giovedì 14 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 04

 


Nelle puntate precedenti abbiamo raccontato del libertinaggio a Venezia nei suoi secoli d'oro.
Giungiamo ora dunque al Settecento, l'ultimo secolo di vita della Serenissima.

Se innegabilmente i Veneziani nei secoli precedenti si abbandonavano ben spesso al vizio, altrettanto spesso però operarono cose egregie ed onorevoli per sé o per la patria.
Mentre nel Settecento regnava ahimè l'assoluta mollezza e lascivia senza le virtù degli antenati.

Il marcio partiva già nell'educazione affidata ad abati ignoranti o a monache scandalose.
Non stupisce quindi l'altissimo numero di richieste di separazione che nel solo ultimo decennio del Settecento ammontarono a quasi trecento.
Né stupisce conoscere di numerosi casi di mariti che pur di non scontentare la moglie si prodigavano in prima persona a riappacificare il cavalier servente colla propria moglie in seguito ad un qualche litigio ...

Ma chi era il "cavalier servente"?

Ce lo spiega il de Brosses:

"E' di regola che le dame veneziane posseggano un amante, e sarebbe una specie di disonore per una dama non tenere un uomo per proprio conto. Le famiglie approvano e si lascia che la sposa faccia la sua scelta, dando l'esclusione a questo o a quello. Queste attuali pratiche delle dame han diminuito di molto i fasti delle monache che in passato avevano il monopolio della galanteria. Con tutto ciò, anche oggidì, un buon numero di esse si dedica agli impegni con onore, poiché al momento in cui scrivo, havvi una furiosa briga fra tre conventi della città per sapere quale fra essi avrà il privilegio di procurare una “amica” al nuovo Nunzio Apostolico che sta per arrivare".

Giova osservare che talvolta gli sfacciati mezzani facevano passare per monache agli occhi degli incauti stranieri, donne che non lo erano affatto; nella stessa guisa in cui offrivano qualche prostituta sotto il titolo di moglie del tal nobile.
Ma peraltro erano talvolta davvero mogli di patrizi se come si narra, un dì, un certo patrizio si sentì proporre la propria consorte!


Anche le leggi si fan più permissive e capita d'incontrar cortigiane ovunque in città comprese le chiese, a qualsiasi ora.

Un cronista accenna ad un nuovo costume adottato dalle gentildonne, le quali uscivano al passeggio calzando semplici pianelle e coperte soltanto di un sottanino.
Lo stesso cronista narra altresì della sfrenatezza con cui le gentildonne si abbandonano al gioco d'azzardo, che le riducevano al punto di dover pagare col proprio corpo.

I luoghi preposti al gioco venivano chiamati casin (nel senso di piccola casa) o ridotti (dal latino "redursi"=recarsi). Ma alcuni di questi casin servivano anche ad altro scopo, forniti com'erano di eleganti letti, di ricchi specchi, di quadri lascivi, di vasche da bagno e di tavoli sopra i quali stavano pagine scandalose, quali le poesie del poeta Giorgio Baffo.


Nel Settecento, alle monache e alle cortigiane, s'aggiungono le cantanti e le ballerine di teatro.
Gli ambasciatori e i rappresentati di corti estere facevano a gara per accaparrarsi le più aggraziate tra le deità della scena, valendosi nell'opera di fidati mezzani, i quali molto spesso erano gondolieri.


Talvolta la tariffa per la conquista era fissa come c'insegna un cronista parlando della Pelosina (e non voglio sapere perché la chiamassero così ..), che si faceva applaudire al teatro San Beneto; sua madre, scrive il cronista: “desidererebbe farla uscire dalla virginità al suono di 300 zecchini” (ti ci compravi una casa con 300 zecchini ...).

Ma ci sono anche casi contrari, come l'interessante storia di Stella Cellini.

Stella Cellini era una giovane attrice ballerina che si esibiva al Teatro di San Cassian. Molto amata dal pubblico, la ballerina viveva in una casa in affitto di proprietà del Procuratore Tommaso Sandi.

Il Tommaso Sandi in questione si invaghì della ballerina, ma venne da essa rifiutato. Così, per vendetta, la sfrattò da casa e la denunciò di vita scandalosa con un Turco (!).
Ma Stella Cellini non si fece intimorire e si presentò in tribunale con un certificato di verginità redatto da due ostetriche e contro-firmato da un parroco.

