venerdì 28 maggio 2010

Franchetti

La Cà d’Oro fu fatta costruire da Marino Contarini nel 1400 in pieno stile gotico fiorito e fatto decorare con sottili lamine d’oro (da cui il nome) che lo resero immediatamente il palazzo più ammirato del Canal Grande. I Contarini abbandonarono il palazzo a fine ‘700 con la caduta della Repubblica. Fu poi acquistato da un principe russo che ne affidò il restauro ad un ingegnere tedesco che fece uno vero e proprio scempio. Fortunatamente alla fine del 1800 fu acquistato dal Barone Giorgio Franchetti (nobile famiglia di lontane origini mantovane), che lo restaurò ispirandosi al disegno originario, ricreando in pratica l’ambiente di una ricca casa di un patrizio nel 1400; ma fin dall’inizio il suo intento non era di farne una dimora ma di realizzare un vero e proprio museo e di ospitarvi la propria collezione di opere d'arte per renderla visitabile al pubblico. Nel 1916 Franchetti stipulò un accordo con lo Stato Italiano nel quale si impegnò a cedere il palazzo al termine dei lavori in cambio della loro copertura finanziaria. Il 18 gennaio del 1927 venne inaugurato il museo intitolato "Galleria Giorgio Franchetti" alla memoria del barone, scomparso nel 1922.

Il personaggio più avventuroso della famiglia Franchetti è senz’altro l’esploratore Raimondo (1981-1935) che dalle Montagne Rocciose, ai Mari della Cina, all’Africa, viaggiò senza sosta (a parte la parentesi della prima guerra mondiale a cui partecipò).
Ventenne, fu abbandonato su un’isola in Malesia, poiché sull’imbarcazione su cui viaggiava era scoppiata la peste e così, si ritrovò a vivere da solo con una tribù locale per circa un anno.
Fu ritrovato da una missionaria inglese quando ormai tutti lo davano per morto.
Nel 1911 documentò la rivoluzione in Cina.
Nel 1920 sposò a Venezia (nel palazzo Cavalli-Franchetti sul Canal Grande) la contessina Bianca Rocca, discendente per parte di madre dalla famiglia dei dogi Mocenigo, da cui ebbe quattro figli.
Il paese che segnò la sua vita fu però l’Africa, dove, a più riprese, partecipò a varie spedizioni (spesso accompagnato da Luca Comerio, fotografo ufficiale di Casa Savoia, e pioniere del filmato documentaristico)
Memorabile fu quella in Dancalia sulle tracce della spedizione Giulietti massacrata dai dancali.
Su questa impresa scrisse il libro “Nella Dancalia etiopica”, e in ricordo chiamò sua figlia Afdera (che sposerà Henry Fonda) dal nome del lago etiope da lui ribattezzato Giulietti.
Morì in un incidente aereo mentre viaggiava con il governatore onorario della colonia eritrea, insieme al quale stavano trattando con il Negus circa la possibilità di evitare la guerra.
L'incidente suscitò immediatamente vasta eco, anche sulla stampa estera e subito, più volte, si parlò di attentato, forse ad opera di agenti britannici, ma le vere cause non furono mai chiarite. Anzi, la commissione di inchiesta inviata dal governo italiano, per probabili ragioni di opportunità politica, dichiarò rapidamente l'impossibilità di appurare le ragioni dell'incidente.

Da ricordare anche Alberto Franchetti, famoso musicista, che collaborò con D’Annunzio e che fu strettamente amico di Puccini e Mascagni, le cui opere furono dirette da Toscanini e da Mahler
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martedì 25 maggio 2010

