Si racconta che un giorno un senatore veneziano andò a far visita a un umile converso del monastero camaldolese sull'isola di San Michele. Fra Mauro da Venezia se ne stava ritirato nel suo laboratorio intento a disegnare un planisfero su una grande pergamena.
L'onore della visita non confuse il monaco, che era stimato per le sue perizie d'ingegnere e disegnatore di carte nautiche. Si diede quindi da fare per spiegare al visitatore il lavoro che lo teneva impegnato. Il senatore si dimostrò subito ansioso di controllare dove fosse la città del Leone, ma confondendosi tra lo splendore delle dorature e i colori dei nomi variopinti, domandò con impazienza: "Dove zela Venezia?", "La xe qua" rispose il frate indicandola con l'indice, "E perché cussì piccola?" chiese insoddisfatto il senatore, "La xe in proporzion del mondo" spiegò pazientemente Fra Mauro. La risposta non piacque al senatore che, andando fiero della grandezza della Serenissima, replicò: "Fè el mondo più piccolo e Venezia più granda". Fra Mauro non seguì il consiglio e lasciò Venezia in proporzione del mondo, contribuendo ugualmente, con il suo lavoro, alla gloria della Dominante.
Poche sono le notizie sulla vita di Fra Mauro, a confronto dell'enorme fama goduta presso i suoi contemporanei. Si sa che è veneziano, che vive e opera nella prima metà del XV secolo, e che probabilmente muore nel 1459. E' un converso che ha vestito l'abito in età adulta e tale rimane la sua qualifica. Non ci sono dubbi neanche sul fatto che dal 1443 al 1459 dimori esclusivamente sull'isola di San Michele.
Esperto di idraulica e d'ingegneria, la Repubblica lo chiama a consulto sul modo più conveniente per deviare il Brenta affinché non sfoci in laguna. Segno che si era servita della sua opera anche in altre occasioni.
La rinomanza di Fra Mauro è però legata alla cartografia. Aiutato da valenti collaboratori sia laici che confratelli, nel suo laboratorio compone molte carte geografiche e vari scritti, tutti andati sfortunatamente perduti. Tra le opere che gli vengono attribuite ci sono un portolano del bacino mediterraneo e delle coste orientali dell'Africa, rinvenuto nel 1822, un'altra riguarda il frammento di una grande mappa circolare scoperta nel 1955 nella biblioteca del Palazzo Topkapi a Istanbul.
Tra i suoi ultimi lavori vi è un planisfero per il sovrano di Portogallo, iniziato nel 1457 e consegnato nell'aprile del 1459 per mezzo del patrizio veneziano Stefano Trevisan. Il planisfero fu molto studiato e servì da guida per i viaggi compiuti da portoghesi e spagnoli nella seconda metà del Quattrocento. Note di spese e di pagamento nei vecchi registri del monastero ne attestano con certezza l'esecuzione, dal momento che l'opera è andata perduta.
L'unica tra le opere del frate giunta intatta fino a noi è il magnifico e famoso planisfero (detto impropriamente 'mappamondo') custodito per tre secoli a San Michele e, alla soppressione del monastero, trasferito nella Biblioteca Marciana di Venezia. Di proporzioni monumentali e d'una ricchezza senza precedenti, il planisfero è considerato un capolavoro cartografico. Il celeste intenso dei mari, il verde dei fiumi, il rosato, il carminio e l'azzurro dei monti, le lettere d'oro dei nomi dei regni più importanti e quelle rosse delle altre località, le file degli alberi che segnano i confini delle provincie, le città in miniatura, le didascalie in rosso e azzurro danno al planisfero un aspetto variopinto. Ma il maggior pregio di quest'opera superba sta nel fatto che riassume tutte le conoscenze geografiche dell'epoca.
Geografia e cosmografia erano discipline tradizionalmente approfondite nel monastero di San Michele, ed è certo che Fra Mauro si è dedicato a lunghi e profondi studi dei geografi antichi; egli si avvalse inoltre di relazioni scritte, di carte nautiche provenienti dall'estero, ma anche di contatti diretti avuti con viaggiatori e naviganti da lui interrogati per raccogliere notizie sulle terre che avevano attraversato o sui mari che avevano solcato.
I colori magnifici, la precisione e la profondità del tratto, la correttezza delle notizie, la perfezione tutta dell'opera, insomma questo navigare nel mondo senza uscire mai dai confini esigui dell'isola, hanno creato una leggenda sul frate. Una voce di popolo dice che nelle notti particolarmente fosche il cosmografo avesse la capacità di concentrare i sogni di Lucifero sull'isola, proiettandoli poi sulle nuvole. I paesi che l'angelo del male andava sognando, il frate li catturava imprigionandoli sulla pergamena. Così ha potuto conoscere il mondo intero.
La Signoria di Venezia, a cui il planisfero è dedicato, per tramandare ai posteri la sua fama coniò un ritratto del converso. Tutto intorno al profilo del monaco, vecchio e con il volto emaciato, gira la frase:"Frater. Maurus. S.Michaelis. Moranensis. De. Venetiis. Ordinis. Camaldulensis. Cosmographus. Incomparabilis."