Vinse così la causa e fu completamente riabilitata e tornò a calcare le scene ancor più amata.

E fu così che da allora a Venezia non si giurò più sulla Vergine Maria ma sulla vergine Cellini.


Sempre sul fronte del gentil sesso non si può non nominare Cecilia Zeno.

Cecilia, di nobili natali, fu l'amante del doge Andrea Tron e per questo soprannominata la "Trona".
Donna colta e di spirito, difese strenuamente i suoi ideali di donna libera e i suoi principi anti-clericali.

Fu anche discreta poetessa e benefattrice.

Era grande amante del teatro e aveva un palco fisso presso il Teatro di San Beneto.

Celebre fu l'episodio del 1785 quando fu allestito un grande spettacolo nel Teatro ed ella sub-affittò il suo palco, per una somma spropositata, ai duchi di Curlandia in visita alla città.

E subito il popolo motteggiò: “Brava la Trona, la vende el palco più caro de la mona!”

E lei, che era donna di spirito, prontamente rispose: ”Gavè razon, perché questa, al caso, la dono!”.

E il popolo di rimando: "La Trona, la mona, la dona!".


 

 

sabato 9 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 03

 


Il 26 marzo 1511 un tremendo terremoto colpiva la città facendo rovinare alcune case e vacillare le due colonne di Piazzetta San Marco.
La mattina seguente il patriarca Antonio Contarini, si presentava al Collegio Ducale per affermare che quel terremoto era necessariamente un castigo mandato dall'alto a Venezia per i tanti peccati che vi venivano commessi, primo fra tutti quello della carne.
In particolare il Patriarca volle ricordare un fatto avvenuto l'anno prima, quando alcuni giovani patrizi osarono ballare tutta una notte con le monache del convento della Celestia, al suono di pifferi e trombe, ed essendosi recato lui stesso a rimproverarle, tutte si misero alla porta rifiutando di farlo entrare.

Ma né il terremoto, né tanto meno la sua predica, sortirono particolare effetto, e tutto continuò come sempre.


Secondo la testimonianza di Marin Sanudo, agli inizi del Cinquecento, le meretrici in città sommavano ad 11.654, un numero impressionante se si pensa che la popolazione totale era di circa 130.000 persone!

Facendo un conto sommario, significa che circa una donna ogni cinque era prostituta di professione.

Ma, essendo così tante, non c'era abbastanza lavoro per tutte, così avvenne quella che forse è la prima manifestazione sindacale di protesta nel mondo: le meretrici scesero in Piazza San Marco per lamentarsi del poco lavoro e chiedendo un intervento dello Stato.

Le loro proteste furono ascoltate e il Maggior Consiglio dispose che ben mille di queste si trasferissero al campo di Mestre, ove era allora attendato l'esercito di terra veneziano. E si decise di licenziare tutte quelle fra esse che essendo foreste, abitassero a Venezia da meno di due anni.

Insomma lo Stato ascoltava e, se possibile, aiutava tutte le categorie professionali.


Ma ciò che colpisce maggiormente è che le meretrici non erano soggette ad alcuna tassazione!

Giordano Bruno nella sua commedia il "Candellajo", parlando di Venezia, dice: "Ivi le prostitute sono esenti da ogni aggravio. Certo, se il Senato volesse umiliarsi un poco e fare come gli altri, si farebbe un po' più ricco..." ma evidentemente la Repubblica era già sufficientemente ricca!


Tale Cesare Vecellio ci ha lasciato una descrizione minuta dei costumi delle meretrici dell'epoca: "Le pubbliche meretrici non stanno solo nei luoghi loro preposti, ma si trovano ovunque in città. Vestono, a volte, come uomini, nondimeno l'inegualità della fortuna fa sì che non tutte vadano vestite pompose allo stesso modo. Sulle carni portano camicia accomodata di sottigliezza ciascuna in base alla merce che ha da spendere. Molte di loro si trattengono per strada cantando canzonette amorose con poca grazia.