Amori dimenticati, fedelmente raccontati

Dopo aver studiato diritto a Padova, a quindici anni Giacomo Casanova (1725-1798) ricevette gli ordini minori dalle mani del patriarca di Venezia. Ora portava la tonaca, e anche la tonsura, che lo facevano riconoscere per chierico. La gente vedeva già in lui un sacerdote, sua nonna persino un apostolo! Era fiera del nipote, che con la sua vocazione spirituale assicurava a se stesso e all’intera famiglia la salvezza dell’anima.
Il giovane chierico deve tenere la sua prima predica nelle chiesa di San Samuele. Tema prescelto, alcuni versi di Orazio, ma il curato Tosello non approva la proposta: la chiesa non è luogo per poeti pagani. Presto però si presenta al giovane una nuova occasione per farsi valere come predicatore: il 19 marzo 1741, alle quattro del pomeriggio, salirà sul pulpito per tenere la predica festiva in onore di San Giuseppe, il casto sposo della Vergine Maria. Casanova prepara la predica e la impara a memoria, ripetendola la sera prima di andare a letto e la mattina appena sveglio. Non ha problemi con la memoria, lo si è già visto a scuola.
Ma proprio il giorno della festa di San Giuseppe viene inviato a pranzo dal conte di Monreale. Il pranzo è buono e altrettanto il vino. Casanova sta per dimenticare la predica. Un messo viene a prenderlo, e Casanova giunge in chiesa appena in tempo.
Ecco che il giovane chierico si trova sul pulpito, appesantito dal pranzo e dal vino, davanti ai volti della parrocchia riunita. Riesce a dire appena l’esordio, poi perde il filo, si inceppa. I fedeli bisbigliano, trattenendo a stento le risate. A questo punto Casanova si fa prendere dal panico, perde la testa e dimentica la predica appresa così faticosamente a memoria. Evita l’imbarazzo con uno svenimento, mezzo vero e mezzo simulato, e stramazza sul pulpito. Viene portato privo di sensi in sagrestia. Il disastro è completo e Casanova, cui l’oblio fu così fatale, prende una decisione definitiva: “Ebbi la forza di persistere nella decisione di non saggiare più quel mestiere”.
La via è libera alla vocazione erotica di Casanova.
Anch’essa inizia con il curato Tosello o, per meglio dire, con sua nipote Angela. Giacomo ama Angela, Angela ama Giacomo ed è anche disposta a diventare sua moglie, ma fino a quel momento sorveglia “come un drago” la sua virtù e non concede all’amante il benché minimo favore. L’”avarizia” di Angela finisce per sconvolgere l’amante, la sua astinenza lo prosciuga. L’amore diventa un tormento, deve dimenticare “per qualche tempo i rigori della crudele Angela”.
Lo aiuta in questo un soggiorno in campagna.
Di ritorno a Venezia si riaccende in lui la passione temporaneamente sopita per Angela. Casanova ricomincia ad incalzarla con le sue voglie, ma la donna rimane risoluta. Casanova lascia furioso la città e torna a Padova per laurearsi, ma soprattutto per dimenticarla. Il titolo universitario non basterà allo scopo, ma a dimenticare lo aiuteranno in modo molto più efficace, al suo ritorno a Venezia, la sedicenne Nanette e la quattordicenne Marton. La notte è abbastanza lunga per divertirsi sotto le coperte con le due compagne, per fargli provare un piacere di cui godeva per la prima volta in vita sua, e per dimenticare “definitivamente” Angela: “J’oublie Angéla”.

Tutto questo lo veniamo a sapere dalla sua autobiografia, scritta in francese e pubblicata in edizione postuma con titolo Histoire de ma vie (1825), che egli terminò nel 1797, a settantadue anni, nel castello boemo di Dux. Una delle caratteristiche e dei paradossi più affascinanti di queste ‘confessioni’ è che Casanova si ricorda anche, e con la massima precisione, delle circostanze del vari oblii.
Per poter scrivere questi ricordi, da vecchio, lontano dagli affari mondani, Casanova rafforzò per tutta la vita la memoria (che una sola volta, come s’è visto, l’aveva piantato in asso) con note e molte lettere da lui scritte o ricevute. In questo modo potè ricordarsi delle innumerevoli donne da lui amate nel corso della vita, anche se non si vantò mai del numero delle sue avventure amorose. Casanova non è Don Giovanni, e non trae piacere dalle conquiste in sé, ma tutte le donne, a cui a fatto instancabilmente la corte, le ha amate, una dopo l’altra.
E’ vero che in ognuna delle nuove avventure amorose, Casanova cerca sempre nuovi piaceri dei sensi, ma ad eccitarlo non è ciò che in questo gioco si ripete sempre uguale, bensì ciò che ogni volta soddisfa la sua curiosità in modo diverso. Un bibliofilo come Casanova vuol leggere ogni donna come un libro, e questo significa che, come il lettore, prima di aprire un nuovo libro, deve chiuderne un altro. Così tra due amori, come tra due letture, si trova una cesura che nel linguaggio erotico di Casanova è chiamato oblio, e tuttavia un tipo di oblio che non esclude più tardi il ricordo.