Un solo aggettivo che basta a contenere l'impareggiabile straordinarietà del cosmografo del diavolo.
(Fonte: C. Coco)
venerdì 30 aprile 2010
Fra Mauro, il cosmografo del diavolo
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venerdì 23 aprile 2010
La Biennale di Venezia
La Biennale di Venezia, nata nel 1895, deve il suo nome alla cadenza dell’Esposizione Internazionale d’Arte, voluta e sostenuta da un gruppo di intellettuali dell’epoca, tra cui Riccardo Selvatico, commediografo e poeta, allora sindaco della città.
Negli anni Trenta l’istituzione veneziana diventa Ente Autonomo sotto il controllo del Governo Italiano. Hanno inizio in quegli anni: il Festival della Musica (1930), la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (1932), il Festival Internazionale di Teatro e di Prosa (1934).
Le rassegne sono sempre accompagnate da eventi speciali e retrospettive di artisti italiani e stranieri.
Fin dall’inizio la Biennale si configura come una delle principali istituzioni organizzatrici di manifestazioni nei diversi settori delle arti e della cultura contemporanea.
Nel 1968 la contestazione investe anche la Biennale, che sospende in parte le sue attività, ma viene poi riformata con nuove idee e forti impulsi nel 1973.
Dal 1975 sono realizzate anche rassegne di Architettura.
Nel 1998 la Biennale, da Ente Autonomo, diventa Società di Cultura, soggetto giuridico privato.
A tutt’oggi la Biennale interviene con mostre, esposizioni e attività culturali nei settori: arti visive, architettura, cinema, musica, teatro, danza e, grazie alla raccolta di documenti conservata nel suo Archivio Storico, svolge una funzione primaria per lo studio e la ricerca nell’ambito dell’arte contemporanea.
E’ importante ricordare anche la storia delle strutture che la ospitano: già nei primi decenni del Novecento iniziarono a sorgere nei Giardini di Castello ben 27 strutture nate dagli studi di famosi architetti, tra cui: Carlo Scarpa, James Stirling, Alvar Aalto, Bruno Giacometti, e il gruppo BBPR. Negli anni seguenti gli spazi occupati dall’Esposizione vennero sempre più ampliati, fino ad utilizzare anche ampie zone in disuso del vicino Arsenale (come le Corderie). A questi si aggiunsero i Saloni del Sale alle Zattere, e i Granai alla Giudecca negli anni Ottanta. Dopo l’ulteriore utilizzo di nuove aree dell’Arsenale oggi si può ben dire che quasi l’intera città partecipa offrendo sempre nuovi spazi ad esposizioni e installazioni.
Da segnalare che quest’anno il Direttore del Settore Architettura sarà Kazuyo Sejima, nata in Giappone, nella prefettura di Ibaraki, nel 1956 e prima donna a salire sul gradino più alto della rassegna lagunare. Formatasi nello studio di Toyo Ito, nel 1995 - insieme a Ryue Nishizawa - fonda SANAA, lo studio di Tokyo che ha firmato alcune fra le più innovative opere di architettura realizzate di recente in tutto il mondo, dal New Museum di New York al Serpentine Pavilion di Londra, al 21st Century Museum of Contemporary Art di Kanazawa, premiato nel 2004 proprio col Leone d'Oro della 9 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia per l'opera più significativa.
Galleria fotografica edizione 2009
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lunedì 19 aprile 2010
Castradina Sciavona
Un tempo la Riva degli Schiavoni non era così ampia e soprattutto non era la tipica passeggiata che è oggi, ma era lo scalo delle navi commerciali che giungevano dall’oriente; questa era la vera porta d’ingresso alla città prima che la costruzione del ponte della Libertà ancorasse Venezia alla terraferma costringendoci ad entrare dal retro…
Qui attraccavano galee mercantili, tartàne albanesi e bastimenti turchi, sulla fondamenta si incontravano marinai orientali con braghesse, fez e scarpe a punta, e non c’erano certo alberghi di lusso, ma casotti di legno per lo stoccaggio delle merci, banchi di vendita all’ingrosso, squeri (cioè cantieri per il rimessaggio e la riparazione delle barche), e un incredibile viavai di merci e uomini, un intreccio di facce, lingue, e abiti che arrivavano da tutti i porti per scaricare prodotti di ogni genere, soprattutto alimentari: formaggi, pesce, animali vivi come agnelli, montoni, bovini.
Animali che per lo più giungevano dai Balcani, ed è per questo che la Riva prese a chiamarsi “degli Schiavoni”, perché con il termine Sclavonia si indicava la fascia costiera della Dalmazia, della Bosnia e dell’Albania. Dopo aver scaricato le loro merci le navi ripartivano cariche di manufatti di metallo, di legno, ferro e di armi… insomma un immagine ben diversa da quella di oggi!
Di quel periodo resta memoria in un tipico piatto che si consuma ancora oggi a Venezia in occasione della Festa della Salute il 21 di Novembre, e cioè la Castradina S'ciavona, in pratica carne di montone castrato affumicata ed essicata al sole, servita con brodo di verze.