Alcune però, fra tante, oltreché colla bellezza del corpo, sollevavansi sopra le loro pari colle doti dello spirito e coll'educazione onde erano fornite. Esse erano più propriamente denominate "cortigiane". Le cortigiane si dedicavano alla musica e non si mostravano ignare alle lettere, e potevano paragonarsi in parte alla famose etére, sospiro degli uomini più distinti della Grecia. Non è quindi da stupirsi se la loro condizione destava l'invidia d'una tra le dame galanti di Brantome, la quale, avrebbe voluto cangiar tutto il suo avere in biglietti di banca e recarsi a Venezia per condurre colà vita cortigianesca, piacevole e felice."


Le cortigiane costituivano nella Venezia dei secoli d’oro una categoria sociale e professionale distinta da quella delle comuni meretrici.
Pur esercitando anch’esse la prostituzione, le cortigiane si distinguevano non solo perché potevano contare su lauti guadagni e protezioni influenti, ma anche in virtù della loro classe sociale, della cultura e talvolta anche del talento artistico e letterario, che erano libere di esercitare pubblicamente proprio grazie alla loro particolare condizione.


Infatti, nascere nobile o comunque di famiglia ricca, non era poi così auspicabile, in quanto avevi solo due opzioni : andare in sposa a qualcuno che manco conoscevi, o finire in convento.

Ecco quindi che il mestiere di cortigiana appare come una via di fuga.

Una fuga che tra l'altro comportava anche la possibilità di ottenere un'indipendenza economica che ti slegava dagli obblighi famigliari.

Ecco perché così tante donne scelgono questo mestiere che le rendeva libere e al contempo ammirate e invidiate.


In questo secolo venne pubblicato addirittura un catalogo delle cortigiane con tanto di indirizzi, prezzi e nomi della relativa matrona (che spesso era la madre...).


La più celebre tra queste fu senz’altro Veronica Franco.
Nata da famiglia benestante si sposò giovanissima con un medico, ma abbandonò presto il letto coniugale per darsi alla vita libera. Era anche poetessa e di buona cultura, aveva diverse amicizie tra letterati e nobili, e venne anche ritratta da Tintoretto che le donò poi il quadro.

Ecco, il fatto in sé che un pittore come Tintoretto avesse ritratto la Veronica Franco ci dà una misura della considerazione sociale che avevano queste cortigiane.

La sua fama era tale che quando Enrico III re di Francia venne in visita a Venezia nel 1574 volle conoscerla e passò una notte con lei. A ricordo dell’incontro, Veronica donò al re il proprio ritratto e due sonetti.


Altrettanto celebre fu Angela del Moro, che per esser figlia d'uno zaffo (cioè di uno sbirro), era soprannominata la Zaffetta.
Il cardinale Ippolito de' Medici, venuto a Venezia nel 1532, scelse proprio la Zaffetta per la prima notte del suo arrivo in città.

E Pietro Aretino ne faceva il più sfoggiato elogio, invitandola in diverse occasioni a cena, unitamente al Tiziano e al Sansovino.


Si può ben dire che in Pietro Aretino fosse personificato il libertinaggio di Venezia, città da lui abitata per moltissimo tempo e quivi sepolto.

Dedito, per pubblica fama, alla pederastia, si tenne in casa, in epoche diverse, alcuni giovanotti, tra cui un certo Polo che fece maritare con Pierina Riccia, facendosela però cedere ad uso proprio ed amandola assai, non tanto però da non perseguitare in tutti i modi Angela Tornimben, moglie di Gian Antonio Serena. Che fece allora Gian Antonio per vendicarsi? Indusse Pierina a fuggire dalla casa di Aretino insieme a Caterina Sandella, altra amica dell'Aretino, dalla quale ebbe una figlia, Adria, il cui padrino di battesimo era il tipografo Francesco Marcolini, la cui moglie Isabella, intratteneva pur essa amorosa tresca collo scostumatissimo Aretino!

Pietro Aretino è conosciuto principalmente per alcuni suoi scritti dal contenuto considerato licenzioso (almeno per l'epoca), fra cui i conosciutissimi Sonetti lussuriosi.

Ma scrisse anche opere di contenuto religioso.Questa, che oggi potrebbe apparire incoerenza, fu in realtà, per molti versi, un modello dell'intellettuale rinascimentale.

