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lunedì 7 marzo 2016

Il Doge Andrea Gritti e il rinnovamento politico culturale veneziano.

Nel 1523 viene eletto doge Andrea Gritti. Questa data segna l’inizio di un breve, ma estremamente significativo periodo di riforme per la città di Venezia ed il suo territorio.
Il nuovo Doge, l’eroe di Padova e della riconquista dei territori veneziani ai tempi della lega di Cambrai, apre un’importante stagione di cambiamenti nell’amministrazione della Serenissima, che investe moltissimi settori dello stato.
Dal punto di vista economico, si registra una serie di riforme mirate alla razionalizzazione amministrativa ed affiancate da un’innovativa riorganizzazione del credito bancario. Nel 1526, con il divieto agli uffici pubblici di accettare qualsiasi divisa straniera, si attua un’unificazione monetaria all’interno dei territori veneti, dove precedentemente, le città soggette alla Serenissima utilizzavano ancora conii locali.
Due le importanti novità in campo economico introdotte nel 1528: la prima consiste nell’utilizzo, per la prima volta nella storia, della partita doppia nell’amministrazione pubblica: efficacissimo contributo di natura pratica suggerito dal grande matematico italiano amico di Leonardo da Vinci, Luca Pacioli.
Il secondo, innovativo provvedimento del 1528 vede la Zecca dello stato veneziano cambiare intimamente la sua natura e funzione. Da cassa di deposito dei prestiti obbligatori allo stato, legati alla decima e al catasto, è trasformata in banca di stato nella quale chiunque, anche forestiero, può effettuare depositi ad interesse, in cambio di ricevute trasferibili.
Un altro settore statale, oggetto di tentativi riformistici interessanti per quanto destinati all’insuccesso, è quello del diritto, nella cosiddetta “renovatio legis”
Già all’inizio del suo dogado il Gritti è fortemente orientato alla riforma del sistema giuridico veneziano; di antica fondazione e basato per lo più sull’arbitrio dei magistrati, la cui libertà interpretativa delle leggi è estremamente ampia. L’idea è quella di una riforma radicale dello Statuto, per una maggior razionalizzazione del sistema giudiziario, ad un tempo troppo poco rigoroso e mal codificato. È significativo che, nonostante la revisione giudiziaria sia tentata dal Gritti per l’intero corso del suo dogado, essa non vedrà mai una realizzazione. La resistenza della nobiltà veneziana a questa, come ad altre riforme è di natura conservatrice.
Da una parte infatti la nuova codificazione avrebbe reso il giudice un “tecnico del diritto”: si sarebbe in qualche modo negata la peculiarità del patriziato veneziano, che tradizionalmente ricopriva, per brevi periodi, le più diverse cariche pubbliche. Dall’altra, è ipotizzabile che la riforma del diritto mirasse a un rafforzamento dell’oligarchia, in linea con l’orientamento del Gritti, cosa anch’essa temuta dalla media e piccola nobiltà.
Questa opposizione era immagine di quel conflitto sotterraneo tra “Vecchio Mondo” e “Nuovo Mondo” che sarà elemento costante di tutto il dogado grittiano.
Un altro aspetto cruciale, per quanto riguarda le novità introdotte nell’‘era grittiana’, è la ‘renovatio rei militaris’, affidata dal Gritti al Capitano generale della Serenissima, Francesco Maria della Rovere, amico personale del Doge.
A pochi anni dalle ombre di Cambrai, quando Gritti stesso, prima di essere investito della carica di Doge, aveva dovuto misurare sul campo i limiti dell’organizzazione militare veneziana sulla terraferma, era impossibile non rendersi conto della debolezza della Serenissima sui campi di battaglia. E anche in questo settore la ricetta dell’entourage grittiano è la stessa: rinnovamento, razionalità e innovazione tecnica volte ad una maggiore efficienza.