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venerdì 21 maggio 2010

Lettera di Cassiodoro ai Veneziani

"Voi che al margine del suo territorio possedete un gran numero di navi, provvedete con uguale devota grazia a fare in modo di portare con tutta celerità il carico che la provincia è pronta a consegnarvi. Il ringraziamento per la realizzazione sarà pari verso ambedue, dal momento che una parte separata dall' altra non permette che vada a compimento l'impresa. Siate perciò pieni di sollecitudine per questo trasporto nelle vicinanze, voi che spesso attraversate spazi di mare infiniti. In un certo senso voi andate a far visita ai vostri conoscenti, poiché navigate in terra patria. C'è ancora a vostro favore, che avete aperta anche un'altra strada sempre tranquilla e sicura. Infatti quando il mare è chiuso alla navigazione per l'imperversare dei venti, si dischiude davanti a voi l'itinerario attraverso incantevoli canali. Le vostre navi non temono gli aspri venti: toccano terra con somma allegrezza e non sanno che cosa sia fare naufragio, poiché spesso approdano a terra. Da lontano sembrano camminare sui prati, quando accade di non vedere il corso del canale, avanzano tirate da corde, le quali di solito servono a tenerle ferme e, capovolte le condizioni, la ciurma aiuta le proprie navi con i piedi: senza sforzo trascinano le loro portatrici e, invece delle pavide vele, adoperano il passo dei marinai, che è più sicuro.
Ci piace parlarvi di come abbiamo visto l'ubicazione delle vostre case. Le Venezie una volta famose, piene di nobile gente, a meridione raggiungono Ravenna e il Po, ad oriente si deliziano della bellezza del litorale ionico: qui l'alternarsi delle maree ora copre, ora lascia in secco la superficie dei campi con una reciproca inondazione di acqua o di asciutto. Qui voi, alla maniera degli uccelli acquatici, avete la vostra casa. Infatti una persona ora si vede stare sulla terraferma, ora su un'isola, così che ben più a ragione credi che le Cicladi si trovino là, dove osservi che l'aspetto dei luoghi cambia repentinamente. A somiglianza di quelle isole le case appaiono sparse in mezzo ad ampi tratti di mare: e non le ha prodotte la natura, ma le ha create il lavoro umano. Infatti all'intreccio dei vimini flessibili si aggiunge la solidità della terra e non si teme affatto di opporre alle onde marine una difesa tanto fragile: si fa così perché il litorale basso non può scagliare a terra grandi onde, e queste vengono senza forza non avendo l'aiuto della profondità.
Un'unica risorsa hanno gli abitanti, quella di mangiare solo pesci a sazietà. Ivi poveri e ricchi vivono allo stesso modo. Un solo cibo sostenta tutti, uno stesso tipo di abitazione rinserra ogni cosa, non conoscono l'invidia riguardante le case e, vivendo con questo tenore, stanno fuori del vizio, al quale, come si sa, tutto il mondo soggiace. Tutto il loro sforzo è rivolto alla produzione del sale: invece di aratri e di falci fate rotolare dei rulli: di qui viene ogni vostro provento, dal momento che possedete in essi anche gli altri generi che non producete; in un certo qual senso li si conia la moneta per il proprio sostentamento. Ogni onda sottostà al vostro trattamento. E' possibile che qualcuno non vada in cerca d'oro, ma invece non ce n'è uno che non desideri trovare il sale, e giustamente dal momento che ad esso ogni cibo deve il potere di essere graditissimo.
Perciò con cura diligente mettete in sesto le navi, che legate alle vostre pareti, come fossero animali, affinché, quando Lorenzo, uomo di grandissima esperienza, incaricato di procurare le derrate, si metterà a chiedervele, vi affrettiate a correre per non ritardare con alcuna difficoltà a portarci gli acquisti a noi necessari, tanto più che potete scegliere, secondo le condizioni del tempo, il tragitto che vi è più vantaggioso"

Cassiodoro, Senatore e Prefetto del re Vitige, anno 537 d.C.
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giovedì 20 maggio 2010

Allarme a Torcello, campanile a rischio crollo: chiuso d'urgenza

Il Patriarcato: «Restauro previsto da tempo ma sempre
rimandato per mancanza di fondi. Qui tutto cade a pezzi»

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martedì 18 maggio 2010

Intervista a Walter Fano

Ma Venezia ti chiamava...
Esatto, è proprio andata così. Era da qualche parte nel mio cuore, nella mia anima, inevitabilmente sono finito lì, non poteva andare altrimenti.