Ecco la ricetta:
"Per fare una buona castradina cole verze ci vuole innanzitutto tempo. Si lascia la carne di montone a bagno per un giorno, in acqua prima bollente poi tiepida. Si lava in molte acque, si taglia a pezzetti e la si mette sul fuoco con gli aromi d'uso. Si lascia bollire e freddare, e la si pone in luogo fresco. Il giorno dopo si toglie il grasso rappreso che si è formato in superficie e si rimette la pentola sul fuoco con le verdure del brodo e le foglie, abbondanti, di cavolo verzotto. Si fa sobbollire, senza fretta, fino a quando la carne non diventa tenera e le verze ben cotte"
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Qui attraccavano galee mercantili, tartàne albanesi e bastimenti turchi, sulla fondamenta si incontravano marinai orientali con braghesse, fez e scarpe a punta, e non c’erano certo alberghi di lusso, ma casotti di legno per lo stoccaggio delle merci, banchi di vendita all’ingrosso, squeri (cioè cantieri per il rimessaggio e la riparazione delle barche), e un incredibile viavai di merci e uomini, un intreccio di facce, lingue, e abiti che arrivavano da tutti i porti per scaricare prodotti di ogni genere, soprattutto alimentari: formaggi, pesce, animali vivi come agnelli, montoni, bovini.
Animali che per lo più giungevano dai Balcani, ed è per questo che la Riva prese a chiamarsi “degli Schiavoni”, perché con il termine Sclavonia si indicava la fascia costiera della Dalmazia, della Bosnia e dell’Albania. Dopo aver scaricato le loro merci le navi ripartivano cariche di manufatti di metallo, di legno, ferro e di armi… insomma un immagine ben diversa da quella di oggi!
Di quel periodo resta memoria in un tipico piatto che si consuma ancora oggi a Venezia in occasione della Festa della Salute il 21 di Novembre, e cioè la Castradina S'ciavona, in pratica carne di montone castrato affumicata ed essicata al sole, servita con brodo di verze.
Ecco la ricetta:
"Per fare una buona castradina cole verze ci vuole innanzitutto tempo. Si lascia la carne di montone a bagno per un giorno, in acqua prima bollente poi tiepida. Si lava in molte acque, si taglia a pezzetti e la si mette sul fuoco con gli aromi d'uso. Si lascia bollire e freddare, e la si pone in luogo fresco. Il giorno dopo si toglie il grasso rappreso che si è formato in superficie e si rimette la pentola sul fuoco con le verdure del brodo e le foglie, abbondanti, di cavolo verzotto. Si fa sobbollire, senza fretta, fino a quando la carne non diventa tenera e le verze ben cotte"
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mercoledì 14 aprile 2010
Hugo Pratt, viaggiatore incantato
"Avevo quattro o cinque anni, forse sei, quando mia nonna si faceva accompagnare da me al Ghetto Vecchio di Venezia. Andavamo a visitare una sua amica, la signora Bora Levi, che abitava in una casa vecchia. A questa casa si accedeva salendo un’antica scala di legno esterna chiamata “scala matta” oppure “scala delle pantegane”, o ancora “scala turca”. La signora Bora Levi mi dava un confetto. una tazza di cioccolata bollente e densa, e due biscotti senza sale. che non mi piacevano. Poi lei e la nonna, immancabilmente, si sedevano e giocavano a carte, sorridendo e sussurrando frasi per me incomprensibili. E così, a me non restava che passare minuziosamente in rassegna tutti i cento medaglioni appesi alla parete di velluto rosso scuro, che mi osservavano dai loro ovali di vetro. Dico che mi osservavano, perché questi medaglioni racchiudevano vecchi ritratti di severi signori in uniformi asburgiche o di rabbini con treccine nere e feltri a larghe tese. E tutti sembravano fissarmi con un’insistenza che certo sconfinava nell’indiscrezione. Un po’ imbarazzato andavo alla finestra della cucina e guardavo giù in un campiello erboso con una vera da pozzo coperta di edera. Quel campiello ha un nome: Corte Sconta detta Arcana. Per entrarvi si dovevano aprire sette porte, ognuna delle quale aveva inciso il nome di un shed, ossia di un demonio della casta dei Shedim, generata da Adamo durante la sua separazione da Eva, dopo l’atto di disubbidienza . Ogni porta si apriva con una parola magica, che era poi il nome del demone stesso.
Li ricordo ancora quei nomi terribili: Sam Ha, Mawet, Ashmodai, Shibbetta, Ruah, Kardeyakos, Nà Amah.
Ricordo che un giorno la signora Bora Levi mi prese per mano e mi condusse nella Corte Sconta illuminando il cammino con un “menorah”, il candelabro a sette braccia, e ogni volta che apriva una porta soffiava su una candela. La corte era piena di sculture e graffiti: un re armato di arco e frecce, a cavallo di un dio; un neonato; una cacciatrice anch’essa con arco e frecce; una vacca con un occhio solo; una stella a sei punte; un cerchio tracciato nei suo1o con lo scopo di far ballare una ragazza nuda; i nomi degli angeli caduti o veleni di Dio, Samael, Satael, Amabiel. La signora ebrea mi parlava di tutte quelle cose, rispondendo alle mie domande. Poi apriva una porta sul fondo della corte e mi faceva passare in una calle con le erbe alte, che conduceva in un altro campiello bellissimo e che molto più tardi ritrovai uguale e pieno di fiori in una casa della Juderia di Cordoba.
