lunedì 20 dicembre 2010

Claudio Monteverdi, maestro di cappella a San Marco

Claudio Monteverdi nasce nel 1565 a Cremona e comincia la sua carriera di musicista al servizio del duca Gonzaga, alla corte di Mantova.
Resta vedovo nell'inverno 1607, durante la rappresentazione della sua prima opera, Orfeo, presso il teatro di corte. Dopo la morte del duca, Monteverdi si presenta al concorso per il posto di maestro di cappella a San Marco, vince e occupa quella carica fino alla morte, nel 1643.
Nella cappella musicale del Doge, Monteverdi assume la successione artistica di Willaert e dei Gabrieli, e trasforma la scrittura dei cori battenti, tipica del Rinascimento, in uno stile concertante, caratteristico dell'epoca barocca. La presenza di Monteverdi a San Marco corrisponde al periodo di maggior splendore, non solo per la qualità della musica, ma anche per la coesione della cappella, che Monteverdi dirige con maestria.
A Venezia intraprende una brillante carriera di compositore: lavora per i Palazzi, per le Accademie, per le Confraternite, pubblica innumerevoli madrigali e opere drammatiche. Ormai avanti con l'età partecipa all'avventura della nascita dell'opera, della quale è considerato uno dei fondatori.
Gli stili sacro e profano si avvicinano, sulla scia delle scene teatrali, il canto solista diventa sempre più virtuoso ed espressivo. Monteverdi afferma le proprie idee restituendo al senso e alla chiarezza del testo tutta la loro importanza. Il testo era infatti diventato incomprensibile nei madrigali del Rinascimento.
Nel 1632, Monteverdi prende i voti e si isola dal mondo. Il suo ritratto attribuito a Bernardo Strozzi ce lo presenta con l'abito talare, il volto emaciato, la barba elegantemente tagliata, e un libro di musica in mano.
Il Lamento di Arianna ("Lasciatemi morire", unica aria esistente della sua seconda opera rappresentata nel 1608 a Mantova) viene parodiato nel mottetto Il pianto della Madonna che chiude la raccolta. Dunque, alla fine dei suoi giorni, Monteverdi si identifica in questa aria che aveva composto trent'anni prima, per un'Arianna in lacrime, soltanto qualche mese dopo la morte di sua moglie. Venezia è esaltata nella sua femminilità, la sua fragilità e il suo candore, tramite questa Vergine commovente.
Monteverdi si spegne nel novembre 1643. Le sue spoglie riposano nella Cappella dei Milanesi alla Basilica dei Frari.

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(Fonte: S. Mamy)

mercoledì 15 dicembre 2010

Come si salvò la famiglia Giustinian

La nobile famiglia Giustinian corse il serio pericolo di estinguersi nel 1171, quando tutti i maschi della casata perirono nella guerra contro l'imperatore bizantino Manuele Comneno. Questi infatti aveva fatto arrestare i veneziani che si trovavano nel suo impero, circa diecimila in quel periodo, confiscando tutti i loro beni e facendone uccidere a centinaia.
Il doge Vitale Michiel II, sull'onda dell'indignazione generale, organizzò una spedizione capitanata da lui stesso. Attaccò diversi porti greci, e stava puntando su Costantinopoli quando un'epidemia di peste colpì le sue navi, costringendolo a rientrare a Venezia. Poco dopo il suo rientro venne assassinato, ma prima di morire concesse la mano della figlia Anna all'unico Giustinian superstite, Nicolò, che però era monaco a San Nicolò del Lido. Al giovane frate, papa Alessandro III  concesse una speciale dispensa che permise il matrimonio.
Dall'unione nacquero nove figli, sei maschi e tre femmine. Fatto il proprio dovere, Nicolò Giustinian ritornò in convento, e Anna Michiel si fece monaca benedettina.
Così la nobile famiglia veneziana fu salva

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domenica 12 dicembre 2010

Carlo e Gasparo Gozzi

I fratelli Carlo e Gasparo Gozzi sono due figure poco conosciute ma importanti nella storia di Venezia.

Carlo Gozzi (Venezia, 1720 – Venezia, 1806), drammaturgo e scrittore, è da considerarsi il contraltare di Goldoni: realista il Goldoni, fiabesco il Gozzi, goldoniani sono quelli che fanno costruire il ponte che lega Venezia alla terraferma, gozziani quelli che difendono l’immobilità di Venezia. Ogni problema veneziano può essere analizzato da questi due punti di vista, del resto le Fiabe teatrali di Carlo Gozzi, risulteranno gradite ai romantici del Nord Europa che le accoglieranno come chiave di interpretazione di Venezia. Tutta la letteratura fantastica su Venezia nasce da Gozzi, ma Gozzi purtroppo è stato dimenticato e, ad esempio, nessuno si ricorda che la Turandot, poi musicata da Puccini, l’ha scritta lui. Nei suoi ultimi anni, Gozzi iniziò a produrre tragedie in cui introdusse ampiamente elementi comici, le sue opere risultarono però troppo innovative per l'epoca. Nel 1797 pubblicò la propria autobiografia col titolo: "Memorie inutili".

Gasparo Gozzi (Venezia, 1713 – Padova, 1786), giornalista e intellettuale, fu uno dei fondatori, insieme al fratello Carlo, dell’Accademia dei Granelleschi (che si proponeva di dar la caccia al mal gusto e di preservare la lingua italiana). Nel 1750 esce la sua prima opera letteraria: Lettere diverse, dove lo scrittore manifesta doti di umorista e moralista leggero e penetrante, che saranno le costanti di tutta la sua opera. Al contrario del fratello Carlo, più legato alle antiche consuetudini nobiliari, Gasparo non rifiutò di cimentare la sua abilità di letterato in un'attività prettamente commerciale quale il giornalismo. fondò infatti la Gazzetta Veneta. All’inizio la sua redazione era ai tavolini del Caffè Florian, a sua detta il posto migliore in assoluto per avere notizie di prima mano, a tal proposito egli soleva ripetere che il pettegolezzo, che per Goldoni è una piaga sociale, è in realtà un deterrente contro l’indifferenza!


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giovedì 9 dicembre 2010

Lazzaretti

L'ubicazione particolare di Venezia, soglia d'Oriente per i commerci e luogo di transito per i pellegrinaggi in Terrasanta, pose presto il problema di arginare ricorrenti pestilenze portate dalle navi che qui si fermavano.
Dal più antico ricordo di contagio di peste del 954 se ne contarono successivamente ben 62.
Alla metà del Trecento, la Repubblica decide di eleggere tre Savi incaricati di occuparsi di questo problema. Si arrivò così al decreto del Senato del 28 agosto 1423 col quale si stabiliva l'utilizzo dell'Isola di Santa Maria di Nazareth (di fronte al Lido) come luogo di ricovero dei malati. Nacque così il primo lazzaretto del mondo: da "Nazareth" infatti viene, attraverso alcune modificazioni, la parola "Lazzareto".
Si era capito che  bisognava provvedere all'isolamento e alla quarantena per circoscrivere in qualche modo il morbo e salvare il salvabile. Non si poteva certo impedire la circolazione delle persone e delle merci (sarebbe stato il collasso dell'economia), ma almeno cautelarsi isolando le persone che giungevano da paesi a rischio e tenerle in osservazione per minimo 40 giorni (da cui la parola "quarantena").
Si pensò inoltre di lasciare in quarantena non solo le persone ma anche le merci e gli animali, i quali dovevano essere lasciati esposti all'aria e disinfettati con fumi speciali.
L'isola si rivelò presto troppo piccola, pertanto si decretò l'acquisizione dell'isola di "Vinea Murata", di fronte a Sant'Erasmo, come Lazzaretto Nuovo.
Durante la peste del 1575, nel Lazzaretto Nuovo trovarono ricovero circa 10.000 persone, e attorno all'isola, ormeggiarono vascelli e altri natanti per dar rifugio ad altre migliaia di sventurati. Dice il Sansovino che erano presenti: "non meno di 3000 legni, grandi e piccoli, i quali avevano sembianza d'armata che assediasse una città di mare".


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(Fonte: Fuga e Vianello)

mercoledì 1 dicembre 2010

Cibi da mar

Se prendiamo alla lettera le lamentele dei passeggeri delle navi veneziane, ci facciamo l'idea che le cose commestibili a bordo fossero ben poche, in realtà non si mangia così male, ma tutto dipende, come si direbbe oggi, dal "pacchetto" che si sceglie!
I pellegrini che nel Medioevo vanno in Terrasanta, se sono poveri, provvedono al vitto per proprio conto, gli altri si accordano con la formula "all inclusive", che comprende anche i pasti a bordo. I più ricchi mangiano alla tavola del capitano, di solito ben rifornita.
Il nobiluomo veneziano Alessandro Magno, imbarcatosi nel 1557 alla volta di Cipro, parla di tre tavole: tra la prima (quella del capitano) e la seconda (frequentata dall'equipaggio specializzato), non c'è molta differenza, si mangia egualmente bene, Nella terza tavola la qualità scende e, ad esempio, il vino è allungato con l'acqua, anche perché è difficile conservarlo a bordo. Il rituale delle tre tavole che rompe la monotonia del mare e offre occasioni di contatti sociali, colpisce il francese Carlier de Pinon, che ci lascia una descrizione vivissima del suo viaggio verso Levante su una nave Veneziana. Ma qual è la lista delle vivande descritta da Carlier de Pinon? Formaggi, carni e pesci salati, olio, vino e acqua di base, ma poi nei porti le navi si riforniscono anche di frutta, uova e verdure. E' diffusa comunque l'abitudine di tenere a bordo animali vivi: pollame, pecore e vitelli che vengono macellati all'occorrenza.
Anche se l'alimentazione da mar, risponde innanzitutto all'esigenza di consumare derrate a lunga conservazione, è innegabile che ci sia anche una certa attenzione verso la salubrità dei cibi. Prevenire disturbi fisici legati al consumo dei cibi è considerato fondamentale soprattutto per gli uomini dell'equipaggio che devono mantenersi in forze per condurre la nave a destinazione. Una malattia piuttosto diffusa è lo scorbuto e per combatterla sulle navi veneziane si consumano rametti carnosi e gonfi di succo salato di una pianta spontanea della laguna veneta: la salicornia. Ad alto contenuto di acido ascorbico, si può mangiare fresca in insalata, o bollita come i fagiolini, ma sottaceto è una vera prelibatezza.
L'altra derrata marittima di cui i veneziani vanno fieri è il panbiscotto, una galletta di alta qualità e lunga durata, confezionata con farina di grano e burro, ma di cui la ricetta completa era ed è tutt'oggi segreta. Durante degli scavi eseguiti sull'isola di Creta, a metà Ottocento, vennero ritrovate delle scorte di panbiscotto risalenti alla guerra con i Turchi nel Seicento, ed erano ancora commestibili!


