Già al tempo in cui E.M. Baroni scriveva (nel 1921)), con passione di veneziano e commozione d'artista, un libretto-elogio dello scialle veneziano, il bel costume caratteristico andava scomparendo dalle calli di Venezia:
"Ora, questo originale adornamento femminile, questo stupendo ed elegante capo del corredo della donna, accenna a scomparire. Le fanciulle veneziane, specie le più giovani, sembra quasi abbiano in disprezzo lo scialle, e si direbbe che il sogno più roseo di una gaia sartina o di una piccola operaia sia quello di poter indossare la camicetta e sfoggiare il cappello, in luogo di offrire all'ammirazione della folla le ben salde spalle ammantate di nero e al bacio del sole le folte e belle capellature bionde, brune, castane o tizianesche... Lo scialle sta per scomparire... Quel magnifico scialle decorativo dalle ampie pieghe artistiche, dalla foggia che carezza le forme e dava ad esse una seducente flessuosità, una insuperata morbidezza, ed abbelliva il corpo femminile di misteriosi fascini".
I lussuosi scialli adorni di fiori irreali, costituivano il mantello da sera preferito dalla belle ed eleganti dame veneziane. Ma fra tutti, il più semplice e insieme il più elegante, era pur sempre lo scialle nero, fine, adorno di pochi fiori di seta ricamati sul morbido tessuto all'origine delle lunghe, sottilissime frange.
Perché le donne veneziane abbandonarono quasi del tutto lo scialle?
Prima della guerra lo scialle si manteneva nell'uso generale delle popolane, perché la tradizione legava in certo qual modo il diritto di portare lo scialle (el fazuol, dei tempi antichi) all'onestà e alla rispettabilità delle dame, nei secoli passati el fazuol era infatti interdetto alle meretrici, e la proibizione era rimasta nelle consuetudini.
E venne la guerra. Migliaia di veneziane furono costrette a cercar rifugio in altre città d'Italia, e a rimaner profughe per anni. Trovandosi in ambienti nuovi, dove le donne non portavano lo scialle, le veneziane si adeguarono. E una volta tornate a Venezia, molte di esse non lo indossarono più.
Nel frattempo la svalutazione della lira indusse parecchie donne del popolo a inalberare il cappellino, per contro il prezzo notevolmente aumentato degli scialli, divenuto oggetto relativamente di lusso in confronto dei cappellini e delle blouses, dissuase molte altre donne dal mantenersi fedeli ad un costume che forse avrebbero voluto serbare.
Così in pochi anni di dopo guerra, il caratteristico costume muliebre veneziano scomparve quasi totalmente dalla calli veneziane.
Non sarà possibile far rivivere il graziosissimo costume che s'intona squisitamente con i capelli corti e le gonne succinte voluti dalla moda contemporanea?
La risposta è sì, grazie a Sabrina e Betty della Sartoria dei Dogi, che tra i tanti antichi capi riportati in vita, realizzano magnifici scialli ricamati a mano, in perfetto stile veneziano.
La Sartoria è una delle tappe del tour degli artigiani proposto da L'altra Venezia.
Per informazioni: info@laltravenezia.it
Fonte: "Lo scialle veneziano" di E.M.Baroni, edito da Filippi Editore Venezia
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mercoledì 4 settembre 2013
Lo scialle veneziano, un simbolo scomparso
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martedì 29 maggio 2012
Mercerie: le botteghe di Venezia
Le Mercerie a Venezia occupano quell'area strategicamente posta tra il centro politico-religioso di San Marco e quello commerciale-mercantile di Rialto. Per la loro importanza, già nel Duecento erano pavimentate in cotto.
Lungo le Mercerie di San Salvador avevano bottega i principali editori musicali e liutai: i Gardano all'insegna "del Leone e dell'Orso", il liutaio Sigismondo Mahler, i Tieffenbrucker all'insegna "dell'Aquila nera", Francesco Bonafin, costruttore di clavicembali, Giorgio Sellas all'insegna "alla Stella" famoso per le sue chitarre, Luigi Hoffer costruttore di fortepiani.
La vita lungo le Mercerie fu sempre molto attiva: su di esse affacciavano numerosi negozi e costantemente si svolgeva un andirivieni di prodotti d'ogni tipo, da cui il detto "far marsaria" per indicare un trasloco.