Ricordo che nella Corte Sconta c’era una signora molto bella, sempre circondata da bambini e fanciulle che giocavano attorno a una farfalla gigante di vetri colorati. Era Aurelia, la farfalla gnostica.
La gnosi rappresentando se stessa come fonte inesauribile di sapienza e offrendo, in mille riflessi di vari colori, quello che ognuno desidera..."
(Hugo Pratt)
leggi tutto
“Vustu che mi te insegna a navegar?
Vate a far una barca o una batela,
Co ti l’a fata, butila in mar,
La te condurà a Venezia bela”.
Così recita una delle delicate Villotte Veneziane. Pratt, invece, ha fatto in qualche modo il percorso inverso. Dopo l’infanzia veneziana ha girato il mondo e la sua barca l’ha condotto lontano, dall’Africa al Sud America.
Questo tuttavia non lo ha snaturato: una volta imparato “a navegar” a Venezia, è stato ben capace di solcare tutti i mari, ovunque riscoprendo – in un angolo, in un’atmosfera, in un personaggio – Venezia,
e a Venezia poi ritrovando luoghi, colori, sensazioni dei più sperduti posti del globo.
Sì, un viaggiatore incantato. E di tanta sua meraviglia ci ha fatto partecipi. Quanti tramonti esotici, quanti inseguimenti, quante avventure abbiamo vissuto insieme a Corto Maltese!
Umberto Eco ha definito Pratt “il Salgari dei nostri tempi”, ma se Sandokan è l’eroe perfetto, Corto è l’uomo del nostro tempo, è Ulisse nel cuore e nella mente. E infatti, quale altro aggettivo meglio si adatta a Corto se non il “politropos” che Omero straordinariamente scelse per il re di Itaca?
Amava dire Pratt: “Mi diverte essere inutile”. Era una sfida, uno sberleffo contro chi si ostinava a non capirlo e a non coglierne la grandezza d’artista. Ma era anche la semplice verità.
Certo che si divertiva, perché lui sapeva “andare in altre direzioni”, uscire dal gregge, prendere il largo. E certamente era inutila, perché non si faceva usare.
Era inutile come i racconti d’avventura, inutile come i sogni, come la dolce trasgressione.
Inutile… o no?
(Massimo Cacciari)
Li ricordo ancora quei nomi terribili: Sam Ha, Mawet, Ashmodai, Shibbetta, Ruah, Kardeyakos, Nà Amah.
Ricordo che un giorno la signora Bora Levi mi prese per mano e mi condusse nella Corte Sconta illuminando il cammino con un “menorah”, il candelabro a sette braccia, e ogni volta che apriva una porta soffiava su una candela. La corte era piena di sculture e graffiti: un re armato di arco e frecce, a cavallo di un dio; un neonato; una cacciatrice anch’essa con arco e frecce; una vacca con un occhio solo; una stella a sei punte; un cerchio tracciato nei suo1o con lo scopo di far ballare una ragazza nuda; i nomi degli angeli caduti o veleni di Dio, Samael, Satael, Amabiel. La signora ebrea mi parlava di tutte quelle cose, rispondendo alle mie domande. Poi apriva una porta sul fondo della corte e mi faceva passare in una calle con le erbe alte, che conduceva in un altro campiello bellissimo e che molto più tardi ritrovai uguale e pieno di fiori in una casa della Juderia di Cordoba.
Ricordo che nella Corte Sconta c’era una signora molto bella, sempre circondata da bambini e fanciulle che giocavano attorno a una farfalla gigante di vetri colorati. Era Aurelia, la farfalla gnostica.
La gnosi rappresentando se stessa come fonte inesauribile di sapienza e offrendo, in mille riflessi di vari colori, quello che ognuno desidera..."
(Hugo Pratt)
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“Vustu che mi te insegna a navegar?
Vate a far una barca o una batela,
Co ti l’a fata, butila in mar,
La te condurà a Venezia bela”.
Così recita una delle delicate Villotte Veneziane. Pratt, invece, ha fatto in qualche modo il percorso inverso. Dopo l’infanzia veneziana ha girato il mondo e la sua barca l’ha condotto lontano, dall’Africa al Sud America.
Questo tuttavia non lo ha snaturato: una volta imparato “a navegar” a Venezia, è stato ben capace di solcare tutti i mari, ovunque riscoprendo – in un angolo, in un’atmosfera, in un personaggio – Venezia,
e a Venezia poi ritrovando luoghi, colori, sensazioni dei più sperduti posti del globo.
Sì, un viaggiatore incantato. E di tanta sua meraviglia ci ha fatto partecipi. Quanti tramonti esotici, quanti inseguimenti, quante avventure abbiamo vissuto insieme a Corto Maltese!