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(Fonte: C.Coco)

venerdì 26 novembre 2010

Il pranzo di Enrico III

Niente è lasciato al caso durante la visita del sovrano Enrico III re di Francia, nel 1574, all'Arsenale di Venezia: l'entrata attraverso il portale trionfale, l'ispezione ai reparti tecnici, le prodezze di uno sforzo organizzativo che consente di armare in un sol giorno - sotto lo sguardo sbalordito del sovrano - una galera di tutto punto. E per finire, la sosta nelle tre sale d'armi prospicienti il bacino dell'Arsenale Nuovo, una delle quali destinata al banchetto in onore del re di Francia.
Nella rustica cornice di legnami e ferramenta le sorprese devono però ancora iniziare. Accomodatosi col suo seguito per consumare un pranzo che si immagina senza fronzoli, Enrico resta meravigliato quando "prendendo egli il tovagliolo in mano, questi si ruppe in due pezzi, di cui uno cadde a terra: infatti tovaglie, piatti, posate, tutto sulla tavola era di zucchero! così simili al vero da ingannare chicchessia", come raccontano de Nolhac e Solerti.
Per impressionare il raffinato re francese, la Serenissima ricorre ad un'arma micidiale, protagonista di una storia speciale nella quale Venezia ha una larga parte: lo zucchero. Questa polvere dolcissima è allora una vera rarità. Si vende in farmacia come medicamento contro lo scorbuto e le malattie degli occhi ed entra in cucina, mescolata alle spezie, essenzialmente per fare status symbol.
Originaria dell'India, la canna si è acclimatata nel Mediterraneo orientale, ma sono gli arabi ad inventare lo zucchero sviluppandone il metodo di raffinazione e diffondendolo in Sicilia e Spagna. Nel mondo cristiano Cipro detiene il monopolio della coltivazione della canna, e la Repubblica di Venezia quello della vendita in tutta Europa. Gli spezieri veneziani si specializzano nella raffinazione dello zucchero grezzo e diventano abilissimi nel confezionare una gran quantità di ghiottissimi prodotti: sciroppi, confetture, cannellini, pignocade, diavolini, persegade, violette candite, nonché l'"acqua celesta di gioventù", una sorta di elisir di lunga vita.
La "polvere di Cipro" - come allora si chiamava lo zucchero - è d'obbligo anche nei matrimoni che contano. E' usanza regalare alla sposa una scatola di dolci, nel mezzo della quale si trova il bambin de zucaro (una statuetta di zucchero raffigurante un bambino), che la donna deve conservare e guardare spesso per fare un figlio bello come la statuetta.
Da questa tradizione deriva l'espressione "ti xe beo come un bambin de zucaro", che capita ancor oggi di sentire.


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lunedì 22 novembre 2010

Prova di coraggio

Non era dell'umore adatto per partecipare ad una chiassosa festa di piazza il giovane patrizio Almorò Morosini, ma ugualmente decise di lasciare il palazzo di famiglia e dirigersi verso il Campo Santa Maria Formosa. "E' davvero una bella giornata" pensò tra sé "che sarebbe un peccato sprecarla ad oziare a palazzo. Andrò dunque a godermi lo spettacolo della caccia al toro".
La caccia al toro era tra le manifestazioni più seguite a Venezia, e diventava un vero e proprio spettacolo considerato da non perdere nel momento in cui, all'ora prefissata, uscivano nel campo fino a sei tori che portavano appesi alle corna dei fuochi artificiali allo scopo di rendere più scenografica la caccia e aumentare il nervosismo degli animali. Tra le grida degli astanti, venivano aizzati contro i tori dei cani che dovevano in un certo modo dimostrarne la forza. Nell'impari lotta, il cane cercava di azzannare l'orecchio del toro, ma non di rado accadeva che qualche bovino, scrollando la testa, scaraventasse in aria il piccolo avversario per poi infilzarlo con le corna tra gli applausi degli spettatori.
In mezzo alla folla festante, il Morosini osservava pacatamente lo svolgersi della caccia ormai prossima alle fasi conclusive e attendeva il momento finale in cui il più abile componente della confraternita dei beccai si cimentava nello staccare la testa al toro con un sol colpo di spada. Mentre era assorto nei suoi pensieri, improvvisamente dalla folla sbucarono quattro sgherri armati che gli aizzarono contro un feroce mastino. Colto di sorpresa il Morosini non perse però d'animo e sguainata prontamente la spada uccise con un abile colpo il cane inferocito. Poi, senza nessun timore, affrontò e mise in fuga anche i quattro sicari, che erano stati inviati da una famiglia rivale per sistemare antiche ruggini.
L'episodio aveva avuto un occasionale spettatore: il principe Eugenio di Savoia, che dalle finestre di Palazzo Priuli aveva assistito, in compagnia di altri nobili veneziani, alla caccia al toro. Colpito dal valore dimostrato dal Morosini, chiese immediatamente ai presenti: "Chi è costui? Conducetelo da me", "La persona di cui parlate, Eccellenza" spiegò un anziano senatore "altri non è che il patrizio Almorò Morosini, considerato tra gli eroi di questa Repubblica per aver dimostrato un grandissimo valore nella recente guerra contro i Turchi". "Ebbene" rispose il principe "se le cose stanno così, andrò io da lui!" e lasciato il balcone, scese rapidamente le scale portandosi sul campo.
Dopo essersi presentato e congratulato con l'intrepido patrizio veneziano, Eugenio di Savoia volle regalargli un quadro del Correggio rappresentante la Vergine. Dipinto che la famiglia Morosini, in ricordo del proprio avo, conservò poi nei secoli, raccontando con orgoglio l'episodio accaduto durante la caccia al toro a quanti si soffermavano ad ammirare il delicato dipinto alle pareti del salone nel grande palazzo di famiglia.


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(Fonte: D. Mazzetto)

martedì 16 novembre 2010

L'intimità del felze

Molto meno si sarebbe scritto sulla gondola se non fosse stata ricoperta da quella sovrastruttura barocca detta "felze"
Il felze era una struttura mobile creata per riparare i passeggeri delle gondole. Composta dapprima di un semplice drappo poggiato su un arcuato telaio in legno, nel Cinquecento la struttura si abbassa e assume la forma di un vero e proprio riparo. A partire dal Seicento, la struttura viene ricoperta con la "rascia", un tessuto di lana nera venduto in calle delle Rasse.
La struttura in legno di noce veniva realizzata negli squeri, mentre i tappezzieri eseguivano le finiture interne, spesso in raso e in costosa passamaneria. Le decorazioni esterne erano realizzate da esperti intagliatori, e riproducevano divinità marine, teste di grifoni, fiori stilizzati. L'interno veniva arredato con tappeti, bracieri speciali, specchi e persiane che consentivano un completo isolamento. Sulla porticina d'ingresso, sotto allo stemma della casa patrizia, era appeso il "feral de codega" che dava una tenue luce all'interno del felze.
"Barca xe casa" si dice a Venezia, e il felze creava l'intimità di un rifugio personale. Nobili e cortigiane trovavano in questo minuscolo salotto uno spazio dove trascorrere il tempo conversando, cenando o giocando a carte. Ma il felze diventava anche un'alcova galleggiante, un talamo largamente utilizzato, una forma di mascheramento che concedeva tresche e comportamenti licenziosi a veneziani e foresti.
Il felze contribuì a creare il mito di una Venezia libertina e misteriosa, della gondola come cigno nero che scivola silenziosa sull'acqua nascondendo intrighi, misfatti e amori.
I romantici di tutto il mondo hanno cantato l'atmosfera "sotto l'intimità del felze, col vivido quadro veneziano incorniciato dal finestrino mobile", come scrisse Henry James.



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(Fonte: C. Coco)

giovedì 11 novembre 2010

San Martino

Nel 751 Ravenna viene occupata dai Longobardi, e molti ravennati in fuga trovano rifugio nella laguna di Venezia. Già nel 936 compaiono le prime notizie di una chiesa dedicata a San Martino (ricordiamo che la cattedrale di Ravenna era dedicata appunto a San Martino) nell'area che verrà poi utilizzata per la realizzazione dell'Arsenale.
La chiesa di impianto veneto-bizantino venne poi completamente riedificata nel Cinquecento ad opera del Sansovino. In quella occasione venne realizzato anche l'edificio a fianco, come sede della Scuola devozionale di S. Martino, che custodiva un pezzo di tunica, un dito ed un osso della gamba di S.Martino. La reliquia della tibia fu ceduta alla Scuola di San Giovanni Evangelista in cambio di una somma utile al restauro della Chiesa, obbligando però i confratelli a portare la preziosa reliquia in solenne processione l’11 novembre di ogni anno, la tradizione avrà fine solo con la caduta della Repubblica.
Sulla facciata si trova una Bocca di Leone per le denunce segrete (che però per poter esser prese in considerazione non potevano essere anonime). Sulla sommità della facciata abbiamo due statue: San Martino Vescovo (300 dc) e San Martino Papa (600 dc), il primo si festeggia l’11 novembre il secondo il giorno seguente. L'11 di novembre era anche il giorno per il rinnovo dei contratti d'affitto: “far samartin” significava infatti "traslocare". Ma soprattutto l’11 novembre è la festa dei bambini che girano per le calli cantando la filastrocca di San Martino e rumoreggiando con tamburi improvvisati, in cambio ricevono monetine o dolci di pastafrolla a forma di cavaliere che ricordano quello del bassorilievo sopra la Scuola di San Martino.


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martedì 9 novembre 2010

La moneta a Venezia.

