lunedì 28 dicembre 2020

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 01

 

Nel quattordicesimo secolo Venezia raggiunse l'apice della sua grandezza.

Grandi erano le ricchezze che vi transitavano e di conseguenza numerose le persone che vi risiedevano stabilmente o per limitati periodi legati a trattative commerciali.

Naturalmente tra i vari servizi di accoglienza offerti non mancava certo la prostituzione.

Le nuove leve, se così possiamo chiamarle, provenivano per lo più dalle numerose orfane (soprattutto figlie illegittime di nobili, abbandonate) che popolavano le strade della città.

Alcune di queste venivano salvate da organizzazioni religiose o statali, ma molte erano quelle che non si riusciva a soccorrere.


Tra i soccorritori ricordiamo fra' Pieruzzo d'Assisi, francescano, che di contrada in contrada raccoglieva gli orfani che riusciva a trovare per portarli nelle case di proprietà dei frati intorno alla chiesa di San Francesco della Vigna. Nel 1346 aprì un vero e proprio istituto per trovatelli in parrocchia San Giovanni in Bragora col nome di Pietà. Primo dei quattro cosiddetti "ospedali" nei quali ai bambini veniva insegnato un mestiere mentre alle bambine si insegnava musica e canto.


Ma queste attività di assistenza non erano certo in grado di arginare del tutto il fenomeno della prostituzione, tanto più che non necessariamente le meretrici erano orfane abbandonate, anzi spesso erano avviate al mestiere dalle loro stesse madri.

Inoltre capitava anche che alcune ragazze venissero rapite alle loro famiglie nelle campagne dell'entroterra per costringerle a prostituirsi in città.


Alcuni storici dell'epoca lamentavano il degrado dei costumi dell'epoca, ma questi costumi non sono certo mai mancati nella storia dell'uomo presso qualunque società; ciò che distingueva però la prostituzione a Venezia era che qui era strettamente regolamentata dallo Stato, ma ne parleremo meglio in un prossimo articolo.


Per pura curiosità possiamo narrare qualcuna delle storie più celebri che diedero scandalo all'epoca.

Ad esempio la tresca tra il doge Andrea Dandolo e Isabella Fieschi, moglie di Luchino Visconti, duca di Milano.

Isabella, dopo aver adornato di molte ramosa corna la testa del povero marito, simulò nel 1347 di aver fatto voto di recarsi a Venezia per la festa della Sensa.

Partì quindi da Milano, con il suo corteo di dame, e arrivò a Venezia accolta con grandi feste e onori dalla Repubblica. Ma appena giunta in città, si diede alla più sfrenata licenza, e il doge stesso, Andrea Dandolo, fu uno di quelli con cui largheggiò dei propri favori, dando agio anche alle dame del suo seguito di ricercare i propri piaceri (per l'esattezza nel documento dell'epoca viene utilizzata la parola "pastura").

Il viaggio, possiamo letteralmente dire, di "piacere" di Isabella, costò addirittura la vita al povero Luchino, il quale avendo avuto notizia dei sollazzi della moglie a Venezia espresse l'intenzione di vendicarsi, ma fu prevenuto da Isabella con un veleno che lo portò brevemente alla morte. 

Altro esempio riportato nelle cronache è la storia di Lodovica Gradenigo, consorte del doge Marino Falier. Si narra infatti che durante una festa da ballo datasi in Palazzo Ducale la sera del Giovedì grasso del 1355, il nobile Michele Steno veniva cacciato dalla sala per alcuni eccessi dimostrati durante la festa, il quale però si vendicò scrivendo sopra il seggio del Falier il noto epigramma: "Marin Falier da la bela mugier. Altri la gode e lu la mantien!". Si dice che Marino Falier se la prese così tanto per questa frase che decise di ordire la nota congiura di Stato, che fu poi repressa e che terminò con la decapitazione del doge.


Interessante, anche se per motivi diversi, è la storia di Luigi Venier, figlio del doge Antonio Venier, il quale era l'amante della moglie del nobile Giovanni dalle Boccole. Accadde che la moglie si stufò di Luigi e non volle più donargli le sue grazie, questi però non la prese bene e pensò di attaccare sul ponte di Cà dalle Boccole due grandi corna accompagnate da una scritta volgarmente pesante contro la famiglia Dalle Boccole, e per questo veniva catturato e condannato a due mesi di prigione, seppur figlio del doge stesso. E' interessante il fatto che il Doge Antonio Venier, il quale avrebbe potuto intervenire per far almeno diminuire la pena, lasciò che la giustizia facesse il suo regolare corso, affermando che la giustizia è uguale per tutti.


Abbiamo visto qualche scandalo legato al mondo della nobiltà, ma anche i preti non volevano esser da meno e innumerevoli sono i casi di scandalo raccontati nelle cronache. Ricordiamo ad esempio, don Stefano Pianigo, piovano di San Polo, che sedusse una vedova, tale Cristina, e poi la diede in sposa a tale Nicoletto d'Avanzo, col patto di potersi congiungere con la donna, quando più gli fosse piaciuto.