Umberto Eco ha definito Pratt “il Salgari dei nostri tempi”, ma se Sandokan è l’eroe perfetto, Corto è l’uomo del nostro tempo, è Ulisse nel cuore e nella mente. E infatti, quale altro aggettivo meglio si adatta a Corto se non il “politropos” che Omero straordinariamente scelse per il re di Itaca?
Amava dire Pratt: “Mi diverte essere inutile”. Era una sfida, uno sberleffo contro chi si ostinava a non capirlo e a non coglierne la grandezza d’artista. Ma era anche la semplice verità.
Certo che si divertiva, perché lui sapeva “andare in altre direzioni”, uscire dal gregge, prendere il largo. E certamente era inutila, perché non si faceva usare.
Era inutile come i racconti d’avventura, inutile come i sogni, come la dolce trasgressione.
Inutile… o no?
(Massimo Cacciari)
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lunedì 12 aprile 2010
Josif Brodskji, il poeta russo che amò Venezia
In America sul comodino degli alberghi, si trova una copia della Bibbia. Da qualche anno, in quelli più importanti, anche un libro di Josif Brodskji, un uomo convinto che la poesia come le automobili, può portare lontano, perché è uno straordinario acceleratore mentale, e il poeta è l’animale più sano, l’unico che riesca a fondere il mondo razionale con il mondo intuitivo.
Josif Brodskji nasce a S. Pietroburgo il 24 maggio del 1940. Il padre Alexandr era ufficiale della Marina sovietica con la passione per la fotografia. Una passione che diventò un mestiere-ripiego, quando, a causa dell’origine ebraica, sopraggiunse il prepensionamento, perché l’antisemitismo stava diventando dottrina di stato. La madre Maria Volpert, durante la guerra lavorò come traduttrice nei campi di lavoro per prigionieri tedeschi, e finì per fare la contabile.
Esordì nel 1958 pubblicando alcune poesie in una rivista clandestina; venne subito riconosciuto come uno dei poeti di maggior talento della sua generazione e ricevette il sostegno della poetessa Anna Achmatova, che gli dedicò una delle sue raccolte (1963).
Fu denunciato per la prima volta da un giornale di Leningrado, che attaccò i suoi lavori come pornografici e antisovietici.
Nel 1964 fu arrestato con l'accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell'opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo diciotto mesi, tornò a vivere a Leningrado, dedicandosi soprattutto alla traduzione di poeti inglesi.
Nel frattempo venne pubblicata a New York, nel 1970, la sua raccolta di versi Fermata nel deserto, che confermò il suo straordinario estro poetico.
Nel 1972 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare e si stabilì negli Stati Uniti, dove tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982).
Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura.
A dare il ritmo al suo destino saranno S. Pietroburgo e quel quotidiano fatto di diversità consapevole, coltivata dalla sua famiglia, in un Paese in cui la regola era essere uguali. Una città sospesa, lontana, affollata d’odori, ricordi, densa di personaggi letterari, e mai dimenticata, ritrovata in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascerà la descrizione in Fondamenta degli Incurabili (1989), attraverso un inimitabile gioco di specchi.
È quella città, insieme con una capacità di raccogliere tutto quello che si sospendeva sulla retina, ad averlo reso grande. Sia la fotografia sia la poesia colgono frammenti di vissuto, ma se la prima coglie l’attimo, la superficie, la seconda guarda all’eterno.
Ogni anno in prossimità delle feste natalizie, Josif Brodskji si recava a Venezia. Riteneva che fosse l’unico periodo possibile per viverla. La nebbia, i colori smorzati, il suono dell’acqua, non erano disturbati dallo sciame di turisti e permettevano all’occhio di studiare il mondo esteriore, perché le basse temperature erano il clima ideale per rendere omaggio alla sua bellezza. E poi la nebbia consentiva di dimenticarsi di sé, in una città che aveva smesso di farsi vedere. Del resto per lui le stagioni erano delle metafore, e l’inverno da qualsiasi continente si veda è un po’ antartico.
L’acqua è il luogo dove il tempo fisico e quello metafisico si fondono. L’elemento che mette in discussione il principio d’orizzontalità, che rivela la profonda solitudine di ogni essere umano, la sua precarietà, trasformando anche i piedi in organo dei sensi. E se l’acqua è uguale al tempo, Venezia che dall’acqua è toccata, non fa altro che migliorare, abbellire il tempo, restando uguale a se stessa.
Per Brodskji, annusare Venezia è come toccare la propria essenza dispersa, entrare nel proprio autoritratto. Essere felice. Una felicità legata all’equilibrio sensoriale, l’unica che avrebbe potuto accettare.
Basterebbe questo per fare di Fondamenta degli incurabili, un libro da custodire gelosamente perché l’acqua, oltre alla città e ai sensi, sono i protagonisti assoluti:
“Acqua è uguale a Tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’Universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro, mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama.”
Morì nel proprio appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore nel 1996.
Per sua volontà è stato sepolto nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia.