Il territorio della Serenissima viene allora interamente coinvolto in un progetto che lo trasforma in un unico organismo difensivo, nel quale ogni roccaforte, ogni città, ogni collina sono sfruttate o ripensate secondo le loro potenzialità strategiche intrinseche e in relazione con gli altri elementi della unificante “macchina difensiva”. Venezia, in modo machiavellico, trovatasi scoperta dalla “pelle del leone”, ormai troppo ristretta, sceglie di proteggere le parti più fortemente esposte cucendoci sopra la “pelle della volpe” dell’ingegno tecnologico.
Un’altro episodio estremamente interessante, per cogliere il clima culturale, oserei dire rivoluzionario, di questa breve ma significativa stagione veneziana, è la famosa vicenda di Vettor Fausto. Letterato umanista, il Fausto è il promotore di un progetto, presentato al Doge Gritti nel 1525, che mira a “...introdurre nell’Arsenale [...] scientia fondata su methodus e litterae”. In pratica egli propone al Doge un progetto di una quinquereme, ricostruita attraverso la compenetrazione tra lo studio filologico dei testi latini e la conoscenza dell’architettura navale. E anche in questo campo i sogni di innovazione tecnologica dei “grittiani” si scontrano con le resistenze di ampie porzioni del patriziato veneto, sempre spaventato dalla minaccia che degli “specialisti del settore” lo possano scalzare dal suo tradizionale controllo sulle istituzioni veneziane.
Tuttavia, diversamente da quello che sarà l’esito negativo delle riforme legislative, in questo caso il progetto di Vettor Fausto registra una serie di successi. In primo luogo, già nel 1526, nonostante le forti opposizioni, Vettor Fausto ottiene uno squero nell’Arsenale, dove costruire la quinquereme romana, che sarà varata nel 1529.
Il 23 maggio dello stesso anno ha luogo, di fronte alle rive di San Francesco della Vigna, il collaudo dell’imponente nave, che gareggia contro una più esile galera, vincendo la gara a dispetto del suo maggior dislocamento. Il Bembo, entusiasta, scrive che, grazie all’impresa di Vettor Fausto “non si potrà più dire a niun di loro [gli umanisti] come per addietro si solea: va e statti nello scrittoio e nelle tue lettere”.
Il Doge, vedendo la vittoria del “nuovo-antico” sul vecchio, scoppia addirittura in lacrime di gioia.
L’età grittiana è quindi estremamente carica di fermenti culturali. Nel contesto veneziano degli anni 20-30 del Cinquecento, il Rinascimento sembra così fare un salto di qualità significativo. Se prima infatti gli umanisti rinascimentali erano inclini ad un rapporto stretto con il potere, ma sempre da una posizione esterna ad esso, ora nella Serenissima comincia a delinearsi un diverso ruolo per l’uomo di scienza e di lettere. Egli sembra chiamato ad entrare all’interno del meccanismo del potere istituzionale, per poterlo razionalizzare, per rendere più rapidi ed efficaci i suoi meccanismi, per aggiungergliene di nuovi.
Persa la partita sul piano della forza, Venezia cerca di gettare le basi di una sua vittoria futura, attraverso la celebrazione del matrimonio tra sapere e potere, chiamando gli umanisti alla cura della cosa pubblica.
E poiché i matrimoni, per generare figli legittimi, devono essere pubblici, viene affidato al Sansovino il compito di tracciare il segno eloquente di questa unione. E nel 1537 iniziano quindi i lavori di costruzione della Biblioteca Marciana. Nella zona della città deputata alla gestione del potere, da esibire alle rappresentanze diplomatiche, in cui sono organizzati e si svolgono i riti civili e della patria. Per la prima volta una biblioteca di stato entra, e in una posizione di estremo rilievo, all’interno dell’autocelebrazione del potere. L’edificio, che custodirà i testi del Petrarca e la biblioteca platonica del Bessarione, è posto di fronte al Palazzo Ducale, nel cuore politico della città. 

