A parte qualche caso sporadico (come tale Francesco Barozzi che si considerava un mago), fatture, magie e stregonerie erano a Venezia ad esclusivo appannaggio delle donne, o loro attribuite dalla cultura dell'Inquisizione. Contrariamente alla tradizione, le streghe della Serenissima, o quelle che si ritenevano tali, non professavano culti e patti diabolici con malefizi mortali, sabba od orge demoniache, ma si limitavano per lo più a piccole magie e fatture "casalinghe" riguardanti la salute oppure i tormenti amorosi.
Le streghe veneziane non adoravano il demonio ma al massimo lo invocavano, pagandogli addirittura in anticipo i favori gettando delle monete e manciate di sale sul fuoco; l'unica raffigurazione diabolica che conoscevano era quella presente tra le carte dei Tarocchi.
A volte si ritrovavano presso il cimitero ebraico del Lido, luogo considerato carico di poteri occulti.
Si trattava in sostanza di una stregoneria spicciola, patrimonio dei ceti più poveri dai quali provenivano la maggioranza di queste donne, che applicavano antichi segreti e pratiche di dubbia efficacia. I segreti venivano rivelati di generazione in generazione nelle notti di Natale o in punto di morte e venivano poi usati come mezzo di sostentamento.
Alcune presunte streghe erano anche cortigiane: c'era la convinzione che sapessero fare fatture e incantesimi affinché gli uomini si innamorassero di loro.
Queste fattucchiere sarebbero rimaste anonime se il Sacro Tribunale dell'Inquisizione non si fosse accanito nella caccia alle streghe. Nel resto dell'Europa gli Inquisitori sfogavano le proprie frustrazioni su povere donne che venivano plagiate, sottoposte a torture e mandate al rogo. Per fortuna, data la particolarità della società veneziana, nessun rogo fu mai acceso nel territorio della Serenissima e le torture vennero applicate in pochissimi casi; questo anche perché il governo veneziano, sempre mal disposto nei confronti della Chiesa di Roma, aveva saputo, sottilmente e tra le quinte, conferire un indirizzo speciale alla questione.
(fonte: Brusegan)
lunedì 26 settembre 2011
Streghe a Venezia
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giovedì 22 settembre 2011
Campo dell'Abbazia e Scuola della Misericordia
La Scuola della Misericordia nasce col nome di "Santa Maria in Valverde" (per via dell'antica presenza di orti e giardini nella zona) ed è tra le più antiche di Venezia, in quanto le prime notizie di un insediamento religioso risalgono all'anno 936, con l’erezione di una Abbazia e la creazione di un ospizio per pellegrini e bisognosi.
L'attuale edificio che si affaccia sul Campo dell'Abbazia risale invece al 1200, e coeva risulta la chiesa ad angolo (la cui facciata però venne rifatta nel Seicento). Già dopo due soli secoli la sede della Scuola risulta troppo piccola e viene deliberata la costruzione della Scuola Nuova, per opera del Sansovino, dall'altra parte del rio. La Scuola Nuova venne poi abbandonata con l'arrivo di Napoleone e utilizzata per gli usi i più disparati (oggi è sede espositiva).
Il Campo dell'Abbazia è un punto tra i più suggestivi del sestiere di Cannaregio, proteso come appare sull'incrocio di due rii, in modo da assumere l'aspetto di uno scalo fluviale o, nei pomeriggi invernali, porto delle nebbie.
Facco De Lagarda lo descrive così, in una sua poesia degli anni Quaranta:
Esco e già scende la sera
sull'Abbazia calda ancora di sole,
davanti al portale di quercia
guizzano in torneo le rondini.
Lungo il deserto canale degli orti
l'acqua si gonfia nell'alta marea,
disegna molli arabeschi,
s'increspa a un colpo improvviso di vento.
Sosto,
vicino al capitello degli addii.