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A cura di S. Venturelli
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domenica 9 maggio 2010

Santa Lucia a Venezia

La realizzazione della stazione ferroviaria a Venezia determinò profonde e radicali modifiche che trasformarono l'aspetto dell'ultimo tratto di Canal Grande sia dal punto di vista urbanistico che architettonico.
Il complesso degli edifici allora esistenti fu abbattuto per far posto alla stazione ferroviaria vera e propria e a tutte le attrezzature connesse al nuovo servizio. Scomparvero così non solo la chiesa di Santa Lucia con il suo monastero, ma l'intero quartiere composto dalle case e dai palazzi, edificati in gran parte tra il XV e il XVIII secolo, che prospettavano la fondamenta o le strette calli interne fino a raggiungere la zona retrostante, ancora tenuta ad orti, e l'ultimo, opposto lembo lagunare.
Nel 1846 il ponte ferroviario translagunare era completato e immetteva in città attraverso un'area di raccordo ottenuta in parte con interramenti. Nel 1858 le due rive del Canal Grande venivano collegate da un ponte di ferro.
Il piccone demolitore che distrusse un'intera area abitata cancellandone le testimonianze storiche, sociali e artistiche, si arrestò, nel primi tempi di attività della stazione, alle spalle della Chiesa di Santa Lucia, la cui zona retrostante divenne punto di arrivo e di parcheggio di locomotori e vagoni. Era comunque evidente l'intenzione di acquisire uno sbocco sul Canal Grande.
Tra il 1860 e il 1861 vennero infatti abbattute oltre alla Chiesa le superstiti costruzioni sulla fondamenta, per far posto all'edificio della Stazione passeggeri, secondo una soluzione urbanistica tra le più ovvie e meno intelligenti.

Fonti storicamente attendibili pongono alla fine del XII secolo la costruzione della prima chiesa. Nel 1280, proveniente da San Giorgio Maggiore, dove si trovava fin dall'inizio del secolo, fu traslato il corpo della martire siracusana Lucia, da cui la chiesa prese il nome.
La fabbrica venne ufficialmente consacrata nel 1343. Alla fine del XV secolo presentava forme gotiche, stilisticamente e volumetricamente molto simili a quelle di San Gregorio alla Salute.
Gli edifici del monastero si sviluppavano lungo il fianco sinistro della chiesa e si intestavano verso il Canal Grande in leggero arretramento rispetto al filo degli altri edifici.
Nel 1565 si ha notizia di un  nuovo intervento riferito all'edificazione di una grande cappella per conto di Leonardo Mocenigo che ne aveva affidato il progetto al Palladio. I lavori non ebbero tuttavia facile corso, è anzi probabile che iniziassero dopo la morte dell'artista (1580), poiché l'opera ebbe termine soltanto nel 1589.
L'antica struttura gotica andò così gradualmente sostituita da una nuova, composta secondo il diverso disegno cinquecentesco, in sostanza si può ritenere che l'intervento, limitato all'inizio soltanto alla cappella Mocenigo, si sia esteso a tutto l'edificio gotico, assumendo il carattere di una vera e propria ricostruzione.
La nuova chiesa ebbe così non solo diversa definizione architettonica e stilistica, ma rispose ad un più moderno criterio di funzione con la facciata rivolta al Canal Grande per l'avvenuta inversione dell'orientamento originario.
La nuova chiesa fu consacrata nel 1617.
Nel 1805 il convento fu soppresso e destinato a sede di una scuola per ragazza povere; stessa sorte subì la chiesa che ebbe fin dalle origini titolo parrocchiale.
Con l'abbattimento della Chiesa il corpo di Santa Lucia venne traslato nella vicina chiesa di San Geremia.