(fonte: F. Merlo) 
 

mercoledì 6 marzo 2013

Caterina Corner Regina di Cipro

Fin dal Duecento i veneziani erano presenti a Cipro dove praticavano diversi commerci – l'isola infatti era ricca di vini pregiati e di zucchero (all’epoca prezioso quanto il sale).
Cipro raggiunse il massimo splendore sotto la stirpe dei Lusignano (famiglia di origini francesi) dal 1100 al 1400. La stabilità venne meno quando morì Giovanni II senza figli maschi: il regno passò alla figlia Carlotta che aveva sposato un Savoia, ma Giovanni II aveva anche un figlio illegittimo, Giacomo, che appoggiato dai Veneziani occupò l’isola con la forza ed esiliò Carlotta.
Giacomo si rivolse quindi a Venezia per cercare una sposa e in particolare alla famiglia Corner, la quale aveva forti legami commerciali con i Lusignano. Sull’isola risiedeva stabilmente Andrea Corner mentre suo fratello Marco teneva le relazioni con la piazza di Venezia. Marco aveva una figlia, Caterina, che divenne così, a soli 12 anni la promessa sposa di re Giacomo, sotto la pressione della Repubblica stessa che aveva tutti gli interessi a mantenere un piede nell’isola, e così al compimento del 18° anno Caterina partì per Cipro, con un corteo formato da 4 navi veneziane e 3 cipriote.
L’accoglienza riservata a Caterina a Cipro fu eccezionale, con grandi festeggiamenti e regali da parte del popolo, ma ben presto cominciarono i guai: Giacomo, molto più anziano di lei, aveva già tre figli avuti da tre donne diverse e la convivenza si rivelò difficile... Dopo solo un anno Caterina rimase incinta, ma prima che potesse partorire, Giacomo morì cadendo da cavallo, lasciando il regno nelle sue mani. Fu così che Caterina Corner divenne Regina di Cipro.
Il popolo però si dimostrò presto scontento per via della sua condotta di vita tutta concentrata sui propri piaceri, quasi dimentica del popolo cipriota. Le cose poi peggiorarono con la morte dello zio Andrea e del figlio che nel frattempo era nato. Subito si ripresentarono i Lusignano e i precedenti figli di Giacomo, tutti pretendevano al trono; Venezia dovette intervenire militarmente per sedare ogni pretesa e Caterina fu riconfermata sul trono affiancata da due Consiglieri veneziani.
Ma la Regina sola, triste e annoiata non trovò altro modo per consolarsi che concedersi  lussi ben al di là delle sue possibilità; e di nuovo il malcontento del popolo si fece sentire... fu così quindi che la Serenissima la convinse ad abdicare, promettendole in cambio un appannaggio di 8mila ducati annui e la consegna della villa di Asolo dove si ritirò circondata dal suo seguito e dalla fama per essere stata la prima e unica Regina figlia di Venezia.
Il suo ritorno a Venezia è all'origine di un celebre evento in città, ma questa è un'altra storia...

martedì 7 febbraio 2012

Campo dei Mori a Venezia

Il Campo dei Mori si trova a Cannaregio, nei pressi della Chiesa della Madonna dell'Orto. Si chiama così per via della presenza di quattro statue trecentesche in pietra d'Istria inserite nei muri delle case che circondano il Campo. Le statue rappresentano i fratelli Mastelli, venuti dalla Grecia per commerciare in spezie, i quali abitavano nel vicino palazzo affacciato sul rio della Madonna dell'Orto. Per l'esattezza questi mercanti venivano dalla Morea (toponimo veneziano per indicare il Peloponneso) e per questo venivano chiamati Mori, per via quindi della loro provenienza e non per il colore della pelle.

E' importante ricordare che Venezia cercò sempre di inserire le comunità straniere nella vita produttiva cittadina, lasciando loro libertà d'iniziativa e possibilità di lavoro con conseguente uguaglianza amministrativa e giuridica con la popolazione locale; questo comportava una minore probabilità di nascita di piccole entità politiche o sociale, autonomamente gestite.
Le abitazioni, le costruzioni per le attività produttive e per il culto usate dalle diverse colonie straniere, risultavano sparse in varie zone della città e inserite nel tessuto urbano senza confini precisi (a parte alcune rare eccezioni). Lo stabilirsi di popolazioni straniere, con carattere stabile  o temporaneo, fu determinato soprattutto dall'afflusso di mercanti e artigiani che trovavano utile e conveniente stabilire a Venezia, oltre al proprio domicilio, anche la sede della loro azienda o almeno il laboratorio di produzione.