Fin dai primi secoli della Repubblica, quando ancora sussisteva il sistema del baratto, era certamente in uso anche la moneta.
Si ha notizia che nel secolo IX circolavano a Venezia denari d'argento recanti sul verso la scritta "Venecie", ma la prima, sicura testimonianza di una zecca locale si ha soltanto agli inizi del secolo XI.
Nel 1112 il doge Ordelafo Falier vende un suo terreno in contrada S. Bartolomeo, a Rialto, e nel documento di vendita si parla di luogo ove "laburatur moneta". Secondo il Tassini l'edificio dell'antica Zecca sorgeva sulla fondamenta detta appunto Fondamenta della Moneta, oggi Riva del Ferro.
Nel 1224 viene creata la prima Magistratura con il compito di gestire la Zecca di Stato.
Il sistema monetario veneziano si fondava su due diversi tipi di lira: la lira di piccoli, usata nel commercio al minuto e per i salari, e la lira di grossi, usata nella contabilità di Stato e nei commerci all'ingrosso.
La lira era divisa in 20 soldi, e ogni soldo si divideva in 12 denari. Il termine "lira" deriva da "libbra" che era l'unità di misura francese sulla quale Carlo Magno nel 779 fece regolare il taglio della moneta del nuovo sistema monetario dei Franchi.
Nel 1284, sotto il doge Giovanni Dandolo, fu istituito il primo ducato d'oro o zecchino veneziano, del peso di 3,56 gr, il cui valore rimase pressoché inalterato fino al cadere della Repubblica (1797) e che godette d'enorme favore sul mercato internazionale.
Nel 1472 si deliberò la coniazione d'una nuova moneta: la lira Tron, o lira trona, dal nome del doge in carica, Andrea Tron.
Sotto il dogato di Nicolò Da Ponte si diede inizio alla coniazione dello scudo veneto (1578), del valore di 7 lire, il cui peso era di 4,31 gr di argento.
Sul finire del Cinquecento, dopo il fallimento di alcuni banchieri, il governo istituì un Pubblico Banco Mercantile, detto banco-giro, composto da un cospicuo deposito, sotto la garanzia dello Stato. Il Banco aveva sede presso la Chiesa di San Giacometto di Rialto, e lì si sviluppò la tecnica contabile che oggi chiamiamo del “giroconto”.


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venerdì 5 novembre 2010

I luoghi di Corto Maltese a Venezia

Hugo Pratt si è divertito ad inventare nomi poetici per i luoghi del suo personaggio preferito, eccovi svelata la toponomastica:

- "Ponte della nostalgia": Ponte Widmann, vicino alla Chiesa dei Miracoli, Cannaregio
- "Sotoportego dei cattivi pensieri": Sotoportego dell'Anzolo che dà sulla Calle Magno, Arsenale, Castello
- "Campiello de l'arabo d'oro": Corte Rotta a San Martino, nelle vicinanze di Campo Do Pozzi, Castello
- "Corte del Maltese": Corte Buello nei pressi di Corte Nova, Castello
- "Calle dei Marrani": Salizada Santa Giustina, vicino a Campo San Francesco della Vigna, Castello
- "Corte Sconta detta Arcana": Corte Botera nei pressi di San Zanipolo

L'osteria che appare nelle storie di Corto è la Trattoria da Scarso, nella piazzetta di Malamocco, dove Hugo amava ritrovarsi con gli amici.
La casa di Hipazia è Palazzo Diedo, vicino a Santa Fosca.
Pratt scelse l'abitazione di Tiziano come domicilio di Corto, la casa si trova in Corte del Tiziano, Cannaregio

Alcuni personaggi creati da Pratt sono ispirati a persone reali:
- Esmeralda: Nini Rosa, grande amica veneziana di Hugo ed esperta ballerina di tango
- Bocca Dorata: Bocca Dorata è una cartomante creola di Bahia, maga esperta in voodoo caraibico che gestiva la società "Finanziaria Atlantica dei Trasporti Marittimi". Fu uno degli amori giovanili di Pratt
- Venexiana Stevenson: Mariolina, moglie di Guido Fuga (amico, collaboratore e compagno di viaggi di Pratt, insieme a Lele Vianello)

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mercoledì 3 novembre 2010

Un'ipotesi sulle origini de "I Promessi Sposi"

Nei primi anni del 1600 un signorotto vicentino, Paolo Orgiano, protetto da un potente zio, Conte dei Fracanzan, e spalleggiato da un cugino, Tiberio, scavezzacollo e scellerato come lui, insidia Fiore Bertola, una bella contadinotta diciassettenne, orfana di padre. Fiore resiste alle lusinghe e sposa Vincenzo Galvan, un giovane contadino da lei amato. Passa qualche tempo e in una sera d' inverno il signorotto ordina il rapimento della giovane: con l' aiuto dei suoi "bravi" fa arrivare la fresca sposa nel proprio palazzotto e lì la violenta. Lucia Fiore dunque fu di Paolo Orgiano don Rodrigo.
Fiore, violata e umiliata, fuggì discinta e scalza dal palazzotto del suo tiranno e tornò avvilita dal marito. Vincenzo (Renzo) non dovette aspettare la peste giustiziera per placare la propria sete di vendetta. Grazie a fra' Lodovico, religioso impavido, difensore di ogni perseguitato, ottenne giustizia dal Tribunale di Venezia.
Nel 1607 Paolo Orgiano, difeso da un mediocre Azzeccagarbugli, venne condannato dal Consiglio dei Dieci della Serenissima Repubblica di Venezia al carcere a vita, per aver terrorizzato per anni il paese di Orgiano, con “homicidi, sforzi, violentie et tirannie”. In particolare per “far operazioni nell’impedir matrimoni”.

Duecento anni dopo, Alessandro Manzoni scrive “I Promessi Sposi”, attingendo dichiaratamente a svariate fonti storiche del ‘600. La vicenda di Paolo Orgiano presenta sorprendenti analogie con quella del Manzoni: Don Rodrigo impedisce il matrimonio di Lucia, e la perseguita fino a costringerla ad allontanarsi. Fra’ Cristoforo aiuta Lucia nelle sue traversie.
Ma sono solo alcune delle molte similitudini tra le due vicende. La questione è come Alessandro Manzoni abbia potuto avere in visione il fascicolo del processo, tuttora giacente all’Archivio di Venezia, corredato delle vivaci testimonianze di popolani e nobili.
Ecco allora spuntare la singolare figura di Agostino Carli Rubbi, archivista veneziano frequentatore e conoscitore della vita culturale lombarda, amico del Beccaria, che potrebbe essersi fatto segretamente tramite della consultazione degli atti del processo da parte dello scrittore. A questa ipotesi il professor Claudio Povolo, dell’Università di Venezia, ha dedicato approfonditi studi, e la sua ipotesi è stata accreditata dai più eminenti esperti in materia.

Da questa ipotesi la compagnia teatrale di Mestre "Fuoriposto" ha tratto una rappresentazione sceneggiata da Paola Brolati ed interpretata dalla Brolati stessa e da Augusto Charlie Gamba, col titolo: "Storia, romanzo, processi... e sposi promessi".

martedì 26 ottobre 2010

Elena Lucrezia Corner Piscopia

Certo non è una prova definitiva della condizione femminile a Venezia all'epoca della Serenissima, il fatto che una nobildonna veneziana, Elena Lucrezia, Corner Piscopia, sia stata la prima donna al mondo a conseguire una laurea, però possiamo considerarlo un indice significativo del fatto che a Venezia le donne avevano una libertà superiore a quella del resto d'Europa.
Il padre di Elena si chiamava Giovanni Battista, era Procuratore di San Marco (la più alta carica dignitaria dopo il Doge) ed era un uomo di grande cultura: disponeva di una biblioteca personale di circa 4.000 volumi. Elena crebbe in questo ambiente e trovò nel padre incoraggiamento e aiuto al conseguimento dei suoi obiettivi culturali.
Elena nacque nel 1646 nel palazzo sul Canal Grande che diventerà di proprietà della famiglia Loredan e che oggi ospita il Municipio di Venezia. A sette anni il padre la affida ad insegnanti privati e a 15 anni parlava correntemente greco, latino, ebraico, spagnolo, francese e arabo. Ma lei studia anche matematica, astronomia e filosofia sotto la guida di uno dei maggiori scienziati del momento, Carlo Rinaldini.
Il padre consapevole del suo talento la iscrive all'Università di Padova, dove Elena vorrebbe studiare teologia, ma non le viene consentito. Sceglie quindi di dedicarsi alla filosofia, e nel 1677, in presenza dell'intero collegio di Padova, di gran parte del Senato e di un folto pubblico, sostenne la tesi sull'Analitica e Fisica di Aristotele. Il 25 giugno del 1678 viene insignita, prima donna al mondo, del titolo di "doctor". Data la grande affluenza di pubblico, la cerimonia si svolse in una chiesa!
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò, all'assistenza dei poveri. Morì a Padova il 26 luglio del 1684 malata di tubercolosi. Le sue spoglie riposano  nella chiesa di Santa Giustina.


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giovedì 21 ottobre 2010

Acqua dolce a Venezia

"Venezia è in acqua ma non ha acqua" (M. Sanudo)
L'approvvigionamento di acqua potabile fu problema di primaria importanza per Venezia fin dai primi momenti della sua vita, e si può dire si protrasse lungo tutto l'arco della sua millenaria storia.
Quando le popolazioni della terraferma, sotto la pressione delle invasioni barbariche, trovarono rifugio nelle isole della laguna, è molto probabile che abbiano dapprima approfittato delle acque dei fiumi che entravano in laguna. Si sa per certo che si procuravano l'acqua anche da pozzi naturali di acqua piovana.
Con il trasferimento della sede del governo a Rialto, per evitare la spesa del trasporto dell'acqua dolce dai pozzi del litorale, si cominciarono a realizzare una o più cisterne d'uso pubblico nei cortili delle case, cisterne che raccoglievano l'acqua piovana dopo essere stata filtrata da uno strato di sabbia . All'inizio del 1300 in città erano presenti già un centinaio di pozzi.
Allo scopo di incrementare sempre più il numero di pozzi furono presi provvedimenti di varia natura, ad esempio le corporazioni religiose che ne avessero costruiti all'interno dei conventi venivano largamente sovvenzionate dallo Stato purché i pozzi fossero lasciati in libero uso a tutti i cittadini.
Furono adottate misure di vigilanza per evitare sprechi nel consumo: i parroci (detti appunto "piovani") custodivano le chiavi dei pozzi con l'incarico di aprirli due sole volte al giorno, al suono della "campana dei pozzi". Esistevano anche pozzi dedicati al solo uso dei poveri, come quello di San Marcuola.
Ma il continuo aumento della popolazione e dei commerci determinò un consumo di acqua tale che le cisterne non erano più sufficienti. Pertanto nel 1540 il Senato decretò la realizzazione dello scavo del canale Seriola allo scopo di portare le acque del fiume Brenta fino ai margini della laguna, presso Fusina, in modo da rendere più agevole il trasporto dell'acqua a Venezia. Il trasporto veniva effettuato tramite barche apposite chiamate "burchi". Addetti a questo trasporto erano gli "acquaroli", associazione costituitasi  fin dal secolo XIV, con sede in un modesto edificio nel pressi della Chiesa di San Basegio.
L'acqua poteva essere venduta in piccole quantità, per le strade, dai "bigolanti", al grido "acqua mo!". Questi venditori ambulanti portavano l'acqua dolce direttamente alle case o ai negozi che ne facevano richiesta.
Nel Settecento i "bigolanti" erano circa un centinaio (per lo più donne) e acquisivano il diritto di vendita con un contributo annuo di 20 soldi pagato agli "acquaroli".



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lunedì 18 ottobre 2010

La via delle spezie

Semi, cortecce, delicate foglie e minuscoli frutti, essiccati e usati per aromatizzare i cibi, sono alla base della ricchezza di Venezia. Species deriva dal latino e significa merce speciale, di valore. In opposizione alle cose ordinarie questa definizione include, quindi, tutti i prodotti costosi e unici nel loro genere.
Provenienti da terre avvolte nel mito, le spezie fuggono il banale, il quotidiano, il consueto, evocano sensazioni sconosciute, sapori insospettabili, raffinatezze inaudite. Il loro impiego in cucina risale al tempo dei Romani, quando il Mediterraneo era un lago senza frontiere.
Se il mito colloca le spezie tra gli alberi del paradiso terrestre, i medici dell'antichità le considerano un rimedio contro le malattie. L'importanza di uno stretto legame tra dietetica e benessere ne determina perciò un uso abbondante sia nelle vivande che al termine del pasto, servite confettate o mescolate al vino. Se mettiamo definitivamente da parte la falsa opinione che le spezie servissero per conservare i cibi o nascondere gli odori degli alimenti, si comprende che l'uso di quei sapori era una scelta di gusto e benessere. Il loro costo elevato rappresenta poi un elemento di prestigio che assume presto un significato di status symbol.
A consentire il mantenimento del lusso - nel momento in cui l'impero romano si sfalda - ci pensa Venezia che ben presto assume in questo commercio un ruolo determinante. Scelte politiche appropriate  e intelligenti accordi economici consentono ai mercanti veneziani di commerciare in condizioni privilegiate. Così Venezia assume il monopolio e dal bacino di San Marco si dipartono le rotte di levante e di ponente, perché si acquista in Oriente e si esporta in tutta Europa, facendo passare ogni cosa per Rialto. Si crea la mitica Via delle Spezie che dall'Estremo Oriente arriva ad Antiochia e Petra, oppure dall'Indonesia e dall'India attraverso il Golfo Persico, Bassora, e da lì via terra fino a Damasco. C'è poi la "Via del Cinnamomo": Molucche, Madagascar, Zanzibar, risalendo il Nilo fino ad Alessandria d'Egitto.
Cinquemila tonnellate di spezie trasportate annualmente da una cinquantina di galere e da circa tremila navi a vela, rendono l'idea di questo commercio nell'epoca d'oro.
Nel cuore del mercato di Rialto, la Ruga degli Spezieri raccoglie un'eredità lunga di secoli. I magazzini traboccano di spezie di ogni varietà: piper nigrum, pepe longo, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, macis, zafferano, zenzero, in un'orgia di colori e profumi.
Gli spezieri veneziani triturano e mescolano, provano gusti, studiano combinazioni, verificano effetti. Diventano i più abili confezionatori del mercato mondiale, inventano il "marketing" e il "packaging" delle spezie, miscele ready to use che vengono chiamati "sacchetti veneziani"
Poi Vasco de Gama doppia il Capo di Buona Speranza e le merci cominciano ad arrivare in Europa tramite i portoghesi e gli olandesi. è l'inizio della fine della potenza commerciale della Serenissima.

(fonte: C. Coco)


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giovedì 14 ottobre 2010

Chiesa dei Santi Biagio e Cataldo

Verso l'estremità occidentale della Giudecca dove, alla fine dell'Ottocento sorse l'imponente mole del Mulino Stucky, esisteva una modesta chiesa a servizio dei pellegrini della Terrasanta, dedicata ai Santi Biagio e Cataldo. La prima consacrazione della chiesa risale al 1188. Nel 1222 la beata Giuliana dei Conti di Collalto giunse su questa isola dove fondò un monastero annesso alla preesistente chiesa. Nel XVI secolo l'intero complesso subì un importante restauro, e la chiesa venne completamente rinnovata per mano di Michele Sanmicheli. Un ultimo restauro venne effettuano agli inizi del '700, sotto la direzione di Domenico Rossi e di Giorgio Massari. I lavori comportarono anche la demolizione del coro pensile le cui colonne furono impiegate per realizzare il portico laterale della vicina chiesa di S. Eufemia. Si rinnovarono anche gli arredi, gli altari e la decorazione pittorica con nuovi dipinti e pale d'altare.
A giudicare dalla vastità e dal numero degli ambienti, oltre ai fatti storici a cui fu legata (tra i quali la visita di Pio VII nel 1800), si deve pensare che la Chiesa e il monastero dei Santi Biagio e Cataldo avessero raggiunto nei secoli una notevole consistenza edilizia e una sempre maggiore importanza.
Ciò non valse però ad impedirne la soppressione nel 1810 e la conseguente spoliazione. Fu dapprima utilizzato come ospedale per malattie infettive, quindi il complesso passò in mano a privati che iniziarono a demolirlo per ricavare materiale da costruzione. Nel 1882 quel poco che restava fu raso al suolo e disperso.




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lunedì 11 ottobre 2010

Liber Mutus

Il Liber Mutus rappresenta il più famoso ed enigmatico testo alchemico. Il libro tratta del processo psicologico di realizzazione del sé proiettato dagli alchimisti nella trasmutazione della materia, la ricerca dell'immortalità, simbolizzata dall'oro, nel Lapis Philosophorum, e nell' elixir vitae.
In sole 15 tavole, sono illustrate tutte le operazioni fondamentali della Grande Opera attraverso un insieme di immagini allegoriche, ricche di dettagli, il cui simbolismo il lettore è chiamato ad interpretare. Il linguaggio iconografico è considerato sufficiente di per sé a comunicare quei segreti che è impossibile esprimere per mezzo della parola.
Le uniche frasi scritte si trovano nella prima, nella penultima e nell'ultima tavola. Nella prima tavola leggiamo: "Il Libro Muto, nel quale l'intera filosofia ermetica viene rappresentata in forma di figure geroglifiche, consacrato a Dio misericordioso, tre volte massimo ottimo, e dedicato ai soli figli dell'Arte, da un autore il cui nome è Altus".
Le enigmatiche serie di numeri e di sigle che seguono vanno lette al contrario (da destra a sinistra) e si rivelano essere dei riferimenti a specifici versetti biblici.
Nella penultima tavola, in fondo, leggiamo: "Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai": consiglio singolare per un libro in cui non c'è praticamente nulla da "leggere" in senso stretto, eppure è un invito prezioso a ricavare dalle immagini quegli insegnamenti che la parola non potrebbe comunicare.
Nell'ultima tavola, i due filatteri che escono dalla bocca dell'uomo e della donna inginocchiati di fronte alla gloria dell'alchimista recano le parole: "Dotato di occhi chiaroveggenti te ne vai".
La prima edizione stampata del Liber Mutus fu pubblicata a La Rochelle nel 1677. Le tavole, ridisegnate e migliorate dal punto di vista grafico, furono poi incluse nella monumentale Biblioteca Alchemica Curiosa di Manget (Genève, 1702). Seguirono quindi varie riedizioni del libro, tra le quali merita una menzione particolare una versione a colori, ritrovata in un manoscritto della fine del XVIII secolo custodito alla "Library of Congress" di Washington.
Una preziosa copia della versione manoscritta originale fu portata a Venezia da Joserf Nassì e nascosta nel giardino segreto di Melchisedec dietro alla Schola Levantina in Ghetto Vecchio...




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giovedì 7 ottobre 2010

Frederick Rolfe, Baron Corvo

"Corvo", perché questo epitaffio? Per romanticismo?
A Rolfe era sempre piaciuto il blasone, quand'era seminarista si componeva lo stemma, immaginava insegne, arrivava in refettorio con un corvo impagliato sulla spalla.
Una vita di solitudine e di miseria, un carattere instabile, eccentrico, cavilloso, vizioso, vendicativo, dotato per tutte le arti, sempre in lite con gli amici, cartomante, invaghito del passato della Chiesa, del Rinascimento, adorava i fasti cattolici senza la vocazione del sacerdozio.
A. Symons, nella sua famosa Quest for Corvo (indagine postuma condotta presso tutti coloro che avevano conosciuto Rolfe), traccia la sua vita dal seminario fino a Venezia.
Baron Corvo però non doveva trovare da appollaiarsi in quella città senza alberi.
Membro del circolo nautico del Bucintoro, Corvo aveva anche imparato a condurre la gondola, arte antica e difficile. Quando cadeva in acqua, continuava a fumare la pipa, così come Byron quando nuotava nel Canal Grande teneva il sigaro in bocca per "non perdere di vista le stelle".
Corvo, autore del prestigioso Adriano VII (1904), che conobbe il successo solo dopo la sua morte (1913), ci ha lasciato, del suo incontro con Venezia, una lettera bella quanto una notte bianca in laguna: "Un mondo crepuscolare, fatto d'un cielo senza nubi, d'un mare senza increspature, dove tutto è malva, tiepido, liquido e limpido, tagliato da strisce di rame bronzeo, che va fondendosi nell'azzurro insondabile".
Ancora ci sembra di vedere Corvo scacciato da tutte le locande, portare a spasso i suoi panni in un paniere e dormire sul fondo di una barca, sempre sull'orlo del suicidio, scrivere a fior d'acqua su un quaderno gigante, in pieno inverno, le sue famose "Lettere a Millard" che nessuno potrà mai leggere.


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lunedì 4 ottobre 2010

Osterie, Bacari e dintorni a Venezia

A Venezia si incontrano diverse Calli del Magazen (di cui vediamo nella foto un nizioletto curiosamente reinterpretato), ma contrariamente a quanto potrebbe sembrare i Magazen non erano "magazzini", ma rivendite di vino al minuto. Nei Magazen inoltre si praticava il prestito su pegno e vi si riceveva in cambio due terzi in denaro e un terzo in vino di bassa qualità, detto appunto “vin da pegni”.
Anticamente a Venezia esistevano varie tipologie di locali, oltre ai magazen c’erano le osterie, che svolgevano anche funzione di albergo, poi c’erano le malvasie, dedite alla sola rivendita di vino foresto, cioè straniero (ricordiamo che la malvasia non è un vino siciliano ma greco), poi c’erano i bastioni e i samarchi, vere e proprie bettole dove si potevano anche mangiare i famosi cicheti, cioè gli antenati delle tapas spagnole, poi c’erano le furatole, dove si consumavano pasti veri e propri, infine c’erano i fritolini, dove si consumava solo pesce fritto e polenta.
Più recenti sono i "bacari", locali dove tradizionalmente si beve un'ombra di vino e si gustano i cicheti. Il nome forse deriva dai "bacari" (singolare: bacaro), un termine, che a sua volta deriva dal "Baccho", dio del vino. Secondo un'altra teoria deriva da "far bàcara", espressione veneziana per "festeggiare". "Bacari" si chiamavano una volta quei vignaioli e vinai, che venivano a Venezia con un barile di vino per venderlo in Piazza San Marco, insieme con dei piccoli spuntini.
Nei veri bacari è possibile consumare anche vino di ottima qualità.

"Chi ben beve, ben dorme,
chi ben dorme, mal no pensa,
chi mal no pensa, mal no fa,
chi mal no fa, in Paradiso va.
Ora ben bevè che el Paradiso avarè!"


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giovedì 30 settembre 2010

Il convento di San Lorenzo

Un primo monastero di monache benedettine riservato al patriziato venne fondato nell’850 per iniziativa della potente famiglia Partecipazio, con il tempo il complesso accrebbe le sue ricchezze in maniera vertiginosa, già nel 1100 era proprietario di circa 200 immobili in città e vari appezzamenti in campagna, tutte rendite utili che si sommavano alle ricche doti portate delle novizie che provenivano tutte da benestanti famiglie nobili.
Nel tempo chiesa e monastero hanno subito numerosi lavori di restauro e modifiche, durante uno di questi lavori andarono purtroppo dispersi i resti di Marco Polo che qui era sepolto. San Lorenzo oltre ad essere uno dei due conventi riservati ai patrizi (l’altro è San Zaccaria) era anche uno dei cinque conventi doppi dove cioè vivevano sia frati che monache. E' chiaro che trattandosi di donne costrette alla vita conventuale dalle loro famiglie solo per accrescere il capitale dei figli maschi, queste non erano esattamente guidate dalla vocazione! E così per rivalsa esigevano distinzioni e privilegi, anzi, nei conventi, lontane dalla severità familiare, erano in un certo senso più libere e potevano abbandonarsi ad un ozio raffinato e libertino.
Ma non tutte accettavano supinamente il loro destino: una voce forte fu quella della monaca  Anna Tarabotti che all’inizio del 1600 scrisse un libretto titolato: “L’inferno monacale”, dove denunciava le autorità politiche e religiose di basso maschilismo, contestando i condizionamenti, le repressioni e le mortificazioni che le sue contemporanee, lei per prima, dovevano subire – ma fu una voce isolata, le costrizioni perdurarono e così i vizi ed i lussi delle monache. Da citare una nota dal diario del Granduca di Toscana Cosimo III, che venne qui in visita agli inizi del 1700, dove descrisse le monache in ”abito più da ninfe che da monache”.
Ma tutta questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze indesiderate – in tutta la città per questo v’erano diverse imprese che producevano contraccettivi, fabbricati con budella di animali, in dialetto erano chiamati "condoni", termine che qualcuno fa risalire ad un ipotetico medico inglese Condom di cui però non c’è alcuna certezza della sua esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere”="proteggere". Questo interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel 1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno di Napoli (ed è per questo tra l’altro che la sifilide viene anche detta "mal francese", cosa curiosa è che in Francia invece la chiamano "mal napolitaine"). Tra i personaggi famosi colpiti dalla sifilide ricordiamo Casanova, Giorgio Baffo e Papa Giulio II!




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lunedì 27 settembre 2010

Le profezie di San Malachia

San Malachia era un monaco benedettino irlandese vissuto nell'XI secolo. Nato ad Armagh nel 1094, ancora adolescente divenne l'abate del proprio convento. Cominciò ad avere visioni nel 1139, in occasione del suo primo viaggio a Roma. Dopo questa visita Malachia O'Morgair scrisse le proprie profezie, composte da 111 frasi in latino, corrispondenti a 111 pontificati, da quello di Celestino II (1143-1144) fino all'ultimo pontefice, Petrus Romanus. Il penultimo è l'attuale pontefice, Benedetto XVI.
Secondo la profezia con l'ultimo papa Petrus Romanus, che secondo alcuni sarà portoghese, la Chiesa Cattolica Romana concluderà la propria esistenza.
San Malachia morì il giorno da lui stesso predetto: il 2 novembre 1148, a Chiaravalle, presso il suo grande amico San Bernardo da Chiaravalle.
Le sue Profezie vennero archiviate in Vaticano e pubblicate parzialmente la prima volta a Venezia solo nel 1527. La lista completa delle profezie venne poi pubblicata, sempre a Venezia, da Arnold Wion nel 1595. La scelta di pubblicare le Profezie di San Malachia a Venezia dipese sia dalla grande libertà di stampa ivi presente, sia per la presenza della più grande industria editoriale e tipografica d'Europa.
Questi sono i papi veneziani da lui profetizzati e realmente accaduti:
- Gregorio XII (1406-1415) (Angelo Correr): "Nauta de ponte nigro" [marinaio del Ponte Nero] Angelo Correr fu infatti anche vescovo dell'Isola di Negroponte, allora possedimento veneziano
- Eugenio IV (1431-1447) (Gabriele Coldumer): "Lupa coelistina" [lupa celestina] La lupa appare sullo stemma di Siena, città di cui fu vescovo, e dove faceva parte dell' Ordine dei Celestini
- Paolo II (1464-1471) (Pietro Barbo) "De cervo et leone" [del cervo e del leone] Egli fu vescovo di Cervia ("cervo") nei pressi di Ravenna, mentre il leone è chiaro simbolo marciano
- Alessandro VIII (1689-1691) (Pietro Vito Ottoboni) "Poenitentia gloriosa" [penitenza gloriosa] Allusione alla vita penitente di San Bruno, commemorato il 6 ottobre, giorno in cui Pietro VIto Ottoboni fu eletto Papa
- Clemente XIII (1758-1769) (Carlo della Torre Rezzonico) "Rosa Umbriae" [rosa dell'Umbria] Carlo fu governatore dell'Umbria, regione di San Francesco d'Assisi, "Rosa" della Cristianità
- Pio IX (1903-1914) (Giuseppe Melchiorre Sarto) "Ignis ardens" [fuoco ardente] Forse in riferimento al fatto che quando iniziò la Prima Guerra Mondiale Pio IX voleva assolutamente recarsi al fronte per impedire i combattimenti
- Giovanni XXIII (1958-1963) (Angelo Giuseppe Roncalli) "Pastor et Nauta" [pastore e marinaio] che condusse la Chiesa in una nuova direzione

L'attuale Papa Benedetto XVI, è descritto come "De gloria olivae". Il motto "De gloria olivae" è stato collegato al nome "Benedetto" perché alcuni benedettini  sono anche chiamati "monaci olivetani". Da notare che nell'araldo del Papa è raffigurata un persona di colore sul lato sinistro del simbolo della Diocesi di Frisinga di cui Ratzinger fu arcivescovo. Il termine "olivae" è stato collegato al colore di questo viso di moro. Il 26 aprile 2009 Benedetto ha proclamato santo Bernardo Tolomei, fondatore dell'ordine degli Olivetani.

Alcuni interpreti del testo di Malachia ritengono che Petrus Romanus non si riferisca ad un Papa successivo a questo ma a San Pietro, il primo Papa della storia, quindi l'ultimo papa sarebbe quello attuale...




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(Fonte: P.Zoffoli)

giovedì 23 settembre 2010

I Cavalieri di Malta

L'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detto dei Gerosolimitani, poi di Rodi, infine di Malta, è tra i più illustri e celebri ordini cavallereschi.
Nata come pia fondazione degli Amalfitani a Gerusalemme, amministrava una chiesa e un ospizio vicino al Santo Sepolcro, e si dedicava all'attività ospedaliera e all'assistenza dei pellegrini in Terra Santa almeno dalla seconda metà del sec. XI.
Al momento della conquista di Gerusalemme nel 1099, la confraternita religiosa era guidata da Gherardo. L'entrata massiccia dei cavalieri latini in Terra Santa moltiplicò le attività dell'Ordine. Nel 1123 una Bolla di papa Pasquale II attribuiva ai Gerosolimitani le caratteristiche formali di un ordine religioso della chiesa romana. L'Ordine fu poi costretto dalla situazione politico-militare ad assumere anche compiti difensivi e militari. Da quel momento il nucleo dell'Ordine sarà composto da frati cavalieri, frati servienti e frati cappellani, tutti e tre con voti religiosi di castità, povertà ed obbedienza e compiti ospedalieri e militari.
La prima notizia dell'esistenza di un Priorato Gerosolimitano a Venezia si ha con una lettera di papa Nicolò IV datata 11 settembre 1292 con la quale si ordina al Priore dell'Ordine di San Giovanni a Venezia di impiegare metà delle sue risorse per il sostentamento delle galee inviate in Terra Santa.
Dapprima l'abito dei membri dell'Ordine era una tunica nera con una semplice croce di stoffa bianca, cucita sul petto. Frà Raimondo de Puy introdusse, con la prima Regola dell'Ordine, la croce bianca ottagonale (la croce di Malta), che è rimasta emblema dell'Ordine. La tradizione vuole che la benemerita croce di Malta rappresenti e ricordi perennemente le otto beatitudini evangeliche.
La marina dell'Ordine fu probabilmente la prima nell'Europa del Medioevo ad usare uniformi uguali. I cavalieri infatti portavano tutti sopra la corazza la sopravveste dell'Ordine rossa con croce latina bianca (la croce di Malta era usata come segno personale di appartenenza all'Ordine e non come simbolo militare).
La marina dell'Ordine, con la sua flotta, dovette consegnarsi nel 1798 al corpo militare della spedizione in Egitto di Napoleone, rompendo la neutralità di un Ordine religioso i cui cavalieri avevano promesso di non battersi contro altri cristiani. Il 12 giugno 1798, dopo più di cinquecento anni di gloriosa esistenza, le bandiere rosse e bianco-crociate furono ammainate per l'ultima volta.
A Venezia esiste ancora la Chiesa di San Giovanni Battista sede del Gran Priorato di Lombardia e Venezia dell'Ordine di Malta (Castello 3253).

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domenica 19 settembre 2010

Il tesoro scomparso della Zecca

Il 12 maggio 1797 Napoleone occupa Venezia. E' la prima volta nella sua lunga storia che la città cade in mani nemiche e subisce un saccheggio di proporzioni colossali, si parla del 70-80% dei suoi beni artistici razziato. Su un tesoro però i nuovi padroni non riescono a mettere le mani: l'oro della Zecca di Stato. Forse per questo hanno poi utilizzato la Zecca per fondere l'ingente patrimonio delle reliquie, per lo più bizantine, in possesso di chiese e monasteri veneziani soppressi.
Tre senatori, d'altrettante nobili famiglie, sovrintendevano al funzionamento del cuore monetario della Repubblica e questi, probabilmente prima della capitolazione ai francesi, devono aver pensato di mettere tali sostanze al sicuro, dove i nuovi occupanti non andassero a frugare. Tra le varie ipotesi sul nascondiglio del tesoro, una si incentra sull'isola della Certosa, una delle più belle e curate della laguna a quel tempo, che godeva dell'attenzione delle più eminenti famiglie le quali l'avevano eletta a loro Pantheon. Pare quindi che il Savio Cassier con i suoi collaboratori possedessero qui, nel chiostro piccolo, dei loculi e proprio di questi si siano serviti per occultare il tesoro.
Chissà poi che strade avrà preso il gruzzolo nascosto di cui non si fa più cenno in alcun documento. Forse i nobiluomini disperando in un ritorno della Serenissima all'antica gloria, se lo sono spartito fra loro o forse la fortuna giace ancora sepolta da qualche parte sull'isola...



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giovedì 16 settembre 2010

San Marco in trono e Santi

La piccola pala, realizzata da Tiziano per la chiesa di Santo Spirito in Isola a Venezia, è un ex voto per una grave epidemia di peste che colpì la città nel 1510, facendo un gran numero di vittime. Questo spiega la presenza simultanea, oltre a San Marco, di quattro santi che la tradizione considera apotropaici. San Rocco, in abiti da pellegrino indica con la mano destra la piaga della peste sulla sua coscia. Un bellissimo San Sebastiano, trafitto da una freccia, volge lo sguardo assorto verso l'esterno. La presenza dei santi Cosma e Damiano, medici e protettori dei medici, intende legare scienza e fede nella lotto contro la temuta epidemia.
La tipologia dell'ex voto, così ampia da comprendere architettura, pittura e scultura, ha come principale obiettivo il manifestare e rendere tangibile la gratitudine di una intera comunità (ma anche di un singolo individuo) per un pericolo scampato. Nei casi più importanti lo schema iconografico si avvale di una struttura compositiva a piramide, al cui vertice si trova Dio Padre o Gesù o Maria Vergine o un Santo importante, poi altri Santi inerenti il tema dell'ex voto, infine i committenti o le persone che hanno ricevuto la speciale protezione.
Il termine "ex voto" deriva dal latino "votum" da "vovere", cioè "fare una promessa".
La pala, oggi custodita nella Basilica della Salute, è la conferma della pienezza della concezione coloristica dell'artista e del suo originale trattamento della luce. Ma è anche  un chiaro messaggio, politico e ideologico, di virtù civiche veneziane.
 

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martedì 14 settembre 2010

domenica 12 settembre 2010

Il leone di San Marco

Fu Sant'Ireneo nel II sec. che per primo attribuì i simboli ai quattro Evangelisti: l'aquila a San Giovanni, il bue a San Luca, l'angelo a San Matteo e il leone a San Marco. Ma ancor prima della nascita di Cristo le dodici tribù ebraiche si raggruppavano a gruppi di tre sotto simboli simili: Issachar, Zabulon e Giuda: il leone; Ruben, Simeone e Gad: l'angelo-uomo; Efraim, Manasse e Beniamino: il toro; Dan, Aser e Neftali: l'aquila. Questi animali ricordano gli ancor più antichi Karibu assiri, esseri dalla testa umana, corpo di leone, zampe di toro e ali d'aquila.
Il leone è simbolo di potenza, di sovranità, ma anche del Sole, dell'oro, della forza penetrante della luce e della parola. Krishna, dice la Bhagavad Gita, è "il leone tra gli animali"; il Buddha è "il leone della Shakya". E' la potenza della shakti, dell'energia divina, ma anche portatore di conoscenza. Si legge nei Veda indiani:"Quando egli insegna il Dharma ad una assemblea, suona come il ruggito del leone". Parole simili a quelle di San Marco all'inizio del suo Vangelo quando descrive San Giovanni Battista che "ruggisce nel deserto".
Il leone rappresenta anche la giustizia: da cui i leoni del trono di Salomone.
In Estremo Oriente il leone è un animale fortemente emblematico, con profonde affinità con il drago, ed è in grado di proteggere dalle influenze malefiche. In Egitto i leoni sorvegliano il trascorrere del tempo.
A Venezia, malgrado il trafugamento del corpo di San Marco avvenga nell' 828, la figura del leone quale simbolo dello Stato sarà adottata soltanto nel XII secolo. I mosaici della cappella di Sant'Isidoro, nella Basilica di San Marco, raffigurano la traslazione del corpo di Sant'Isidoro dall'isola di Chio per opera del doge Domenico Michiel, avvenuta nel 1125. Questi mosaici raffigurano la fortezza dell'isola di Chio, un molo e delle galere. Varie bandiere sventolano sia sulla fortezza sia sulla poppa delle galee. Su ogni bandiera è raffigurato un leone.
I colori utilizzati per il leone e per lo sfondo nello stendardo di Venezia variano moltissimo nei secoli, la Serenissima infatti non codificò mai ufficialmente la sua araldica, così che leone e bandiera furono rappresentati in modo assai differente, comunque i colori più usati sono il leone in color oro su sfondo rosso o su sfondo azzurro.

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venerdì 10 settembre 2010

La Scuola Grande di San Rocco

L'equivalente veneziano della Cappella Sistina di Roma è la Scuola Grande di San Rocco, nel senso che, all'interno, vi è un ciclo pittorico completo eseguito da un solo artista che sapeva, sin dal progetto iniziale, che sarebbe stato l'unico realizzatore della decorazione. Oltre quaranta grandi tele dipinte da Jacopo Tintoretto decorano le pareti ed i soffitti della sede della Confraternita votata a San Rocco, protettore degli appestati.
Il risultato artistico è stupefacente: la luce è l'elemento principale della pittura di Tintoretto, più ancora del colore che aveva caratterizzato l'opera del Tiziano e dei maestri veneziani del Rinascimento, con drammatici effetti chiaroscurali culminanti nella splendida "Crocifissione" della Sala dell'Albergo, nella figura circonfusa di luce del Cristo al centro della composizione.
Si dice che Tintoretto ottenne l'incarico grazie ad un piccolo trucco: quando i Confratelli organizzarono il concorso per decidere a chi affidare la decorazione dell'intera Scuola chiesero a diversi artisti di presentare un progetto per l'ovale nel soffitto della Sala dell'Albergo. Tintoretto però riuscì segretamente a farsi dare le misure esatte dell'ovale e così invece di realizzare una bozza eseguì il dipinto completo! Per la giuria la scelta fu quasi obbligata...

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martedì 7 settembre 2010

Asolo

E' stata definita la "città dei mille orizzonti" per la sua posizione geografica, ma Asolo è soprattutto un borgo noto per la sua storia e le sue regine. Sì, perché ad Asolo soggiornarono due donne famose: la veneziana Caterina Cornaro, regina di Cipro e "figlia prediletta della Serenissima Repubblica di Venezia", che qui tenne corte per più di trentanni, e, secoli dopo, la "divina" Eleonora Duse che ad Asolo dimorò a lungo e dove volle esser sepolta.
L'antica sede della Comunità Asolana, una costruzione a portico del XV sec. decorata con affreschi, detta la Loggia del Capitano, ospita oggi il Museo Civico ricco di dipinti di scuola veneta e statue del Canova, nonché cimeli di Caterina Cornaro, Eleonora Duse e Gabriele D'Annunzio.
Dalla porta del Colmarion si sale all'incantevole Rocca dalle alte mura merlate dalla quale si gode di uno splendido panorama.
Nel Duomo sono conservate opere di Lorenzo Lotto e Jacopo Bassano.




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domenica 5 settembre 2010

Copyright

Venezia fu la prima nella storia a riconoscere il diritto d'autore sulle invenzioni dell'uomo. Una disposizione del 19 marzo 1474 assegna ai Provveditori de Comun il compito di sovrintendere alla registrazione dei brevetti: "Ci sono molti uomini, in questa città e nelle sue vicinanze - si legge dal testo originale - attratti dalla sua eccellenza e magnificenza, molti uomini di diverse origini, con menti ingegnose e in grado di immaginare e scoprire diversi oggetti artificiosi. E se si facesse sì che altri non potessero riprodurre le opere e gli artifici da essi inventati, e garantirne loro l'onore, allora questi uomini userebbero le loro menti per scoprire cose di non poca utilità per la nostra Repubblica". Il testo prosegue spiegando come sia "prohibito a chadaun altro in alguna terra e luogo nostro, far algun altro artificio ad imagine et similitudine di quello, senza consentimento et licentia del auctor, fino ad anni X". L'eventuale contraffattore era condannato a pagare 100 ducati all'autore, e l'oggetto copiato sarebbe stato distrutto.

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domenica 29 agosto 2010

Venezia e le sue donne

Ci sono dei pregiudizi ancora abbastanza radicati sulla vita dei veneziani ai tempi della Repubblica. Sono pregiudizi che risalgono al 1818 quando apparve il libro di Pierre-Antoine Daru, Historie de la Rèpublique de Venise, che presenta il governo veneziano come regime bieco e tirannico. Niente di più falso.
Venezia fu il rifugio di perseguitati politici di altri stati, aveva una regolamentazione carceraria umana (cosa che ancora oggi non tutti gli stati hanno), e una politica sociale invidiabile. E la condizione femminile a Venezia appare unica per dignità e libertà, certamente ancora insufficiente ed inadeguata, ma di sicuro incomparabile con quella di altri stati in quella epoca.
Si legge nell'Editto di Rotari: "Se la moglie avrà ucciso il marito, sia uccisa, e i suoi beni siano assegnati ai parenti del marito, mentre se il marito avrà ucciso ingiustamente la moglie, paghi un risarcimento di 1200 scudi..." A Venezia viceversa abbiamo numerose sentenze di condanna per uxoricidio che prevedono la condanna a morte del marito. Anche nei casi di violenza carnale abbiamo numerose sentenze che vedono la donna in posizione vantaggiosa.
Nella civilissima Firenze la donna aveva meno possibilità che a Venezia di disporre dei propri beni in sede testamentaria. A Venezia la donna col divenire maggiorenne usciva dalla patria potestà (questo già a fine Trecento). A Venezia una donna poteva stipulare ogni tipo di atto: compravendite, locazioni, donazioni, prestiti.... Tutte possibilità impensabili altrove.
Questa ampia libertà ha permesso che a Venezia alcune donne si siano conquistate un posto nella storia: Elena Lucrezia Corner Piscopia, la prima donna laurerata nel mondo, Elisabetta Caminer Turra, considerata la prima redattrice letteraria in Europa, Rosalba Carriera, la prima pittrice donna a cui la società colta dell'epoca aprì le porte di corti reali e palazzi nobiliari, e Lucrezia Marinelli, prima femminista della storia, autrice del libro: Della nobiltà et eccellezza delle donne (1610).




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venerdì 27 agosto 2010

Isola di San Giorgio in Alga

Il nome dell' isola si riferisce alla presenza di alghe nella zona proliferate a causa dell'ambiente che si era creato nella fusione delle acque del fiume Brenta con quelle della laguna.
In quella zona si ha memoria, intorno al Trecento, dell'esistenza della così detta "Puncta canetorum", sorta di lunga penisola che si era formata da Fusina fino a collegarsi quasi con Venezia a Santa Marta. Terra che venne rimossa per impedire una facile via d'accesso alla città ad eventuali nemici. Si dispose di prelevare da quel sito la terra che serviva per bonificare e interrare altre zone della laguna.
L'isola di San Giorgio in Alga era luogo di accoglienza e di congedo di eminenti personaggi che giungevano a Venezia. Si ricorda in proposito la grande cerimonia organizzata per la partenza del re di Francia Enrico III per Fusina accompagnato dal doge Mocenigo, e in seguito l'accoglienza fatta al papa Pio VI.
Vi aveva sede un monastero benedettino, poi dal 1350 fu degli eremiti agostiniani.
Ma fu nel '400, con l'arrivo dei Canonici Regolari, che l'eremo divenne importante centro di umanisti. Fra questi si ricordano: Gabriele Condulmer, che divenne papa col nome di Eugenio IV, e quel Lorenzo Giustinian, detto "il Santo" che, dopo essere stato priore del monastero, fu nominato primo Patriarca di Venezia.
Il monastero vantava una preziosa biblioteca e varie opere d'arte del Veronese, del Vivarini e del Bellini; un angolo della laguna meta di raffinati studiosi.
Vi funzionava un sistema di segnalazioni per facilitare la navigazione delle imbarcazioni di passaggio, e la grande "cavana" accoglieva i natanti in caso di tempesta.
Ai Canonici Regolari subentrarono i Carmelitani Scalzi che vi rimasero fino al '700.
Nel 1717 un devastante incendio distrusse il sito con le sue preziose opere d'arte, biblioteca ed arredi vari; un vero disastro che segnò definitivamente il luogo.
Trasformato in carcere politico, con la caduta della Repubblica fu utilizzata come polveriera.
Ora restano i ruderi della chiesa, del monastero, della cavana, spogliati dei fregi, delle patere e di una vera da pozzo. C'era sull'angolo delle mura una statua della Madonna che ora è sistemata a Mazzorbo.

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Fonte: Fuga & Vianello

mercoledì 25 agosto 2010

Eleonora Duse

Eleonora Duse, che abitò a lungo all'ultimo piano di palazzo Barbaro Wolkoff sul Canal Grande tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, si sentiva veneziana nell'anima. D'altronde l'attrice, sebbene nata a Vigevano nel 1858, era originaria di Chioggia da parte di padre.
Palazzo Barbaro è separato da poco più di due metri dal palazzo Dario, che a quell'epoca era abitato dalla contessa De La Baume, che vi accoglieva una piccola corte di amici intellettuali: Angelo Conti, Mariano Fortuny, Mario de Maria, Gabriele D'Annunzio e altri.
Il grande regista Reinhardt favoleggiò di un casuale incontro tra la Duse e D'Annunzio vicino alle porte d'acqua dei due palazzi. Chissà, forse potrebbe persino essere vero!
Proprio Venezia quindi (città nella quale ebbe il suo primo grande successo teatrale con La principessa di Baghdad di Alexandre Dumas nel 1882), fu lo sfondo della loro tormentata storia d'amore, narrata dallo stesso D'Annunzio nel suo libro "Il Fuoco".
Seguire le vicende di questo amore aiuta a comprendere meglio sia lei che lui, ed è un vero peccato che le lettere di Gabriele ed Eleonora siano state distrutte per volontà della stessa Eleonora.
Ella fu una grandissima attrice, e se ebbe una vita sentimentale animata e varia, seppe trarne giovamento per la sua arte.
Dopo il matrimonio con l'attore Teobaldo Checchi (da cui ebbe una figlia, Enrichetta), ebbe diversi amanti, ma poi nel 1884 si legò col poeta e musicista Arrigo Boito, un uomo di vasta e profonda cultura, autore del Mefistofele e di numerosi libretti d'opera di Giuseppe Verdi, tra cui l'Otello e il Falstaff. Boito adattò per la Duse Antonio e Cleopatra di Shakespeare che andò in scena il 22 novembre 1888 al Teatro Manzoni di Milano.
La loro relazione durò sette anni e fu intensa ed appassionata, come testimoniano le numerose lettere rimaste. Boito fu per lei amico, amante e maestro.
Donna intelligente e libera, fu considerata con Sarah Bernhardt la più grande attrice dell'epoca e simbolo della belle epoque.
Quando inizia la sua relazione con D'Annunzio è al colmo della celebrità in Europa e oltre oceano, e ci si domanda chi dei due ha dato di più all'altro. Infatti fu lei a portare sulle scene i drammi dannunziani: Il sogno di un mattino di primavera, La Gioconda, Francesca da Rimini, La città morta, La figlia di Iorio, spesso finanziando ella stessa le produzioni e assicurando loro il successo e l'attenzione anche fuori dall'Italia.
Il 2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano l'opera La figlia di Iorio viene interpretata da Irma Grammatica, poiché la Duse si era detta malata, ma forse il problema era un altro. Nella vita di D'Annunzio infatti si stava affacciando la marchesa di Rudinì, e la storia con la Duse era giunta alla fine.
Nel 1907 D'Annunzio scriverà nei suoi Taccuini: "Nessuna donna m'ha mai amato come Eleonora, né prima, né dopo. Questa è la verità lacerata dal rimorso e addolcita dal rimpianto". Ma lei questa frase non la lesse mai: i Taccuini furono pubblicati solo nel 1965.
Il fotografo Giuseppe Primoli ebbe il privilegio di fotografarla nel suo appartamento a Palazzo Barbaro, così lo descrive: "L'aveva arredato con pochi mobili antichi e molti tappeti, i fianchi delle lunghe scale che occorreva salire per giungervi, erano stati ricoperti con stoffe scarlatte appese". La Duse chiese di non rendere pubbliche quelle fotografie, che infatti vennero pubblicate solo dopo la sua morte, avvenuta a Pittsburgh nel 1924.
Fu sepolta ad Asolo, dove negli ultimi anni abitò in un elegante palazzetto nella splendida Via Canova. Pochi anni prima aveva scritto ad un amico: "Asolo è bello e tranquillo, paesetto di merletti e poesia. Non è lontano dalla Venezia che adoro, vi stanno dei buoni amici che amo. Questo sarà l'asilo della mia ultima vecchiaia, e qui desidero essere seppellita"
Sulla sua lapide D'Annunzio dettò l'epitaffio: "Figlia ultimogenita di San Marco".

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lunedì 23 agosto 2010

Ti con nu, nu con ti

Il 12 maggio 1797 si svolge a Venezia, nel Palazzo Ducale, l'ultima tragica riunione del Maggior Consiglio, durante la quale la Serenissima Repubblica dichiara la propria fine:
è la conclusione dell'anacronistica strategia veneta di neutralità disarmata e della condotta spietata di Napoleone.
Il 16 maggio viene creato un governo provvisorio (del quale l'ex Doge rifiuta di far parte) e, per la prima volta, sfilano in Piazza San Marco truppe nemiche. La dominazione francese dura ben poco, poiché, con i preliminari di Campoformio conclusi il 17 ottobre all'una dopo mezzanotte, ai francesi succedono gli austriaci.
Il breve periodo di occupazione delle forze rivoluzionarie sarà però ricordato per le razzie e le rapine che portano a Parigi circa 20.000 opere d'arte, tra le quali il leone di San Marco e i quattro cavalli della Basilica (innalzati sull'arco di trionfo del Carrousel).
Mentre sta deponendo le insegne del potere, l'ultimo doge Ludovico Manin viene severamente apostrofato da Francesco Pisani con queste parole: "Tolé su el corno e andé a Zara", esortandolo così a non abdicare, ma a rifugiarsi col governo in Dalmazia, terra fedelissima a Venezia.
Se a Venezia una parte della popolazione tumultua per qualche ora al grido di 'San Marco', in Dalmazia l'emozione per la caduta della Repubblica è vivissima: la disillusione, la rabbia e lo sconcerto per l'ineluttabilità della situazione si impadroniscono dei dalmati.
A Zara il gonfalone purpureo è portato in processione per l'ultima volta da tutta la popolazione, ma la cerimonia più commovente avviene a Perasto, che si gloriava di non esser mai stata presa dai turchi. Perasto, posta all'inizio della baia di Cattaro, aveva, per il suo valore, ottenuto il privilegio di fornire a Venezia i custodi del gonfalone e dimostra di saper concludere degnamente la sua unione con Venezia. La bandiera viene portata dalla popolazione, vestita a lutto e piangente, nella chiesa parrocchiale per essere posta sotto l'altare maggiore.
Prima di deporla il Conte Giuseppe Viscovich pronuncia queste celebri parole:
"Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon.
Per 377 anni la nostra fede, el nostro valor l'ha sempre custodio per terra e per mar, per tutto dove ne ha chiamà i so nemici, che xe sta pur quelli della Religion.
Per 377 anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite, le xe sempre stae per ti, o San Marco,
e felicissimi sempre se avemo reputà: ti con nu, nu con ti;
e sempre con ti sul mar nu semo stai illustri e virtuosi.
Nissun con ti n'ha visto scampar, nissun con ti n'ha visto vinti e paurosi".
Era il 23 agosto, ed erano gli ultimi vessilli veneti a venire deposti.

L'espressione 'Ti con nu, nu con ti' verrà ripresa nel 1919 da Gabriele D'Annunzio nella Lettera ai Dalmati ed era stata il motto della squadriglia aerea di San Marco da lui comandata.

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sabato 31 luglio 2010

Ruggine a Venezia

Quando niente viene a turbare il mare nei canali, l'acqua comincia a riacquistare le sue sfumature, spesso denaturate. I veri colori subentrano con lo specchiarsi del cielo e del sole, con i riflessi dei profili della città sulla superficie che scintilla - li avevo conosciuti nei quadri dei pittori prima di vederli nella realtà, non so dove siano più veri.
Un sottile strato di vegetazione compare sui muri e sulle scale e poi scompare; verde che di sopra sembra muschio e più in basso, nell'acqua, diventa alga.
Alcune sono di un verde cupo - ho visto questo colore anche sul piviale di un santo in una chiesa di Castello e in una minuscola cappella di Cannaregio.
L'umidità penetra tutto: il muro e la pietra, il legno, il ferro e anche l'anima. Osservo una trave fradicia, gonfia, zuppa d'acqua: la stessa acqua impedisce ad altra acqua di entrarci dentro. Quando ci appoggi la mano, non sai se tocchi il legno o il liquido.
Le assi marciscono, come i tronchi incastrati nelle fondamenta o la bitta d'ormeggio sul molo.
La pietra imputridisce a sua volta, a modo suo. L'umidità stessa invecchia nella pietra, nel legno, nel mattone...
Che dire della sua vecchiaia?
Il ferro è roso dalla ruggine, qui profonda, lì superficiale, di diversi colori: nera, rossa, dorata. Ruggine fulva.
Si possono trovare tutte queste sfumature nei quadri di Tintoretto o dell'ultimo Tiziano.
Il legame tra ruggine e patina sarà decifrato meglio da chi scruta gli antichi portali di metallo, le grate e le griglie, le piastre sulle vere da pozzo, i parapetti, le serrature con le loro chiavi.
Di fatto non riesco a spiegarmi perché alcuni oggetti di ferro invecchiando si rivestano subito di patina, mentre alti, vicini, arrugginiscono di dentro e di fuori.
A Venezia la ruggine è sfarzosa. La patina somiglia ad una doratura.

giovedì 29 luglio 2010

Gaspara Stampa

Gaspara Stampa, la voce piu' autentica e spontanea della poesia italiana del seidicesimo secolo, nacque a Padova nel 1523 da una colta ma modesta famiglia di commercianti. Nel 1531, alla morte del padre Bartolomeo, si trasferì a Venezia con la madre, il fratello Baldassare e la sorella Cassandra. A Venezia tutti e tre ebbero una buona educazione letteraria e artistica, in particolare le due sorelle divennero presto ammirate cantanti e suonatrici di liuto. La casa Stampa divenne un salotto letterario tra i più frequentati dai maggiori musicisti, pittori e letterati di Venezia.
Gaspara, ammirata come cantante oltre che per la sua bellezza, ebbe molti corteggiatori. Alcuni elementi inducono a pensare che fosse una cortigiana, una di quelle cortigiane colte ed eleganti, d'alto rango, di cui specialmente Venezia nel '500 era piena, e che viveva in un ambiente raffinato composto di nobili e artisti che avevano il culto della poesia, della musica e delle arti in genere. Qualunque sia la sua biografia, di cortigiana oppure no, Gaspara dovette essere una donna che con prontezza d'ingegno e vivacità, riuscì a vivere in una certa libertà di affetti e di costumi, svincolata da rigidità morale, e ciò nulla toglie alla considerazione dei suoi versi, spesso severamente giudicati.
A 25 anni si innamorò follemente di Collatino di Collalto al quale dedicò versi e rime sublimi, che le hanno donato un posto d'onore nella letteratura. Il suo legame con il conte fu tempestoso e doloroso. Da parte sua sua fu un amore sincero, con sentimento quasi disperato. Il conte, invece, ricambiò solo a tratti la passione di Gaspara, l'amò più per vanità che per trasporto. Collatino si allontanava spesso e Gaspara soffriva immensamente della lontananza. La loro relazione si interruppe definitivamente nel 1551.
Fu un colpo duro per Gaspara che ne risentì anche nel fisico e a nulla valsero le attenzioni del nobile veneziano Bartolomeo Zen. Si pensa che Gaspara abbia soggiornato a Firenze, di certo morì suicida a Venezia nel 1554, a soli 31 anni.
Poco dopo la sua morte la sorella Cassandra pubblicò le oltre 300 composizioni del suo Canzoniere, una forma di diario intimo dove si alternano gioie ed angosce. E' una delle testimonianze letterarie più delicate della sensibilità femminile dell'epoca.

martedì 27 luglio 2010

Il Conte Amedeo VI di Savoia e Venezia


Fra il 1366 e il 1367 Amurat I, Sultano dei Turchi, aveva fatto di Andrinopoli capitale del suo impero, che, poco distante da Costantinopoli, capitale dell'impero greco, ne andava a minacciare la sopravvivenza stessa.
L'imperatore Giovanni Paleologo, sentendo il pericolo prossimo, sollecitava soccorsi dall'Europa, ed il Papa Urbano V, fortemente desideroso di riconciliare la chiesa Greca con quella Latina, spinse le potenze d'Europa ad armarsi per la gran causa della religione e della civiltà.
I soli ad inscriversi per quella crociata furono Giovanni II re di Francia, Pietro di Lusignano re di Cipro ed Amedeo VI di Savoia, detto “Il Conte Verde”.
Ma entro breve sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe sconvolto la messa in opera della crociata stessa…
Il re francese morì, il re di Cipro che aveva preso Alessandria d'Egitto, ne è respinto dai Turchi, e “il Conte Verde”, cugino dell’Imperatore stesso, resosi conto delle condizioni agonizzanti dell’Impero e - soprattutto – dalla corruzione e decadenza della società bizantina stessa, così diversa dalla schiettezza a volte anche un po’ rude, ma onesta e sincera, dei savoiani e piemontesi, e, nonostante si trovasse solo nel rischio, non esita a prepararsi e ad invitare i suoi parenti ed alleati a condividere con lui le guerriere fatiche e la gloria.
A sue spese noleggiò galee Veneziane per il trasporto del suo esercito di cavalieri e fanti.
Le milizie lombarde presenti erano guidate da Cesare Visconti (nipote del “Conte Verde”), mentre le galee veneziane erano comandate da Federico Corner.
Il risultato fu veramente degno di un’abile condottiero alla guida di un’esercito ben organizzato ed addestrato:
riprendono Gallipoli con un eroico assalto (estate del 1366), liberano i Dardanelli dai Turchi, riconquistano il tratto di costa europea del Mar Nero strappando varie città ai Bulgari (fra cui Sozopoli, Anchialo, Mesembria e Varna) e riconsegnandole all’Impero.
Finalmente, il 23 gennaio del 1367, la spedizione termina con la liberazione dell’Imperatore Giovanni Paleologo che era stato fatto prigioniero dallo Zar dei Bulgari, Giovanni Shishman.
Il ritorno in patria è trionfale: grandi accoglienze vengono riservate in tutte le città veneziane toccate (da Corone a Durazzo, a Zara), nella stessa Venezia, a Milano e a Pavia.

Nel 1350 fonda l'Ordine del Cigno Nero (in occasione delle nozze della sorella Bianca con Galeazzo II Visconti), e la Compagnia del Collare,a capo della quale partecipa a molti tornei: il gruppo era formato da 15 cavalieri, che oltre all'abito verde portavano un collare d'argento dorato con il motto “FERT” (Fortitudo Eius Rhodum Tenuit ) chiuso da un anello con tre lacci d'amore a doppio intreccio, dono del Conte e prezioso segno di riconoscimento.
La compagnia del Collare divenne in seguito Ordine Cavalleresco, e fu dotato successivamente dallo stesso fondatore di carattere religioso-militare.
La Compagnia diverrà nel 1518 successivamente l’Ordine dell'Annunziata con Carlo II, che portò il numero dei cavalieri da 15 a 20 e ne modificò il collare, che risultò composto da lacci d'amore intrecciati con il motto "FERT" ma con l’aggiunta di 15 rose bianche e vermiglie, alternate, in onore della Vergine, e un medaglione con raffigurata l'Annunciazione.
In seguito diverrà la suprema ricompensa concessa per alti servigi resi allo Stato: gl'insigniti dell'Ordine erano considerati “cugini” del re.

Il “Conte Verde” muore di peste a Santo Stefano presso Castropignano (Campobasso) il 1° Marzo 1383, durante una spedizione dov’è accorso con 1000 lance per sostenere i diritti di Luigi D’Angiò, sul Regno di Napoli.
Fu sepolto a Hautecombe, in Savoia.