Santa Lucia subì il martirio a Siracusa intorno al 304 durante le persecuzioni di Diocleziano. Di nobile famiglia si consacrò a Cristo; rinunciò al matrimonio e donò ogni suo bene ai poveri. Per questo fu denunciata dal fidanzato: venne imprigionata, torturata e decapitata.
Secondo la leggenda si sarebbe da sola rimessa gli occhi, cavati dai torturatori. Il suo culto si diffuse subito dopo la morte.
E' abitualmente rappresentata con gli occhi su un piatto, la palma del martirio o la spada, e viene invocata contro le malattie degli occhi. Il nome deriva dal latino e significa "luce"

Ogni anno il 13 dicembre a Venezia si va nella Chiesa di San Geremia, dietro l'altare, ci si mette in fila lungo la bara di cristallo, si prega accanto alla mummia della Santa. Fino agli anni '60 si poteva fissare Lucia direttamente nelle orbite cave. I veneziani e la Santa si scambiavano uno sguardo salutare: occhi eccessivi, traboccanti per la commozione, erano messi di fronte a occhi manchevoli, estirpati dal martirio. Era un toccasana spalancare le palpebre davanti alle occhiaie vuote di Lucia: le pupille dei veneziani lacrimavano, i cristallini intorbiditi dalla bellezza si lavavano, le retine peccatrici si purificavano. L'orrore dava l'assoluzione alla bellezza: non c'era nulla di macabro in tutto ciò. Purtroppo il Patriarca Albino Luciani, pastore d'anime dall'indole sensibile, qualche anno prima di diventare Papa Giovanni Paolo I e di rivelare alla cristianità tutta che Dio è la Mamma, ha disposto che la faccia della Santa venisse coperta con una maschera d'argento dai lineamenti aggraziati.

Fonti: Umberto Franzoi, Dina Di Stefano, Tiziano Scarpa

giovedì 6 maggio 2010

Guido Alberto Fano

Guido Alberto Fano nasce a Padova il 18 maggio 1875. Inizia gli studi musicali con Vittorio Orefice (noto maestro di canto e direttore di coro) e intraprende poi quelli pianistici sotto la guida di Cesare Pollini. Nel 1894 Giuseppe Martucci lo vuole suo allievo di pianoforte e composizione a Bologna. Nel 1896 si reca in Germania e Austria per una tournée concertistica e per conoscere la vita musicale di quei paesi, grazie a una borsa di studio ministeriale per perfezionamento all'estero ottenuta "per singolari meriti di composizione".
Nel 1897 consegue il Diploma di Maestro Compositore a pieni voti con lode presso il Liceo musicale di Bologna. L'anno seguente vince il Primo premio nel Concorso indetto dalla Società del Quartetto di Milano con la Sonata per pianoforte e violoncello. Viene nominato Direttore dell'Accedamia "Pierluigi da Palestrina" di Bologna per lo studio e la diffusione dell'arte corale antica italiana.

Nel 1899 ottiene la nomina di insegnante di pianoforte al Liceo Musicale di Bologna, e nel 1900 il diploma di organizzatore dei concerti spirituali per la Mostra di Arte Sacra San Francesco di Bologna. Ottiene inoltre una Menzione d'onore al "Concorso Internazionale Rubinstein per compositori" di Vienna, con l'Andante e Allegro con fuoco per pianoforte o orchestra, la Sonata per pianoforte e violoncello, le Quattro Fantasie per pianoforte solo.
Nel 1905 è nominato Direttore del Regio Conservatorio di Musica di Parma a seguito di concorso per titoli, unico vincitore su trentasei concorrenti per giudizio unanime dei commissari Toscanini, D'Arienzo, Falchi, Gallignani, Zuelli.
Fra il 1905 e il 1912 forma, promuove e incoraggia istituzioni di concerti e di varia cultura musicale, esegue concerti come pianista solista e di musica da camera, dirige concerti sinfonici.
Nel 1911 rifiuta la nomina a insegnante e virtuoso di pianoforte al "College of Music" di Cincinnati Ohio (U.S.A.). Nel 1912 viene nominato Direttore del Regio Conservatorio "San Pietro a Majella" di Napoli.
Nel 1916 riceve la nomina a Direttore del Regio Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo. Nel 1922 ottiene la nomina a Professore di pianoforte principale al regio Conservatorio "G. Verdi" di Milano.
Dal 1938 è rimosso dall'insegnamento a causa delle leggi razziali e dal 1943 al 1945 è costretto a fuggire e rifugiarsi a Fossombrone e Assisi.
Alla fine della guerra riprende il suo posto di insegnamento che lascia definitivamente nel 1947, anno in cui viene collocato a riposo.Muore il 14 agosto 1961 a Tauriano di Spilimbergo (Udine).