La Merceria San Salvador prende il nome dall'omonima chiesa posta all'inizio della strada, verso il Canal Grande, la cui facciata principale volge verso il campo, mentre l'ingresso laterale si trova lungo la calle, tramite un sotoportego che attraversa il blocco edilizio di proprietà del Capitolo della Chiesa. Questo giustifica l'altezza delle case in questa zona: più erano numerosi gli appartamenti e maggiori erano le entrate per il clero! Gli stessi monaci di San Salvador scrissero nel 1507: "da queste case trazemo non mediocre utilità".
Poco più avanti prospetta la Calle degli Stagneri. Gli stagneri erano artigiani che lavoravano lo stagno con una tale abilità da farlo sembrare argento. Nacque il detto "xè passà per la cale degli stagneri", usato quando si dubitava dell'autenticità di un oggetto prezioso.
Lungo le Mercerie del Capitello si trova invece la Calle de le Balote. Qui esisteva la fabbrica delle speciali palline destinate alle votazioni delle magistrature veneziane e alla elezione del doge. Inizialmente fabbricate in cera e poi in tela di lino pressata, queste "balote" sono all'origine del termine "ballottaggio" usato ancora oggi per le votazioni.
Lungo le Mercerie di San Salvador avevano bottega i principali editori musicali e liutai: i Gardano all'insegna "del Leone e dell'Orso", il liutaio Sigismondo Mahler, i Tieffenbrucker all'insegna "dell'Aquila nera", Francesco Bonafin, costruttore di clavicembali, Giorgio Sellas all'insegna "alla Stella" famoso per le sue chitarre, Luigi Hoffer costruttore di fortepiani.
La vita lungo le Mercerie fu sempre molto attiva: su di esse affacciavano numerosi negozi e costantemente si svolgeva un andirivieni di prodotti d'ogni tipo, da cui il detto "far marsaria" per indicare un trasloco.
La Merceria San Salvador prende il nome dall'omonima chiesa posta all'inizio della strada, verso il Canal Grande, la cui facciata principale volge verso il campo, mentre l'ingresso laterale si trova lungo la calle, tramite un sotoportego che attraversa il blocco edilizio di proprietà del Capitolo della Chiesa. Questo giustifica l'altezza delle case in questa zona: più erano numerosi gli appartamenti e maggiori erano le entrate per il clero! Gli stessi monaci di San Salvador scrissero nel 1507: "da queste case trazemo non mediocre utilità".
Poco più avanti prospetta la Calle degli Stagneri. Gli stagneri erano artigiani che lavoravano lo stagno con una tale abilità da farlo sembrare argento. Nacque il detto "xè passà per la cale degli stagneri", usato quando si dubitava dell'autenticità di un oggetto prezioso.
Lungo le Mercerie del Capitello si trova invece la Calle de le Balote. Qui esisteva la fabbrica delle speciali palline destinate alle votazioni delle magistrature veneziane e alla elezione del doge. Inizialmente fabbricate in cera e poi in tela di lino pressata, queste "balote" sono all'origine del termine "ballottaggio" usato ancora oggi per le votazioni.
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lunedì 16 aprile 2012
Candele a Venezia
A due passi dall'Oratorio dei Crociferi si trova la piccola Corte delle Candele, con una vera da pozzo trecentesca in marmo rosa di Verona, dove compare lo stemma della famiglia Zen, il cui palazzo si affaccia sul vicino rio di Santa Caterina.
Qui infatti esisteva una fabbrica di candele, molto usate dai veneziani, in particolare per le funzioni religiose, ma anche esportate all'estero. Gli artigiani veneziani importavano la cera vergine dall'Oriente e dalla Moldavia. Grazie al clima la si poteva lavorare senza che la polvere la rovinasse. Tra il 1400 e il 1500 si contavano ventiquattro fabbriche in città, ma nel Seicento la produzione cominciò a diminuire e nel Settecento fu vera crisi a causa della grande cereria di Trieste, fornita di grossi capitali ed esente da dazi.
Come ricorda il Tassini, era famoso a Venezia, nel Settecento, un certo Gian Battista Talamini, proprietario di una spezieria a Rialto all'insegna "della Fonte", il quale, precorrendo i tempi, riuscì per primo a colorare e lavorare la cera, dandole le forme più varie: piante, fiori, frutta, animali e rendendola tanto dura che sottoforma di tazze, bicchieri e vasi poteva reggere qualsiasi liquido.
La cera veniva anche usata per realizzare maschere mortuarie o veri e propri ritratti di persone a grandezza naturale. A tal riguardo è in corso a Venezia una mostra titolata "Avere una bella cera" presso Palazzo Fortuny.
