,
dovete sapere che a Venezia, ai tempi della Repubblica intendo, il
meccanismo sociale per salvare gli orfani in città (o i bambini
poveri in generale) era sorprendentemente moderno ed efficiente.
Gli
orfani venivano raccolti dalle strade e li si introduceva in
strutture specifiche dove veniva loro insegnato un mestiere; per
evitare appunto che i maschi si dessero alla delinquenza o
all'accattonaggio, e le femmine alla prostituzione.
Alle
fanciulle portate alla struttura delle Zitelle veniva insegnato il
mestiere della sarta. Imparavano quindi il cucito in modo che in
futuro avrebbero potuto mantenersi.
Nel
Settecento queste ragazze si specializzarono nella creazione del
famoso scialle
veneziano; confezionato in seta e in pizzo per le dame, o in lana
per le popolane, ma sempre rigorosamente con lunghe frange.
Tra
l'altro lo scialle era in qualche modo simbolo di rispettabilità;
l'uso era infatti vietato alle meretrici.
Ora
dobbiamo immaginare queste dame passeggiare appunto lungo i famosi
liston, agghindate con il loro scialle.
Quando
adocchiavano un cavaliere che ritenevano interessante (perché
diciamocelo, a noi uomini piace pensarci cacciatori, ma alla fine son
loro che decidono), dicevamo, quando incrociavano un giovanotto di
bell'aspetto, con un rapido gesto della mano prendevano un lembo
dello scialle e lo facevano volteggiare facendo svolazzare con
maestria le lunghe frange, le quali andavano ad impigliarsi sui
bottoni della giacca del cavaliere … ecco perché si dice
“attaccare bottone”, “tacar boton” in veneziano!
So
cosa state pensando: e se il giovanotto in questione non aveva la
giacca con i bottoni? Eh non lo so! Trovavano un altro modo, fioi, di
sicuro una dama veneziana non si arrendeva per così poco!
So
che in altre parti d'Italia l'espressione “attaccare bottone” ha
un significato diverso, tipo “tediare qualcuno con un discorso
lungo e noioso” ma a me piace di più la versione veneziana ;)
CIAO
No,
non vi sto salutando, non ancora per lo meno … voglio parlarvi
proprio della parola “ciao”.
Molti
di voi già lo sanno, ma magari c'è ancora qualcuno che non lo sa:
la parola “ciao” è una parola veneziana, o meglio, deriva dalla
parola veneziana 'sciavo, che significa “servo” (“servo” non
“schiavo”).
Da
'sciavo divenne 'sciao infine ciao.
Quando
due gentiluomini si incontravano si salutavano dicendo “'sciavo
vostro” nel senso di “sono servo vostro” “sono al vostro
servizio”
Ancora
oggi in Veneto se chiamate “Toni” l'altro vi risponde “comandi!”
Abbreviato
in “mandi” dai friulani …
A
proposito di servi e di schiavi, pochi sanno che la prima nazione al
mondo ad abolire il commercio degli schiavi fu la Repubblica di
Venezia nel 960, almeno ufficialmente, poi in realtà la legge veniva
spesso disattesa, ma intanto questi già prima dell'anno Mille ci
avevano quanto meno pensato … C'è anche da dire che la
motivazione non era solo umanitaria, ma anche pratica: gli schiavi
non pagano le tasse, gli uomini liberi sì!
Resta
il fatto che quando dite “ciao” a qualcuno gli state dicendo
“sono al tuo servizio”.
Bizzarramente
la parola “ciao” negli ultimi decenni si è diffusa anche al di
fuori dell'Italia, curiosamente però viene usata quasi sempre
unicamente per il commiato … mah, questi foresti che non conoscono
la lingua veneziana!
Lucidissimo economista,
nelle sue commedie Carlo Goldoni non descrive banalmente lo scontro
tra padri spilorci e figli dissipatori, ma le contraddizioni di
un'economia malata nella quale l'eccesso di spesa è
contemporaneamente una necessità vitale e un rischio mortale.
