Nell'estate
del 1362, da Padova, Francesco Petrarca avvia trattative con la
Repubblica di Venezia, queste le condizioni: Petrarca lascia in
eredità la sua biblioteca alla Repubblica, qualora la Repubblica gli
offra una casa in città.
Senza
intralci burocratici vien presa subito la decisione (abbiamo i
verbali della seduta del Maggior Consiglio, 4 settembre 1362), e
viene offerta al Petrarca una casa che gli piace moltissimo: il
palazzo Molin.
Chi conosce
un po' Venezia sa che ancora al giorno d'oggi di palazzi Molin ce ne
sono diversi. Quello dove viene a stare il Petrarca è un altro
ancora che non c'è più. Possiamo immaginarlo sulla Riva degli
Schiavoni. Venendo dal Palazzo Ducale, dopo il ponte della Paglia
(con vista sul passaggio aereo detto “dei sospiri”), dopo il
Danieli (grondante letteratura e pettegolezzi), dopo la chiesa della
Pietà (dove non suonò
mai Vivaldi), si scavalca il rio Sant'Antonin sul ponte del Sepolcro,
subito a sinistra il palazzo Navagero, poi sede del Presidio Militare
già caserma Aristide Cornoldi, già convento del Sepolcro. La casa
del Petrarca era qui (lapide).
Il Petrarca
ci lascerà opere in latino con la descrizione di quel che vede dalle
sue finestre. Una volta vengono ad ormeggiare proprio qui due navi
grandi come la casa, i loro alberi si ergono molto più in alto dei
tetti. Poi una notte, stanco ed assonnato, ha appena cominciato a
scrivere una lettera quando sente strepiti e grida. Sale di corsa in
cima a una delle due torri che ha la casa e vede che una delle due
navi sta salpando. Le stelle sono coperte dalle nubi, il vento scuote
la casa dalle fondamenta, il bacino di San Marco è tutto un tumulto,
ma la nave prende il largo. È carica di merci pesanti, gran parte
dello scafo è immersa, eppure la nave sembra una montagna
galleggiante. La nave, gli dicono, è diretta alle foci del Don.
Mentalmente il Petrarca le augura buon viaggio, e torna a finire la
lettera che stava scrivendo.
Cosa pensate
voi quando pensate al Don? Fiume russo, uno
dei più lunghi d'Europa. Allora però si
chiamava Tanai (dal
greco
Tánaïs,
dal nome della città di “Tana”). In quel sonetto, che nel
Canzoniere come lo conosciamo noi, porta il numero 148 inaugura la
tradizione di flatus
vocis
che durerà almeno fino ad Alessandro Manzoni: “scoppiò da Scilla
al Tànai / dall'uno all'altro mar”.
I
veneziani a Tana, lungo il fiume Tanai (oggi Don), ci andavano ad
acquistare la canapa (ma non solo), che poi avrebbero usato in una
grande area coperta dell'Arsenale, per fabbricare le corde per le
navi (ma non solo).
Lungo
i muri esterni delle Corderie
(edificio
a tre navate, con 84 colonne, avente una lunghezza di 316 metri),
troviamo calle
e campo
della Tana.
Per
inciso, della biblioteca di Petrarca a Venezia rimase ben poco e di
quel poco quasi nulla è sopravvissuto all'umidità...
”Quale
città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di
pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni
dove dalla tirrannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le
navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita. Città
ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di
virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile
concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta,
dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura”
(Francesco
Petrarca)
(fonte: G. Dossena)
(fonte: G. Dossena)