In una sua lettera scrisse: «Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; e tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice»
E dove avrebbe potuto vivere uno così, se non a Venezia?





sabato 2 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 02

 

Nell'articolo precedente abbiamo visto qualche esempio di scandalo tra i nobili veneziani.

Ma l'apice della sfrontatezza era raggiunto dalle monache dei conventi. In particolare i conventi patrizi, i quali venivano chiamati "doppi" in quanto frati e monache vi abitavano insieme. Talvolta le monache si tenevano qualche frate in vicinanza con il pretesto di venir da essi guidate negli affari spirituali.

Il Maggior Consiglio emanava quindi, nel 1385, una legge con cui si imponeva che il confessore delle monache fosse di non meno di 60 anni!

Ma il costume di recarsi nei chiostri delle monache era di largo appannaggio anche dei laici, e così feste e divertimenti non mancavano per queste suore, che infatti avevano trasformato il loro parlatoio in un elegante salotto sede di concerti e spettacoli vari, con un continuo "pellegrinaggio" di giovani cavalieri mascherati.


Da citare una nota dal diario del Granduca di Toscana, Cosimo III, che venne qui in visita agli inizi del Settecento:

Vestono leggiadrissimamente con abito bianco alla francese, il busto di bisso a piegoline, un piccolo velo cinge loro la fronte, sotto la quale escono li capelli arricciati e lindamente accomodati; seno mezzo scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache”.

Ma tutta questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze indesiderate.

Per questo motivo in tutta la città v’erano diverse imprese che producevano contraccettivi, fabbricati con budella di animali, che in dialetto erano chiamati condon, termine che qualcuno fa risalire ad un ipotetico medico inglese Condom, di cui però non è mai stata accertata l'esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere” = "proteggere".

Questo interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel 1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno di Napoli, ed è per questo tra l’altro che la sifilide veniva detta mal francese; la cosa curiosa è che in Francia invece la chiamano mal napolitaine!


A Venezia la legge prevedeva pene severe per i "monachini", cioè le persone che intrattenevano relazioni amorose con le monache, che andavano dalle multe, al carcere, fino alla pubblica frusta e al bando.


Ma se da una parte la legislazione veneziana si occupava di questi problemi, non trascurava l'argomento della pubblica prostituzione, giacché si legge in diversi decreti dell'epoca che le meretrici erano considerate "omninamente necessarie in Venezia".

Tutte le meretrici erano sottoposte alla sorveglianza dei Signori della Notte e dei Capi di Sestiere, tra le varie limitazioni a cui erano costrette ricordiamo che non potevano frequentare osterie, né recarsi in Chiesa durante la Messa della domenica, né indossare gioielli.


Un decreto del 1360 stabiliva che tutte le meretrici dovevano essere confinate in un'area nei pressi della chiesa di San Matteo di Rialto (chiesa poi scomparsa). Zona ribattezzata "Castelletto" forse perché c'erano delle torri sui tetti delle case, come usava all'epoca.

Tra le altre regole ricordiamo: l'obbligo di portare al collo, come segno distintivo, un fazzoletto giallo; approssimandosi la notte, dovevano, allo scocco della prima campana di San Marco, recarsi tutte nel già menzionato Castelletto, mentre durante il giorno potevano circolare liberamente per la città, eccetto durante le feste di Natale e di Pasqua, nonché in tutte le feste dedicate alla Madonna.


Ad ogni casa del Castelletto era preposta una direttrice chiamata "matrona" a cui spettava di dividere ogni mese, fra le sue dipendenti, i guadagni conservati in una cassa, cassa che veniva aperta solo in presenza di un rappresentante di Stato.

Questo per garantire che le meretrici fossero correttamente retribuite.

Sì, perché se da un lato queste meretrici subivano leggi che limitavano la loro libertà, da altre leggi venivano protette e difese. Si provvide ad esempio a controllare che coloro i quali ne avessero riscattate dalle matrone, non le tiranneggiassero, e che coloro che ne avevano sposate non continuassero a tenerle nel Castelletto.

Si deputarono delle guardie armate che tutte le notti sorvegliassero il loro quartiere perché nessuno potesse far loro del male, e si proibì di entrare nel Castelletto armati, sempre al fine di proteggerle.

Insomma niente veniva lasciato al caso nella Repubblica Serenissima, qualunque mestiere era regolamentato e protetto.