L'attuale edificio che si affaccia sul Campo dell'Abbazia risale invece al 1200, e coeva risulta la chiesa ad angolo (la cui facciata però venne rifatta nel Seicento). Già dopo due soli secoli la sede della Scuola risulta troppo piccola e viene deliberata la costruzione della Scuola Nuova, per opera del Sansovino, dall'altra parte del rio. La Scuola Nuova venne poi abbandonata con l'arrivo di Napoleone e utilizzata per gli usi i più disparati (oggi è sede espositiva).
Il Campo dell'Abbazia è un punto tra i più suggestivi del sestiere di Cannaregio, proteso come appare sull'incrocio di due rii, in modo da assumere l'aspetto di uno scalo fluviale o, nei pomeriggi invernali, porto delle nebbie.
Facco De Lagarda lo descrive così, in una sua poesia degli anni Quaranta:
Esco e già scende la sera
sull'Abbazia calda ancora di sole,
davanti al portale di quercia
guizzano in torneo le rondini.
Lungo il deserto canale degli orti
l'acqua si gonfia nell'alta marea,
disegna molli arabeschi,
s'increspa a un colpo improvviso di vento.
Sosto,
vicino al capitello degli addii.
lunedì 19 settembre 2011
Gli Squeri di Venezia
Gli squeri erano i cantieri per le barche, spazi più o meno grandi prospicienti un canale e degradanti verso l'acqua per poter agevolmente tirare in secco le imbarcazioni. Spesso hanno delle costruzioni alle spalle per poter lavorare al riparo dalle intemperie. Servono per la costruzione di barche di tutti i generi, comprese le gondole, ma anche per le loro riparazioni. Gli artigiani che vi lavorano vengono chiamati squeraròli, o maestri d'ascia, e provengono dalla categoria dei marangoni (falegnami).
L'esistenza degli squeri e dell'Arte degli Squeraroli era di fondamentale importanza per la Serenissima, in quanto lo sviluppo e la vita stessa della città dipendevano dall'acqua e dai suoi trasporti. La sede della loro Scuola era a San Trovaso, sotto la protezione di Santa Elisabetta, e proprio a San Trovaso esiste ancora un caratteristico squero per le gondole, meta di pittori, poeti e scrittori per il fascino che emana. Qui il tempo sembra essersi fermato: gli strumenti di lavoro sono quasi gli stessi che si usavano un tempo e l'odore della pece aleggia tra le gondole adagiate su un fianco, vicino alla casa che sembra uscita da una cartolina di montagna.
Un tempo gli squeri erano moltissimi, ora ne sono rimasti pochissimi; ve ne sono alcuni di pubblici, dove i cittadini possono tirare a secco le proprie barche per piccole riparazioni; sono dei semplici scivoli sull'acqua, a cielo aperto, e chi li usa si deve arrangiare.
L'esistenza degli squeri e dell'Arte degli Squeraroli era di fondamentale importanza per la Serenissima, in quanto lo sviluppo e la vita stessa della città dipendevano dall'acqua e dai suoi trasporti. La sede della loro Scuola era a San Trovaso, sotto la protezione di Santa Elisabetta, e proprio a San Trovaso esiste ancora un caratteristico squero per le gondole, meta di pittori, poeti e scrittori per il fascino che emana. Qui il tempo sembra essersi fermato: gli strumenti di lavoro sono quasi gli stessi che si usavano un tempo e l'odore della pece aleggia tra le gondole adagiate su un fianco, vicino alla casa che sembra uscita da una cartolina di montagna.
Un tempo gli squeri erano moltissimi, ora ne sono rimasti pochissimi; ve ne sono alcuni di pubblici, dove i cittadini possono tirare a secco le proprie barche per piccole riparazioni; sono dei semplici scivoli sull'acqua, a cielo aperto, e chi li usa si deve arrangiare.