 

mercoledì 15 luglio 2020

Perché si dice "attaccare bottone"

Sì, lo so, nessuno dice più “attaccare bottone”, è una roba da vecchi; ma io sono vecchio, e magari tra di voi c'è qualcuno che come me è nato e cresciuto nel secolo scorso e ancora si ricorda di questo modo di dire, e magari non sa perché mai si dica “attaccare bottone” riferito all'atto del rivolgere la parola ad una ragazza, o un ragazzo, che ci sembra interessante e con cui vorremmo... sì insomma avete capito.

In ogni città, grande o piccola, c'è sempre una strada, una piazza, un luogo deputato al camminamento pigro il cui unico fine è guardare, o farsi guardare, sa mai che magari si incontra una ragazza, o un ragazzo, piacevole.
In alcune città si chiama “fare le vasche”, in altre si dice “fare lo struscio” e così via, a Venezia si diceva “fare il liston”.
Uno dei più antichi luoghi di queste passeggiate era quello di Campo Santo Stefano, già nel XVI secolo. In quel tempo la piazza era erbosa, salvo una striscia, una "lista" che era selciata e dove si poteva camminare comodamente avanti e indietro, chiacchierando e facendosi notare.
Quella comoda lista selciata veniva chiamata appunto liston.
Lì alla sera un gran numero di dame sfilavano civettando e lanciando sguardi ammiccanti ai cavalieri.
Di queste passeggiate riferisce, naturalmente, anche Giacomo Casanova nelle sue "Memorie".

Prima di continuare però dobbiamo fare un salto sull'isola della Giudecca, presso l'ex ospizio detto delle Zitelle (non nel senso di donne non sposate, ma di fanciulle orfane). Opera del Palladio tra l'altro.
Ora, dovete sapere che a Venezia, ai tempi della Repubblica intendo, il meccanismo sociale per salvare gli orfani in città (o i bambini poveri in generale) era sorprendentemente moderno ed efficiente.
Gli orfani venivano raccolti dalle strade e li si introduceva in strutture specifiche dove veniva loro insegnato un mestiere; per evitare appunto che i maschi si dessero alla delinquenza o all'accattonaggio, e le femmine alla prostituzione.
Alle fanciulle portate alla struttura delle Zitelle veniva insegnato il mestiere della sarta. Imparavano quindi il cucito in modo che in futuro avrebbero potuto mantenersi.

Nel Settecento queste ragazze si specializzarono nella creazione del famoso scialle veneziano; confezionato in seta e in pizzo per le dame, o in lana per le popolane, ma sempre rigorosamente con lunghe frange.

Tra l'altro lo scialle era in qualche modo simbolo di rispettabilità; l'uso era infatti vietato alle meretrici.

Ora dobbiamo immaginare queste dame passeggiare appunto lungo i famosi liston, agghindate con il loro scialle.
Quando adocchiavano un cavaliere che ritenevano interessante (perché diciamocelo, a noi uomini piace pensarci cacciatori, ma alla fine son loro che decidono), dicevamo, quando incrociavano un giovanotto di bell'aspetto, con un rapido gesto della mano prendevano un lembo dello scialle e lo facevano volteggiare facendo svolazzare con maestria le lunghe frange, le quali andavano ad impigliarsi sui bottoni della giacca del cavaliere … ecco perché si dice “attaccare bottone”, “tacar boton” in veneziano!

So cosa state pensando: e se il giovanotto in questione non aveva la giacca con i bottoni? Eh non lo so! Trovavano un altro modo, fioi, di sicuro una dama veneziana non si arrendeva per così poco!

So che in altre parti d'Italia l'espressione “attaccare bottone” ha un significato diverso, tipo “tediare qualcuno con un discorso lungo e noioso” ma a me piace di più la versione veneziana ;)



CIAO


No, non vi sto salutando, non ancora per lo meno … voglio parlarvi proprio della parola “ciao”.
Molti di voi già lo sanno, ma magari c'è ancora qualcuno che non lo sa: la parola “ciao” è una parola veneziana, o meglio, deriva dalla parola veneziana 'sciavo, che significa “servo” (“servo” non “schiavo”).
Da 'sciavo divenne 'sciao infine ciao.
Quando due gentiluomini si incontravano si salutavano dicendo “'sciavo vostro” nel senso di “sono servo vostro” “sono al vostro servizio”
Ancora oggi in Veneto se chiamate “Toni” l'altro vi risponde “comandi!”
Abbreviato in “mandi” dai friulani …

A proposito di servi e di schiavi, pochi sanno che la prima nazione al mondo ad abolire il commercio degli schiavi fu la Repubblica di Venezia nel 960, almeno ufficialmente, poi in realtà la legge veniva spesso disattesa, ma intanto questi già prima dell'anno Mille ci avevano quanto meno pensato …
C'è anche da dire che la motivazione non era solo umanitaria, ma anche pratica: gli schiavi non pagano le tasse, gli uomini liberi sì!

Resta il fatto che quando dite “ciao” a qualcuno gli state dicendo “sono al tuo servizio”.

Bizzarramente la parola “ciao” negli ultimi decenni si è diffusa anche al di fuori dell'Italia, curiosamente però viene usata quasi sempre unicamente per il commiato … mah, questi foresti che non conoscono la lingua veneziana!