Quando parliamo di Goldoni
ci pare d'avere a che fare con un Molière minore, e per giunta
tardivo; con un giocoso dipintore dei vizi della società del suo
tempo; e un poco persino con un venditore di gondole, che ci
accompagna nelle pittoresche atmosfere del Settecento veneziano.
Tutto questo basterebbe a tenerci lontani dalla sua opera, come
alcuni stanno ormai lontani dalla città di Venezia...
E tuttavia
sarebbe un errore, perché Carlo Goldoni fu molto di più. Più di un
venditore di gondole, beninteso; più di un moralista o d'un
immoralista; e più di Molière, se vogliamo.
Con Goldoni siamo già
piuttosto dalle parti di Honoré de Balzac ovvero alla nascita di
un'arte intesa come scienza, come paradigma conoscitivo, e in
particolare come modello dei rapporti economici. Ma Balzac nasce 5
anni dopo la morte di Goldoni, perché scomodarlo? Andiamo con
ordine, e scomodiamo di conseguenza.
Nato nel 1707, morto nel
1793, Carlo Goldoni fu contemporaneo di Adam Smith, nato nel 1723,
morto nel 1790.
Il cruccio scientifico di
Goldoni, se teniamo fede alle sue dichiarazioni programmatiche,
sembra non essere altro che quello di rappresentare con la massima
precisione i vari tipi umani, ovvero dei caratteri universali in cui
ciascuno possa riconoscersi. Non c'è nulla di originale in questo:
si chiama commedia di costume, ed è appunto il genere in cui
eccelleva Molière. Non è neppure troppo dissimile dalla Commedia dell'Arte con i suoi padroni burberi i suoi servi sfaticati.
Se si
trattasse solo di questo, il merito di Goldoni, nel proporre la sua
commedia di carattere, non sarebbe altro che d'aver raffinato la
tecnica, aggiornandola alla società borghese. Tuttavia l'autore
veneziano non si limita a far sfilare questi caratteri in “scene
accozzate senz'ordine e senza regole”, né - come Molière - tesse
trame con l'unico scopo di far emergere i personaggi paradigmatici:
l'avaro, il borghese gentiluomo, il tartufo, il malato immaginario,
il misantropo, eccetera.
Al contrario, e
soprattutto nelle commedie d'ambiente, il genio di Goldoni sta
nell'aver messo in scena, piuttosto che dei tipi umani, dei tipi
di situazioni che drammatizzano i meccanismi economici del
capitalismo nascente.
In effetti, le azioni e i
moventi di cui è fatto il teatro goldoniano sono spesso di natura
contrattuale, monetaria, finanziaria, creditizia, speculativa. In
questo senso Carlo Goldoni è più di un semplice testimone, che
descrive in maniera confusa sintomi ed epifenomeni: sulla scena egli
è in grado di ordinarli, esaminarli, collegarli, sistematizzarli.
La “Trilogia della
villeggiatura” è in questo senso rappresentativa. La villeggiatura
è definita da Goldoni “una mania, una passione, un disordine”,
poi ancora un “fanatismo” una vera e propria patologia che
produce debito, ma è sulla scena “feconda di ridicolo e di
stravaganze”. Dunque qual è il legame tra la villeggiatura e la
ricchezza delle nazioni?
Lo si capisce leggendo Le smanie per la villeggiatura, primo capitolo della celebre
trilogia, quando Vittoria, che vuole farsi comprare un vestito dal
fratello sommerso dai debiti, sostiene che rinunciare a una spesa
superflua “può far perdere il credito”.
Quello che sembra soltanto
il capriccio d'una ragazza viziata, da cui scaturisce l'effetto
comico, è in realtà il cuore di un sistema economico nel quale lo
spreco onorifico permette di attrarre nuovo capitale e il debito
alimenta il credito. Insomma la risposta di Vittoria è tutt'altro
che ingenua.