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lunedì 12 settembre 2011
Scala Contarini del Bovolo
Il Palazzo Contarini del Bovolo (XV secolo) è celebre per la splendida scala elicoidale esterna a forma di chiocciola (in veneziano: bovolo) che si innesta armonicamente alla facciata a loggiati sovrapposti. La scala risulta esser stata realizzata attorno al 1499 da Giovanni Candi. Dietro la cancellata sono visibili alcune vere da pozzo e una pietra tombale della vicina chiesa di San Paternian (abbattuta).
Lo scrittore veneziano Renato Pestriniero ha dedicato a questo insolito monumento il racconto Nodi, pubblicato per la prima volta nel 1981. Si tratta di un'interpretazione visionaria di notevole suggestione:
"Avevamo lasciato Campo Manin per inoltrarci nell'unico accesso alla corte, una fessura in ombra tra cataste di case antiche, occhiaie nere, bocche di cantine putrescenti, muri di mattoni corrosi dalla salsedine, e alla fine ecco la corte, piccola e raccolta, un pozzo formato da pareti di case sovrapposte, protuberanze, anfratti, un labirinto di volumi incastrati l'uno nell'altro nel corso dei secoli. La scala sorge lì. E' una spirale di gradini che si avvolge all'esterno di una torre cilindrica, un nastro orlato di trine marmoree, un capriccio architettonico.
Cominciai a salire aggirando il corpo cilindrico della costruzione sul quale si avvolge la scala. Sul lato esterno la serie ininterrotta di archi si apriva su un vuoto grigio. Ad ogni decina di gradini passavo accanto a una porta di legno simile a quella dalla quale ero uscito. Un numero così elevato di porte faceva prevedere una struttura interna ben strana. Sostai accanto ad una di esse. Filtravano suoni che non riuscivo ad interpretare, una sorta di scalpiccio, un mormorare proprio accanto all'uscio, eppure lontanissimo, passi soffici provenienti da un silenzio per immergersi in un altro silenzio.
Continuai a salire, ma quando ebbi completato un paio di volute e mi trovai nuovamente sulla verticale della corte, mi resi conto che nelle distanze c'era qualcosa di sbagliato..."
Lo scrittore veneziano Renato Pestriniero ha dedicato a questo insolito monumento il racconto Nodi, pubblicato per la prima volta nel 1981. Si tratta di un'interpretazione visionaria di notevole suggestione:
"Avevamo lasciato Campo Manin per inoltrarci nell'unico accesso alla corte, una fessura in ombra tra cataste di case antiche, occhiaie nere, bocche di cantine putrescenti, muri di mattoni corrosi dalla salsedine, e alla fine ecco la corte, piccola e raccolta, un pozzo formato da pareti di case sovrapposte, protuberanze, anfratti, un labirinto di volumi incastrati l'uno nell'altro nel corso dei secoli. La scala sorge lì. E' una spirale di gradini che si avvolge all'esterno di una torre cilindrica, un nastro orlato di trine marmoree, un capriccio architettonico.
Cominciai a salire aggirando il corpo cilindrico della costruzione sul quale si avvolge la scala. Sul lato esterno la serie ininterrotta di archi si apriva su un vuoto grigio. Ad ogni decina di gradini passavo accanto a una porta di legno simile a quella dalla quale ero uscito. Un numero così elevato di porte faceva prevedere una struttura interna ben strana. Sostai accanto ad una di esse. Filtravano suoni che non riuscivo ad interpretare, una sorta di scalpiccio, un mormorare proprio accanto all'uscio, eppure lontanissimo, passi soffici provenienti da un silenzio per immergersi in un altro silenzio.
Continuai a salire, ma quando ebbi completato un paio di volute e mi trovai nuovamente sulla verticale della corte, mi resi conto che nelle distanze c'era qualcosa di sbagliato..."