Qui infatti esisteva una fabbrica di candele, molto usate dai veneziani, in particolare per le funzioni religiose, ma anche esportate all'estero. Gli artigiani veneziani importavano la cera vergine dall'Oriente e dalla Moldavia. Grazie al clima la si poteva lavorare senza che la polvere la rovinasse. Tra il 1400 e il 1500 si contavano ventiquattro fabbriche in città, ma nel Seicento la produzione cominciò a diminuire e nel Settecento fu vera crisi a causa della grande cereria di Trieste, fornita di grossi capitali ed esente da dazi.
Come ricorda il Tassini, era famoso a Venezia, nel Settecento, un certo Gian Battista Talamini, proprietario di una spezieria a Rialto all'insegna "della Fonte", il quale, precorrendo i tempi, riuscì per primo a colorare e lavorare la cera, dandole le forme più varie: piante, fiori, frutta, animali e rendendola tanto dura che sottoforma di tazze, bicchieri e vasi poteva reggere qualsiasi liquido.
La cera veniva anche usata per realizzare maschere mortuarie o veri e propri ritratti di persone a grandezza naturale. A tal riguardo è in corso a Venezia una mostra titolata "Avere una bella cera" presso Palazzo Fortuny.
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giovedì 5 aprile 2012
Scuola d'Arte dei Botteri a Venezia
La Corporazione dei fabbricatori di botti a Venezia si costituì nel 1271 e non conobbe mai periodi di crisi, in quanto tutti i liquidi erano trasportati e conservati nelle botti.
Le botti si costruivano posizionando le doghe all'interno di un cerchio guida, posto a metà altezza; finita la struttura di base si poneva all'interno uno scaldino per curvare più facilmente il legno. Poi si realizzavano i fondi e ogni maestro doveva porre il proprio marchio sul cocchiume (foro con tappo posto sulla doga di massimo diametro) della botte. Ogni maestro non poteva possedere più di 1500 doghe.
Le doghe in rovere, fin dal 1278, dovevano essere acquistate esclusivamente sulle rive tra il Ponte di Rialto e il traghetto di Santa Sofia, mentre quelle di abete si acquistavano in Barbaria delle Tole e a San Basilio; le botti invece erano vendute a Rialto e a San Marco nel giorno di sabato.
Era proibito lavorare di notte e tenere il legname vicino ai camini per timore degli incendi. Per far parte dell'arte era richiesta l'età minima di 17 anni, e per diventare Gastaldo almeno 35. Il Gastaldo, massimo responsabile della Confraternita, non poteva assentarsi da Venezia per più di 15 giorni consecutivi, pena la perdita della carica e di un anno di paga, inoltre doveva provvedere alla riparazione di tutte le botti di Palazzo Ducale gratuitamente; il doge in cambio forniva il cibo e i cerchi per le botti.
Le botti si costruivano posizionando le doghe all'interno di un cerchio guida, posto a metà altezza; finita la struttura di base si poneva all'interno uno scaldino per curvare più facilmente il legno. Poi si realizzavano i fondi e ogni maestro doveva porre il proprio marchio sul cocchiume (foro con tappo posto sulla doga di massimo diametro) della botte. Ogni maestro non poteva possedere più di 1500 doghe.
Le doghe in rovere, fin dal 1278, dovevano essere acquistate esclusivamente sulle rive tra il Ponte di Rialto e il traghetto di Santa Sofia, mentre quelle di abete si acquistavano in Barbaria delle Tole e a San Basilio; le botti invece erano vendute a Rialto e a San Marco nel giorno di sabato.
Era proibito lavorare di notte e tenere il legname vicino ai camini per timore degli incendi. Per far parte dell'arte era richiesta l'età minima di 17 anni, e per diventare Gastaldo almeno 35. Il Gastaldo, massimo responsabile della Confraternita, non poteva assentarsi da Venezia per più di 15 giorni consecutivi, pena la perdita della carica e di un anno di paga, inoltre doveva provvedere alla riparazione di tutte le botti di Palazzo Ducale gratuitamente; il doge in cambio forniva il cibo e i cerchi per le botti.
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martedì 7 febbraio 2012
Campo dei Mori a Venezia
Il Campo dei Mori si trova a Cannaregio, nei pressi della Chiesa della Madonna dell'Orto. Si chiama così per via della presenza di quattro statue trecentesche in pietra d'Istria inserite nei muri delle case che circondano il Campo. Le statue rappresentano i fratelli Mastelli, venuti dalla Grecia per commerciare in spezie, i quali abitavano nel vicino palazzo affacciato sul rio della Madonna dell'Orto. Per l'esattezza questi mercanti venivano dalla Morea (toponimo veneziano per indicare il Peloponneso) e per questo venivano chiamati Mori, per via quindi della loro provenienza e non per il colore della pelle.