Il rischio estremo cui va
incontro è di perdere il credito. Dietro il ridicolo, dietro
la vanità, dietro la critica, dietro la follia, Goldoni fa
trasparire la tragica ragionevolezza del comportamento di Vittoria,
costretta a inseguire freneticamente la moda e combattere
l'obsolescenza programmata delle merci.
Perché la sua follia è
del tutto ragionevole nel contesto della società in cui vive.
Non sono infatti i
personaggi di Goldoni a essere pazzi o banalmente vanitosi, ma
l'universo stesso in cui vivono a essere disfunzionale.
Negli anni ruggenti del
primo Novecento, poco prima della grande crisi del 1929, a incarnare
questo paradosso con malinconica ironia, fu lo scrittore americano
Francis Scott Fitzgerald, che in un suo articolo del 1924 per il
Saturday Evening Post, consegnò una formula perfetta: “Siamo
troppo poveri per risparmiare, il risparmio è un lusso”.
[ se non avete tempo e/o voglia di leggere, in fondo al testo trovate il video del post ;) ] Presso la maggior parte
delle civiltà che si sono sviluppate su questo pianeta, il sistema
numerico si basa sul numero 1.
Nel senso che si parte a
contare dal numero 1 e si procede man mano a contare...
A Venezia invece, tutto si
basa sul numero 2.
Vi faccio un esempio
concreto: l'altro giorno ero in sala d'attesa del medico di base, e
c'erano due gentildonne che se la contavano su. Ad un certo punto una
dice: "Mia sorella è stata operata 3 volte: do e n'altra "
…
Capite? Si parte comunque
dal due e poi si conta, a salire...
D'altra parte,
l'istituzione stessa della venezianità più pura, cioè i bacari,
hanno nomi assai significativi:
Mmhhh... come spiegare? …
Non esiste un termine adeguato corrispondente in italiano... diciamo
che è un po' enoteca, un po' street food, un po' baretto
confessionale, un po' caffè letterario... La loro missione è quella
di sempre: dar da bere a veneziani e foresti fornendo anche alcuni
"piatti di credenza" vale a dire salumi e formaggi, insieme
a quella piccola e intrigante "cucina in briciole" che va
sotto il nome di cicchetti.
Alle orecchie di un
italiano, il termine “cicchetto” suona come qualcosa da bere, ma
in realtà la parola che identifica questi
piccoli frammenti di un discorso amoroso-culinario, deriva dal latino
ciccus,
cioè “piccolo boccone”. Un boccone quindi che può assumere
mille forme, ma si tratta pur sempre di qualcosa da masticare, non da
bere.
Ma
sto divagando, torniamo al sistema numerico veneziano...
sì
perché anche le farmacie non sono da meno:
Alle
due colonne
Due
ombrelli
e
così via...
D'altra
parte, scusate, ma in Piazzetta San Marco, di colonne ghe ne xe do,
mica una!
Nessun doge di Venezia, così come nessun'altra carica pubblica elettiva di alto e di altissimo livello ai tempi della Serenissima, percepiva alcun compenso per i servigi che rendeva allo Stato; servire la Repubblica era un dovere e un onore, e dare il meglio di sé per Venezia era quanto di migliore si potesse fare nella vita.
Anche per questo, in genere, il doge veniva eletto tra i nobili dotati di maggior patrimonio personale: essere a capo della Serenissima era infatti senz'altro un onore grandissimo, ma anche un onere fortissimo.
Il doge versava i contributi allo Stato alla pari di ogni altro nobile e non poteva essere omaggiato con il bacio della mano o con la genuflessione. Non poteva avere alcuna statua a lui dedicata: il culto della personalità era rigorosamente vietato, e in linea generale, per ogni decisione che riteneva di dover assumere - specialmente quelle importanti - subiva le attenzioni e le ingerenze della Signoria.