La sede dell'Archivio Musicale Guido Alberto Fano è in Calle del Tagiapiera 4674, nel sestiere di Cannaregio, a un passo dalla fermata di Ca' D'Oro. In un'elegante palazzina, al primo piano c'è la casa-museo di chi fra la fine dell' Ottocento e la prima metà del Novecento fu uno dei più significativi musicisti italiani. All'ingresso fa bella mostra di sé il pianoforte Bosendorfer su cui era solito comporre, in salotto, oltre a una biblioteca che raccoglie fra l'altro edizioni cinquecentesche, a partiture e a registrazioni, spiccano i ritratti ad olio del Maestro e della moglie, gli album fotografici, le reliquie di una vita piena, ricca di avvenimenti, di gioie e di dolori: i trionfi musicali, le persecuzioni razziali, gli esili, le incomprensioni...
Anima della neonata associazione è Vitale Fano, nipote di Guido Alberto e figlio di Fabio Fano: una dinastia di musicisti e di musicologhi, la sua, che lungo tutto il Novecento ha visto il nome dei Fano dividersi fra i conservatori di Venezia, Napoli, Palermo, Bologna, Milano, Parma.

martedì 4 maggio 2010

Le tabachine

Il nome della pianta del tabacco deriva dalla piccola isola delle Antille, Tobago; essa è citata in un erbario di Pier Antonio Michiel, stimato botanico della seconda metà del Cinquecento, che la ricevette in dono da Giacomo Contarini, provveditore dell'Armata Veneziana in Fiandra.
Il Michiel afferma che il tabacco era utile per le cancrene e per la peste, il caso volle che egli morisse di peste nel 1576!
Comunque il tabacco si cominciò a coltivare nel Veneto e ad usare solo nel 1600; la vendita era riservata ai soli spezier de fin, inizialmente sotto i portici delle Prigioni Nuove. Si usava soprattutto da fiuto, in quanto provocava una lieve irritazione al naso con conseguente starnuto liberatorio, utile, in particolare, per il ma di testa. L'uso si diffuse rapidamente e la Repubblica pensò di trarne un utile dando in appalto il monopolio del tabacco: il primo ad avere questo compito fu l'ebreo Daniel Davide Da Pisa. Lo spaccio pubblico era situato in Corte Gregolina, nei pressi della Madonna dell'Orto, poi fu trasferito alla Fondamenta delle Penitenti e quindi a S.Andrea.
La prima fabbrica di tabacco si aprì nel 1790, all'interno della Casa Granda di proprietà della famiglia Barbaro, lungo il Rio delle Burchielle: questo edificio, poi, diverrà il magazzino della più vasta fabbrica costruita in epoca austriaca. La Manifattura Tabacchi vide lavorare al suo interno centinaia di persone, per lo più donne che vivacizzavano con il loro passaggio la zona.
Stupenda l'immagine lasciata da Riccardo Selvatico nella sua poesia "Le tabachine":

Bate quatro e za scominzia
Nel silenzio de la strada
Fin alora indormenzada
A sentirse da lontan

Come un susio, che in distanza
Da principio xe confuso
Ma che ingrossa che vien suso
Co' una furia de uragan

La xe lore, za le ariva
Za le spunta, za in t'un lampo
Case, strada, ponte, campo
Tuto introna de bacan

Le xe lore, le ze tose
Le ga el viso fresco e tondo
Le vien via sfidando il mondo
Imbragae de zoventù

Zavatando per i ponti
Le vien zoso a quatro in riga
Par che a tutti le ghe ziga:
Largo, indrio, che semo nu!

Za la zente su le porte
Stà a vardar la baraonda
Che infuriando come un'onda
Urta, spenze e passa in là

Qua un vecieto scaturio
Va tirandose drio al muro
Là una vecia, più al sicuro
Varda e ride dal balcon

Ma le ariva e za le passa
El ze un refolo de vento
Za el fracasso in t'un momento
Va perdendose lontan

E la strada per un punto
Da quel ciasso desmissiada
Quieta, straca, abandonada
La se torna a indormenzar.


Fonte: Marina Crivellari Bizio