« Giudice: Qual è la tua professione?,
Brodskij: Traduttore e poeta.
Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano? »
(Atti del processo del 1964)
Fonti: Italia Libri, Adelphi, Wikipedia
Josif Brodskji nasce a S. Pietroburgo il 24 maggio del 1940. Il padre Alexandr era ufficiale della Marina sovietica con la passione per la fotografia. Una passione che diventò un mestiere-ripiego, quando, a causa dell’origine ebraica, sopraggiunse il prepensionamento, perché l’antisemitismo stava diventando dottrina di stato. La madre Maria Volpert, durante la guerra lavorò come traduttrice nei campi di lavoro per prigionieri tedeschi, e finì per fare la contabile.
Esordì nel 1958 pubblicando alcune poesie in una rivista clandestina; venne subito riconosciuto come uno dei poeti di maggior talento della sua generazione e ricevette il sostegno della poetessa Anna Achmatova, che gli dedicò una delle sue raccolte (1963).
Fu denunciato per la prima volta da un giornale di Leningrado, che attaccò i suoi lavori come pornografici e antisovietici.
Nel 1964 fu arrestato con l'accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell'opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo diciotto mesi, tornò a vivere a Leningrado, dedicandosi soprattutto alla traduzione di poeti inglesi.
Nel frattempo venne pubblicata a New York, nel 1970, la sua raccolta di versi Fermata nel deserto, che confermò il suo straordinario estro poetico.
Nel 1972 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare e si stabilì negli Stati Uniti, dove tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982).
Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura.
A dare il ritmo al suo destino saranno S. Pietroburgo e quel quotidiano fatto di diversità consapevole, coltivata dalla sua famiglia, in un Paese in cui la regola era essere uguali. Una città sospesa, lontana, affollata d’odori, ricordi, densa di personaggi letterari, e mai dimenticata, ritrovata in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascerà la descrizione in Fondamenta degli Incurabili (1989), attraverso un inimitabile gioco di specchi.
È quella città, insieme con una capacità di raccogliere tutto quello che si sospendeva sulla retina, ad averlo reso grande. Sia la fotografia sia la poesia colgono frammenti di vissuto, ma se la prima coglie l’attimo, la superficie, la seconda guarda all’eterno.
Ogni anno in prossimità delle feste natalizie, Josif Brodskji si recava a Venezia. Riteneva che fosse l’unico periodo possibile per viverla. La nebbia, i colori smorzati, il suono dell’acqua, non erano disturbati dallo sciame di turisti e permettevano all’occhio di studiare il mondo esteriore, perché le basse temperature erano il clima ideale per rendere omaggio alla sua bellezza. E poi la nebbia consentiva di dimenticarsi di sé, in una città che aveva smesso di farsi vedere. Del resto per lui le stagioni erano delle metafore, e l’inverno da qualsiasi continente si veda è un po’ antartico.
L’acqua è il luogo dove il tempo fisico e quello metafisico si fondono. L’elemento che mette in discussione il principio d’orizzontalità, che rivela la profonda solitudine di ogni essere umano, la sua precarietà, trasformando anche i piedi in organo dei sensi. E se l’acqua è uguale al tempo, Venezia che dall’acqua è toccata, non fa altro che migliorare, abbellire il tempo, restando uguale a se stessa.
Per Brodskji, annusare Venezia è come toccare la propria essenza dispersa, entrare nel proprio autoritratto. Essere felice. Una felicità legata all’equilibrio sensoriale, l’unica che avrebbe potuto accettare.
Basterebbe questo per fare di Fondamenta degli incurabili, un libro da custodire gelosamente perché l’acqua, oltre alla città e ai sensi, sono i protagonisti assoluti:
“Acqua è uguale a Tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’Universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro, mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama.”
Morì nel proprio appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore nel 1996.
Per sua volontà è stato sepolto nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia.
« Giudice: Qual è la tua professione?,
Brodskij: Traduttore e poeta.
Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano? »
(Atti del processo del 1964)
Fonti: Italia Libri, Adelphi, Wikipedia
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venerdì 9 aprile 2010
Giuseppe Tassini, il veneziano 'curioso'
"Fuvvi tempo in cui curiosità ci spinse ad indagare l'origine delle denominazioni stradali di Venezia". Così iniziava il Tassini la prefazione della prima edizione del suo libro Curiosità Veneziane (1863).
Giuseppe Tassini nacque il 12 novembre 1827 in una famiglia della borghesia veneziana. Suo nonno era vissuto molti anni a Costantinopoli come Ambasciatore della Serenissima presso la Sublime Porta. Suo padre, nato a Costantinopoli, fu ufficiale nella Veneta Marina Austriaca e sposò la figlia di un colonnello dell'esercito austriaco. Soleva infatti dire:"Nato da padre turco e madre tedesca non posso esser che strambo!".
La sua gioventù fu piuttosto disordinata: avviato agli studi giuridici a Padova, li aveva trascurati ostentatamente per darsi alla bella vita. Ma nel 1858 la morte del padre sembra scuoterlo dalla sua indolenza e riprende gli studi. A quasi trentatre anni consegue la laurea e di lì a poco comincia ad interessarsi al tema che lo accompagnerà fino alla fine: gli studi su Venezia e sulla sua storia.