E' importante ricordare che Venezia cercò sempre di inserire le comunità straniere nella vita produttiva cittadina, lasciando loro libertà d'iniziativa e possibilità di lavoro con conseguente uguaglianza amministrativa e giuridica con la popolazione locale; questo comportava una minore probabilità di nascita di piccole entità politiche o sociale, autonomamente gestite.
Le abitazioni, le costruzioni per le attività produttive e per il culto usate dalle diverse colonie straniere, risultavano sparse in varie zone della città e inserite nel tessuto urbano senza confini precisi (a parte alcune rare eccezioni). Lo stabilirsi di popolazioni straniere, con carattere stabile o temporaneo, fu determinato soprattutto dall'afflusso di mercanti e artigiani che trovavano utile e conveniente stabilire a Venezia, oltre al proprio domicilio, anche la sede della loro azienda o almeno il laboratorio di produzione.
E' importante ricordare che Venezia cercò sempre di inserire le comunità straniere nella vita produttiva cittadina, lasciando loro libertà d'iniziativa e possibilità di lavoro con conseguente uguaglianza amministrativa e giuridica con la popolazione locale; questo comportava una minore probabilità di nascita di piccole entità politiche o sociale, autonomamente gestite.
Le abitazioni, le costruzioni per le attività produttive e per il culto usate dalle diverse colonie straniere, risultavano sparse in varie zone della città e inserite nel tessuto urbano senza confini precisi (a parte alcune rare eccezioni). Lo stabilirsi di popolazioni straniere, con carattere stabile o temporaneo, fu determinato soprattutto dall'afflusso di mercanti e artigiani che trovavano utile e conveniente stabilire a Venezia, oltre al proprio domicilio, anche la sede della loro azienda o almeno il laboratorio di produzione.
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lunedì 19 settembre 2011
Gli Squeri di Venezia
Gli squeri erano i cantieri per le barche, spazi più o meno grandi prospicienti un canale e degradanti verso l'acqua per poter agevolmente tirare in secco le imbarcazioni. Spesso hanno delle costruzioni alle spalle per poter lavorare al riparo dalle intemperie. Servono per la costruzione di barche di tutti i generi, comprese le gondole, ma anche per le loro riparazioni. Gli artigiani che vi lavorano vengono chiamati squeraròli, o maestri d'ascia, e provengono dalla categoria dei marangoni (falegnami).
L'esistenza degli squeri e dell'Arte degli Squeraroli era di fondamentale importanza per la Serenissima, in quanto lo sviluppo e la vita stessa della città dipendevano dall'acqua e dai suoi trasporti. La sede della loro Scuola era a San Trovaso, sotto la protezione di Santa Elisabetta, e proprio a San Trovaso esiste ancora un caratteristico squero per le gondole, meta di pittori, poeti e scrittori per il fascino che emana. Qui il tempo sembra essersi fermato: gli strumenti di lavoro sono quasi gli stessi che si usavano un tempo e l'odore della pece aleggia tra le gondole adagiate su un fianco, vicino alla casa che sembra uscita da una cartolina di montagna.
Un tempo gli squeri erano moltissimi, ora ne sono rimasti pochissimi; ve ne sono alcuni di pubblici, dove i cittadini possono tirare a secco le proprie barche per piccole riparazioni; sono dei semplici scivoli sull'acqua, a cielo aperto, e chi li usa si deve arrangiare.
L'esistenza degli squeri e dell'Arte degli Squeraroli era di fondamentale importanza per la Serenissima, in quanto lo sviluppo e la vita stessa della città dipendevano dall'acqua e dai suoi trasporti. La sede della loro Scuola era a San Trovaso, sotto la protezione di Santa Elisabetta, e proprio a San Trovaso esiste ancora un caratteristico squero per le gondole, meta di pittori, poeti e scrittori per il fascino che emana. Qui il tempo sembra essersi fermato: gli strumenti di lavoro sono quasi gli stessi che si usavano un tempo e l'odore della pece aleggia tra le gondole adagiate su un fianco, vicino alla casa che sembra uscita da una cartolina di montagna.
Un tempo gli squeri erano moltissimi, ora ne sono rimasti pochissimi; ve ne sono alcuni di pubblici, dove i cittadini possono tirare a secco le proprie barche per piccole riparazioni; sono dei semplici scivoli sull'acqua, a cielo aperto, e chi li usa si deve arrangiare.
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