Il doge era una sorta di prigioniero a Palazzo Ducale: non poteva accrescere in alcun modo i poteri che gli erano stati conferiti; non poteva ricevere di sua iniziativa nessuno, in veste ufficiale, né spedire autonomamente lettere di Stato o riceverne. Non poteva fare donazioni, se non all'interno della sua stessa famiglia, e in ogni caso non poteva riceverne.
Non poteva più curare i suoi interessi mercantili ed economici (un po' quello che succede con il cosiddetto blind trust che viene applicato ai presidenti degli Stati Uniti) e ogni suo tentativo di influenza nelle nomine delle varie magistrature sarebbe stato oggetto delle cure delle Magistrature di Stato.
Nell'estate
del 1362, da Padova, Francesco Petrarca avvia trattative con la
Repubblica di Venezia, queste le condizioni: Petrarca lascia in
eredità la sua biblioteca alla Repubblica, qualora la Repubblica gli
offra una casa in città.
Senza
intralci burocratici vien presa subito la decisione (abbiamo i
verbali della seduta del Maggior Consiglio, 4 settembre 1362), e
viene offerta al Petrarca una casa che gli piace moltissimo: il
palazzo Molin.
Chi conosce
un po' Venezia sa che ancora al giorno d'oggi di palazzi Molin ce ne
sono diversi. Quello dove viene a stare il Petrarca è un altro
ancora che non c'è più. Possiamo immaginarlo sulla Riva degli
Schiavoni. Venendo dal Palazzo Ducale, dopo il ponte della Paglia
(con vista sul passaggio aereo detto “dei sospiri”), dopo il
Danieli (grondante letteratura e pettegolezzi), dopo la chiesa della
Pietà (dove non suonò
mai Vivaldi), si scavalca il rio Sant'Antonin sul ponte del Sepolcro,
subito a sinistra il palazzo Navagero, poi sede del Presidio Militare
già caserma Aristide Cornoldi, già convento del Sepolcro. La casa
del Petrarca era qui (lapide).
Il Petrarca
ci lascerà opere in latino con la descrizione di quel che vede dalle
sue finestre. Una volta vengono ad ormeggiare proprio qui due navi
grandi come la casa, i loro alberi si ergono molto più in alto dei
tetti. Poi una notte, stanco ed assonnato, ha appena cominciato a
scrivere una lettera quando sente strepiti e grida. Sale di corsa in
cima a una delle due torri che ha la casa e vede che una delle due
navi sta salpando. Le stelle sono coperte dalle nubi, il vento scuote
la casa dalle fondamenta, il bacino di San Marco è tutto un tumulto,
ma la nave prende il largo. È carica di merci pesanti, gran parte
dello scafo è immersa, eppure la nave sembra una montagna
galleggiante. La nave, gli dicono, è diretta alle foci del Don.
Mentalmente il Petrarca le augura buon viaggio, e torna a finire la
lettera che stava scrivendo.
Cosa pensate
voi quando pensate al Don? Fiume russo, uno
dei più lunghi d'Europa. Allora però si
chiamava Tanai (dal
greco
Tánaïs,
dal nome della città di “Tana”). In quel sonetto, che nel
Canzoniere come lo conosciamo noi, porta il numero 148 inaugura la
tradizione di flatus
vocis
che durerà almeno fino ad Alessandro Manzoni: “scoppiò da Scilla
al Tànai / dall'uno all'altro mar”.
I
veneziani a Tana, lungo il fiume Tanai (oggi Don), ci andavano ad
acquistare la canapa (ma non solo), che poi avrebbero usato in una
grande area coperta dell'Arsenale, per fabbricare le corde per le
navi (ma non solo).
Lungo
i muri esterni delle Corderie
(edificio
a tre navate, con 84 colonne, avente una lunghezza di 316 metri),
troviamo calle
e campo
della Tana.
Per
inciso, della biblioteca di Petrarca a Venezia rimase ben poco e di
quel poco quasi nulla è sopravvissuto all'umidità...
”Quale
città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di
pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni
dove dalla tirrannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le
navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita. Città
ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di
virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile
concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta,
dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura”