Il Liber Mutus rappresenta il più famoso ed enigmatico testo alchemico. Il libro tratta del processo psicologico di realizzazione del sé proiettato dagli alchimisti nella trasmutazione della materia, la ricerca dell'immortalità, simbolizzata dall'oro, nel Lapis Philosophorum, e nell' elixir vitae.
In sole 15 tavole, sono illustrate tutte le operazioni fondamentali della Grande Opera attraverso un insieme di immagini allegoriche, ricche di dettagli, il cui simbolismo il lettore è chiamato ad interpretare. Il linguaggio iconografico è considerato sufficiente di per sé a comunicare quei segreti che è impossibile esprimere per mezzo della parola.
Le uniche frasi scritte si trovano nella prima, nella penultima e nell'ultima tavola. Nella prima tavola leggiamo: "Il Libro Muto, nel quale l'intera filosofia ermetica viene rappresentata in forma di figure geroglifiche, consacrato a Dio misericordioso, tre volte massimo ottimo, e dedicato ai soli figli dell'Arte, da un autore il cui nome è Altus".
Le enigmatiche serie di numeri e di sigle che seguono vanno lette al contrario (da destra a sinistra) e si rivelano essere dei riferimenti a specifici versetti biblici.
Nella penultima tavola, in fondo, leggiamo: "Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai": consiglio singolare per un libro in cui non c'è praticamente nulla da "leggere" in senso stretto, eppure è un invito prezioso a ricavare dalle immagini quegli insegnamenti che la parola non potrebbe comunicare.
Nell'ultima tavola, i due filatteri che escono dalla bocca dell'uomo e della donna inginocchiati di fronte alla gloria dell'alchimista recano le parole: "Dotato di occhi chiaroveggenti te ne vai".
La prima edizione stampata del Liber Mutus fu pubblicata a La Rochelle nel 1677. Le tavole, ridisegnate e migliorate dal punto di vista grafico, furono poi incluse nella monumentale Biblioteca Alchemica Curiosa di Manget (Genève, 1702). Seguirono quindi varie riedizioni del libro, tra le quali merita una menzione particolare una versione a colori, ritrovata in un manoscritto della fine del XVIII secolo custodito alla "Library of Congress" di Washington.
Una preziosa copia della versione manoscritta originale fu portata a Venezia da Joserf Nassì e nascosta nel giardino segreto di Melchisedec dietro alla Schola Levantina in Ghetto Vecchio...
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lunedì 11 ottobre 2010
domenica 25 luglio 2010
Baccalà in turbante
Tracce della presenza di una prima comunità giudaica a Venezia risalgono al 1396, quando la Serenissima dispone loro un terreno confinante col convento di San Nicolò al Lido per seppellire i loro morti.
“Gli ebrei sono più necessari dei panificatori” dice lo storiografo Marin Sanudo, che nel 1519 parla di circa 700 persone tra uomini e donne. La Repubblica infatti li accoglie anche per la loro utilità, visto che l’usura è proibita ai cristiani.
A dispetto della marginalità spaziale, Venezia privilegia ed è a sua volta privilegiata dalla diaspora ebraica.
Gli stranieri che durante il loro Grand Tour fanno tappa nella città lagunare vengono immancabilmente catturati dal ghetto, luogo di studio e di cultura cosmopolita. Un’andata (con biglietto di ritorno) verso al cultura ebraica è rappresentata dall’arte culinaria: un seducente viaggio attraverso la gola, pericoloso ma momentaneo, una sorta di traghetto dalla chiesa alla sinagoga che ogni cristiano può intraprendere varcando semplicemente il cancello del ghetto.
La cucina del ghetto veneziano è una fusione di elementi arabi, importati dei sefarditi attraverso la Spagna, e di piatti di origine tedesca arrivati con gli ashkenaziti. Ai primi si devono fantasiosi piatti di uova rosti nella brase, conciati con acqua di rose, zucchero e cannella, il bollo confettato, chiamato boyos de pan, buccellato o bussolà, un pane allungato o una treccia composta di farina, zucchero, uova, uva passa, anicini e olio d’oliva. Ai secondi si è debitori di una vasta gamma di piatti che vanno del gefilte fish o ‘pesce dolce alla todesca’, al kelbere krous, budella di vitello ripiene di grasso e farina, al mandel reis, un delicato riso alle mandorle.