Egli fu autore di diversi saggi relativi alla storia di Venezia, scritti elaborati con un'angolazione particolare, per mettere in evidenza adettoti e curiosità, storie minime, che hanno appassionato generazioni di lettori.
Ne ricordiamo solo alcuni:
- Curiosità Veneziane
- Veronica Franco, celebre letterata e meretrice veneziana
- Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite a Venezia
Insolite furono le sue opere, ma anche la sua vita. Uomo solitario, viveva tra carte d'archivio e di biblioteca, ma diversamente da molti altri studiosi, non si cibava di sola cultura, ma era un gran mangiatore e un ottimo bevitore, come la sua stazza stava a testimoniare.
Amava le donne, e poiché era scettico, cinico forse, non chiedeva loro più di quello che egli stesso loro desse di sé: qualche ora d'oblio, nella soddisfazione dei sensi. Egli aveva bandito dalla sua vita ogni ingombro sentimentale, non credeva all'amore, né a nessun'altra astrazione di sentimento umano. E si studiava di aver il minor numero possibile di padroni del suo destino. Contava i suoi amici tra gli eruditi e i cultori degli studi veneziani, ma all'infuori degli incontri al caffè non manteneva relazioni con chicchessia. E nulla chiedeva a nessuno. Studiava per suo piacere, per soddisfare la sua curiosità, e scriveva per naturale inclinazione.
Probabilmente furono i suoi eccessi nel bere e nel mangiare a portarlo alla morte, per colpo apoplettico, nel 1899, nella sua casa presso il sotoportego delle Cariole, non lontano da San Zulian (nel 1988 il Comune di Venezia vi fece apporre una targa in sua memoria), dove lo trovò disteso a terra il cameriere che era solito portargli il caffè tutte le mattine.
Giuseppe Tassini non fu uno storico, fu un amabile, talvolta sornione, rievocatore della vita di un tempo, di azioni nobili e meschine, eroiche e vili, turpi e virtuose in una città singolarissima che, per chi non solo l'ama come spettacolo, ma la vuol vivere come avventura, come esperienza, ha nei suoi scritti un'introduzione impareggiabile
.
Giuseppe Tassini nacque il 12 novembre 1827 in una famiglia della borghesia veneziana. Suo nonno era vissuto molti anni a Costantinopoli come Ambasciatore della Serenissima presso la Sublime Porta. Suo padre, nato a Costantinopoli, fu ufficiale nella Veneta Marina Austriaca e sposò la figlia di un colonnello dell'esercito austriaco. Soleva infatti dire:"Nato da padre turco e madre tedesca non posso esser che strambo!".
La sua gioventù fu piuttosto disordinata: avviato agli studi giuridici a Padova, li aveva trascurati ostentatamente per darsi alla bella vita. Ma nel 1858 la morte del padre sembra scuoterlo dalla sua indolenza e riprende gli studi. A quasi trentatre anni consegue la laurea e di lì a poco comincia ad interessarsi al tema che lo accompagnerà fino alla fine: gli studi su Venezia e sulla sua storia.
Egli fu autore di diversi saggi relativi alla storia di Venezia, scritti elaborati con un'angolazione particolare, per mettere in evidenza adettoti e curiosità, storie minime, che hanno appassionato generazioni di lettori.
Ne ricordiamo solo alcuni:
- Curiosità Veneziane
- Veronica Franco, celebre letterata e meretrice veneziana
- Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite a Venezia
Insolite furono le sue opere, ma anche la sua vita. Uomo solitario, viveva tra carte d'archivio e di biblioteca, ma diversamente da molti altri studiosi, non si cibava di sola cultura, ma era un gran mangiatore e un ottimo bevitore, come la sua stazza stava a testimoniare.
Amava le donne, e poiché era scettico, cinico forse, non chiedeva loro più di quello che egli stesso loro desse di sé: qualche ora d'oblio, nella soddisfazione dei sensi. Egli aveva bandito dalla sua vita ogni ingombro sentimentale, non credeva all'amore, né a nessun'altra astrazione di sentimento umano. E si studiava di aver il minor numero possibile di padroni del suo destino. Contava i suoi amici tra gli eruditi e i cultori degli studi veneziani, ma all'infuori degli incontri al caffè non manteneva relazioni con chicchessia. E nulla chiedeva a nessuno. Studiava per suo piacere, per soddisfare la sua curiosità, e scriveva per naturale inclinazione.
Probabilmente furono i suoi eccessi nel bere e nel mangiare a portarlo alla morte, per colpo apoplettico, nel 1899, nella sua casa presso il sotoportego delle Cariole, non lontano da San Zulian (nel 1988 il Comune di Venezia vi fece apporre una targa in sua memoria), dove lo trovò disteso a terra il cameriere che era solito portargli il caffè tutte le mattine.