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lunedì 5 settembre 2011
Il triangolo amoroso di George Sand a Venezia
Autrice di un reportage su Venezia pubblicato sulla "Revue de deux mondes", l'anticonformista scrittrice francese (1804-1876) lega il suo nome a quello della città per essere stata protagonista di un chiacchierato triangolo erotico. In breve alla fine del mese di gennaio 1834 George Sand si trova a Venezia, presso l'Hotel Danieli, in compagnia di un amante più giovane di lei di sei anni, ma già illustre nella Parigi letteraria: Alfred de Musset. Il poeta però è febbricitante. Viene chiamato un medico abituato a trattare con l'esigente clientela dell'albergo, tale Pietro Pagello.
Quando, dopo alcuni giorni, De Musset riprende coscienza dal delirio delle febbri e vede il medico, comprende immediatamente quanto è accaduto: il medico premuroso si è preso cura anche della donna del paziente.
Alle sue domande pressanti la Sand risponde negando tacciandolo addirittura di visionario. Intanto però la tresca prosegue senza pause, sfruttando persino, allorché la passione risulta incontenibile, i recessi inopinabili del movimentato Danieli.
Dunque tutto si svolge secondo il copione del classico triangolo borghese, e questo non depone a favore della scapigliata coppia francese, a parole sprezzante di ogni forma di compromesso. Dei tre quello che, per così dire, ne uscirebbe meglio sarebbe proprio Pagello (che in fondo fa il suo dovere di medico di stazione turistica, obbediente al capriccio dell'ospite), se non si fosse fatto convincere dalla donna (che riceve dalle mani di un ormai stremato de Musset) a seguirla a Parigi.
Accompagnato da una fama di stallone, il Pagello si improvvisa battitore di mediocri quadri che da buon veneziano aveva portato in valigia, per sicurezza, non si sa mai, nei convegni e presso i salotti in cui la scrittrice lo trascina. Subisce però lo smacco del contro-triangolo: troppo per un italiano! Meglio scomparire di scena ritornando al suo regno di medico mandato dalla provvidenza, in più cortese e belloccio: Venezia, il Danieli, i turisti pieni di fregole e acciacchi.
Ma al Danieli non c'è una targa che lo ricordi.
(Fonti: M. Brusegan / A. Scarsella / M. Vittoria)
Quando, dopo alcuni giorni, De Musset riprende coscienza dal delirio delle febbri e vede il medico, comprende immediatamente quanto è accaduto: il medico premuroso si è preso cura anche della donna del paziente.
Alle sue domande pressanti la Sand risponde negando tacciandolo addirittura di visionario. Intanto però la tresca prosegue senza pause, sfruttando persino, allorché la passione risulta incontenibile, i recessi inopinabili del movimentato Danieli.
Dunque tutto si svolge secondo il copione del classico triangolo borghese, e questo non depone a favore della scapigliata coppia francese, a parole sprezzante di ogni forma di compromesso. Dei tre quello che, per così dire, ne uscirebbe meglio sarebbe proprio Pagello (che in fondo fa il suo dovere di medico di stazione turistica, obbediente al capriccio dell'ospite), se non si fosse fatto convincere dalla donna (che riceve dalle mani di un ormai stremato de Musset) a seguirla a Parigi.
Accompagnato da una fama di stallone, il Pagello si improvvisa battitore di mediocri quadri che da buon veneziano aveva portato in valigia, per sicurezza, non si sa mai, nei convegni e presso i salotti in cui la scrittrice lo trascina. Subisce però lo smacco del contro-triangolo: troppo per un italiano! Meglio scomparire di scena ritornando al suo regno di medico mandato dalla provvidenza, in più cortese e belloccio: Venezia, il Danieli, i turisti pieni di fregole e acciacchi.
Ma al Danieli non c'è una targa che lo ricordi.
(Fonti: M. Brusegan / A. Scarsella / M. Vittoria)
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giovedì 1 settembre 2011
Divertimenti veneziani
I luoghi prediletti dai veneziani per i loro divertimenti erano i casin, detti anche ridotti. Questi erano delle piccole case o soltanto delle stanze, dove i veneziani restavano fino all'alba per divertirsi giocando d'azzardo o intrattenendosi con delle cortigiane.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.
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