Non mancano, malgrado le restrizioni, le carni: “Ciò che Dio proibisce, Dio permette in altre forme”, e l’oca diventa per l’ebreo l’equivalente del maiale per il cristiano. Nel trattare le sue carni i beccai hebrei si dimostrano insuperabili. Il suo grasso diventa valido sostituto dello strutto e anche del più costoso olio d’oliva, ma soprattutto vi si ricavano, salsicce, luganeghe, prosciutti, salami, insomma vere prelibatezze definite con termini volutamente ammiccanti ed equivoci, che viaggiano nella stessa direzione del maiale negato, con il quale l’oca condivide il calendario della vita e della morte.
Inevitabili anche le contaminazioni con la cucina veneta e se è impossibile non rilevare l’intreccio intrigante tra ‘galani’ e ‘orecchie di Amman’, meno problematico è l’accostamento di spinaci e baccalà (alias stoccafisso), giudaici i primi, fortemente veneziano il secondo (per essere arrivato dalle Isole Lofoten con capitano Pietro Quercini): è il Baccalà in turbante.
Ecco la ricetta.
Si porta lo stoccafisso a bollore, lasciandolo riposare per alcuni minuti; si dilisca, si trita a pezzettini e si mescola con tre cucchiai di farina. Si rosola nel burro, aggiungendo latte fino ad avere una crema densa. Si incorporano gli spinaci lessati. Si lega il composto con le uova, sale e un pizzico di noce moscata. Si mette il tutto in uno stampo rotondo col buco in mezzo e si cuoce in forno a bagnomaria. L’effetto del turbante è assicurato.
“Gli ebrei sono più necessari dei panificatori” dice lo storiografo Marin Sanudo, che nel 1519 parla di circa 700 persone tra uomini e donne. La Repubblica infatti li accoglie anche per la loro utilità, visto che l’usura è proibita ai cristiani.
A dispetto della marginalità spaziale, Venezia privilegia ed è a sua volta privilegiata dalla diaspora ebraica.
Gli stranieri che durante il loro Grand Tour fanno tappa nella città lagunare vengono immancabilmente catturati dal ghetto, luogo di studio e di cultura cosmopolita. Un’andata (con biglietto di ritorno) verso al cultura ebraica è rappresentata dall’arte culinaria: un seducente viaggio attraverso la gola, pericoloso ma momentaneo, una sorta di traghetto dalla chiesa alla sinagoga che ogni cristiano può intraprendere varcando semplicemente il cancello del ghetto.
La cucina del ghetto veneziano è una fusione di elementi arabi, importati dei sefarditi attraverso la Spagna, e di piatti di origine tedesca arrivati con gli ashkenaziti. Ai primi si devono fantasiosi piatti di uova rosti nella brase, conciati con acqua di rose, zucchero e cannella, il bollo confettato, chiamato boyos de pan, buccellato o bussolà, un pane allungato o una treccia composta di farina, zucchero, uova, uva passa, anicini e olio d’oliva. Ai secondi si è debitori di una vasta gamma di piatti che vanno del gefilte fish o ‘pesce dolce alla todesca’, al kelbere krous, budella di vitello ripiene di grasso e farina, al mandel reis, un delicato riso alle mandorle.
Non mancano, malgrado le restrizioni, le carni: “Ciò che Dio proibisce, Dio permette in altre forme”, e l’oca diventa per l’ebreo l’equivalente del maiale per il cristiano. Nel trattare le sue carni i beccai hebrei si dimostrano insuperabili. Il suo grasso diventa valido sostituto dello strutto e anche del più costoso olio d’oliva, ma soprattutto vi si ricavano, salsicce, luganeghe, prosciutti, salami, insomma vere prelibatezze definite con termini volutamente ammiccanti ed equivoci, che viaggiano nella stessa direzione del maiale negato, con il quale l’oca condivide il calendario della vita e della morte.
Inevitabili anche le contaminazioni con la cucina veneta e se è impossibile non rilevare l’intreccio intrigante tra ‘galani’ e ‘orecchie di Amman’, meno problematico è l’accostamento di spinaci e baccalà (alias stoccafisso), giudaici i primi, fortemente veneziano il secondo (per essere arrivato dalle Isole Lofoten con capitano Pietro Quercini): è il Baccalà in turbante.
Ecco la ricetta.
Si porta lo stoccafisso a bollore, lasciandolo riposare per alcuni minuti; si dilisca, si trita a pezzettini e si mescola con tre cucchiai di farina. Si rosola nel burro, aggiungendo latte fino ad avere una crema densa. Si incorporano gli spinaci lessati. Si lega il composto con le uova, sale e un pizzico di noce moscata. Si mette il tutto in uno stampo rotondo col buco in mezzo e si cuoce in forno a bagnomaria. L’effetto del turbante è assicurato.
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