Giuseppe Tassini non fu uno storico, fu un amabile, talvolta sornione, rievocatore della vita di un tempo, di azioni nobili e meschine, eroiche e vili, turpi e virtuose in una città singolarissima che, per chi non solo l'ama come spettacolo, ma la vuol vivere come avventura, come esperienza, ha nei suoi scritti un'introduzione impareggiabile
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mercoledì 7 aprile 2010
Venezia, le opere in vetro di Tristano di Robilant
Sara' inaugurata venerdi' presso il Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume di Palazzo Mocenigo la mostra "Tristano di Robilant: otto sculture in vetro" che propone opere realizzate a Murano dall'artista londinese di origini veneziane.
Allestita nel portego al primo piano del Museo, la mostra - a cura di Alessandra Landi - rappresenta un omaggio a Venezia e un intenso dialogo tra allestimento, arti applicate, scultura, tradizione del materiale e nuove sperimentazioni nella lavorazione.
L'opera di Tristano di Robilant, specialmente in questa occasione, si riallaccia all'aurea veneziana tramite il vetro e l'evocazione di temi secolari. Il colore ambra, utilizzato per varie sculture, e alcune punte di rosso dogale, richiamano le icone bizantine sia per l'intensita' coloristica, che per la forte carica spirituale, accentuata nei momenti in cui i caldi raggi crepuscolari accarezzano le superfici. Anche la purezza, data dalla trasparenza del vetro, ricorda l'elemento principe di Venezia: l'acqua.
Le linee, quasi sempre sinuose, giocano con i diversi pezzi delle sculture che oscillano tra un incerto equilibrio e una sicura fermezza della parte piu' esterna.
Fonte: AGI
Allestita nel portego al primo piano del Museo, la mostra - a cura di Alessandra Landi - rappresenta un omaggio a Venezia e un intenso dialogo tra allestimento, arti applicate, scultura, tradizione del materiale e nuove sperimentazioni nella lavorazione.
L'opera di Tristano di Robilant, specialmente in questa occasione, si riallaccia all'aurea veneziana tramite il vetro e l'evocazione di temi secolari. Il colore ambra, utilizzato per varie sculture, e alcune punte di rosso dogale, richiamano le icone bizantine sia per l'intensita' coloristica, che per la forte carica spirituale, accentuata nei momenti in cui i caldi raggi crepuscolari accarezzano le superfici. Anche la purezza, data dalla trasparenza del vetro, ricorda l'elemento principe di Venezia: l'acqua.
Le linee, quasi sempre sinuose, giocano con i diversi pezzi delle sculture che oscillano tra un incerto equilibrio e una sicura fermezza della parte piu' esterna.
Fonte: AGI
Il Cronovisore
Tutti sappiamo che la Fondazione Giorgio Cini possiede un' importante biblioteca, ma pochi sanno che è anche sede dell’unico istituto esistente al mondo di Prepolifonia, cioè di musica antica anteriore alla notazione, istituito nel 1963 a affidato a Padre Pellegrino Ernetti.
Costui avrebbe inventato negli anni '50 il “Cronovisore” (macchina che permette di vedere il passato) insieme ad Agostino Gemelli dell’Università Cattolica di Milano e ad Enrico Fermi, ma ne parlò per la prima volta solo negli anni '70, affermando che con il suo cronovisore aveva potuto vedere diversi fatti avvenuti nel passato tra cui anche la crocifissione di Gesù.
Il Vaticano chiamò il frate benedettino per avere chiarimenti, e una volta tornato a casa Padre Ernetti non ne parlò mai più.
Tutto sembrava finito lì, fino al 2002 (8 anni dopo la morte di Ernetti), quando padre Francois Brune pubblicò il libro “Un nuovo mistero del Vaticano” dove dimostrò con dovizia di particolari, indicando nomi, date e circostanze precise, che il cronovisore esiste davvero e che è nascosto in Vaticano, o forse nell'isola di San Giorgio Maggiore a Venezia...
Costui avrebbe inventato negli anni '50 il “Cronovisore” (macchina che permette di vedere il passato) insieme ad Agostino Gemelli dell’Università Cattolica di Milano e ad Enrico Fermi, ma ne parlò per la prima volta solo negli anni '70, affermando che con il suo cronovisore aveva potuto vedere diversi fatti avvenuti nel passato tra cui anche la crocifissione di Gesù.
Il Vaticano chiamò il frate benedettino per avere chiarimenti, e una volta tornato a casa Padre Ernetti non ne parlò mai più.
Tutto sembrava finito lì, fino al 2002 (8 anni dopo la morte di Ernetti), quando padre Francois Brune pubblicò il libro “Un nuovo mistero del Vaticano” dove dimostrò con dovizia di particolari, indicando nomi, date e circostanze precise, che il cronovisore esiste davvero e che è nascosto in Vaticano, o forse nell'isola di San Giorgio Maggiore a Venezia...
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venerdì 2 aprile 2010
Aldo Manuzio e l'arte della tipografia nel Rinascimento
Aldo Manuzio (Velletri 1449 - Venezia 1515) è considerato il più importante tipografo del Rinascimento nonché il primo editore in senso moderno.
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insieme a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel Cinquecento in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insieme a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel Cinquecento in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'
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