lunedì 23 gennaio 2012

Pietro Orseolo II, Pericle di Venezia

Gli anni prima dell’anno Mille, erano anni difficili in Europa: anarchia feudale, guerre tra Impero e Papato, carestie e incertezza e in più nacque la psicosi del 1000 non più 1000. Ed è proprio in questo momento della storia che a Venezia visse il Doge Pietro Orseolo II, forse il più grande Doge della Repubblica, soprannominato il Pericle Veneziano. Era uomo ambizioso, ma soprattutto fu uomo del suo tempo, aveva capito quanto più forte fosse la parola rispetto alle armi, quando più valida fosse una politica basata sulle relazioni diplomatiche piuttosto che sulla guerra, e quanta importanza avesse per Venezia il dominio e la difesa dell’Adriatico. Direttive politiche che dopo di lui saranno poi quasi sempre seguite dai governi che si succederanno alla guida della Repubblica. Per nulla intimorito dalle profezie sull’anno Mille iniziò nel 991 a soli trent’anni il suo dogato e la sua saggia politica. Strinse accordi con l’Impero di Bisanzio ottenendo la Bolla d’oro che concedeva alti privilegi ai mercanti veneziani nei loro commerci con l’oriente. Strinse accordi anche con Ottone III  Imperatore d’Occidente e intrattenne buone relazioni con gli stati limitrofi italiani, stipulando con ognuno particolari trattati. Dimostrò poi di essere “uomo moderno” quando, superando le idee e gli scrupoli del suo secolo, concluse trattati persino con i saraceni. Assicurata la pace ed i commerci, Pietro Orseolo II emanò un provvedimento davvero in anticipo sui tempi: proibì di partecipare armati alle riunioni in Palazzo Ducale! Il Doge voleva dare più valore al procedimento legale che alla forza bruta, in tempi in cui praticamente tutti portavano armi. L’unico punto irrisolto della sua abile politica erano i pirati Narentani (slavi), ai quali Venezia, per evitare d’esser sempre con le armi in pugno e per assicurare i proprio commerci, pagava un tributo annuo. Orseolo decise di sospendere il tributo, scatenando l’ira dei Narentani, i veneziani allora misero a ferro e fuoco le spiagge dei pirati facendo numerosi prigionieri, la risposta dei Narentani fu immediata, scatenarono la loro rabbia sulle città dalmate, le quali erano provincia bizantina. Bisanzio però lasciava che le provincie più lontane si governassero da sole, e così nel momento del pericolo la Dalmazia si rivolse a Venezia per chiedere aiuto. E nel fatidico anno Mille, quando nel mondo doveva accadere l’irreparabile, Pietro Orseolo II iniziò la sua più famosa impresa: la liberazione delle città dalmate. Il 9 maggio, giorno dell’Ascensione, partì con tutta la flotta armata e in un solo mese liberò tutte le città dalmate, sconfisse i pirati e si spinse fino a Lagosta, sigillando così il dominio di Venezia sull’Adriatico. Tornato in patria l’Orseolo stabilì che da quell’anno in poi, nel giorno dell’Ascensione, il doge tornasse al Porto del Lido accompagnato del Vescovo di Castello e usciti in mare aperto  benedicessero le acque perché fossero loro propizie…

lunedì 21 novembre 2011

I meccanismi del governo della Repubblica Serenissima di Venezia

La forma di governo istituitasi a Venezia era una Repubblica oligarchica, giacché solo i nobili potevano accedere all'organo di potere più importante: il Maggior Consiglio. Uno Stato oligarchico è paragonabile ad un club, gestito per la soddisfazione ed il benessere di tutti i soci. A Venezia i "soci" erano appunto i patrizi, e il club doveva essere amministrato in modo da mantenere sempre un equilibrio fra i diversi interessi ed ambizioni esistenti in un gruppo di circa 200 famiglie, diverse per numero, censo e parentele, ed i cui membri, a loro volta, erano diversi per età, formazione e temperamento.
Questo equilibrio era essenziale, poiché gli stessi oligarchi, attraverso le strutture amministrative, dovevano garantire altri equilibri: quelli sociali della città, quelli dello Stato da Mar, quelli del Dominio di Terraferma e quelli internazionali. Dal Dogato all'ultima funzione amministrativa, tre erano i requisiti fondamentali: l'efficacia della funzione, l'impossibilità per il funzionario di creare un potere personale o ereditario, l'evitare conflitti tra le funzioni. Anche se Venezia non avesse fatto altro nei suoi dieci secoli d'indipendenza che elaborare la propria costituzione, sarebbe sufficiente ad immortalarne la fama.
Nei primi secoli vi furono tentativi di alcune famiglie nobili di rendere ereditario il Dogato o quanto meno di esercitare un certo controllo sul corpo elettorale. Sebbene nessuno di questi tentativi ebbe successo, già nel XI secolo si ebbero riforme costituzionali atte ad impedirli. Il doge Jacopo Tiepolo (1229-1249) elaborò la formula della "promissione", una sorta di contratto tra il Doge e il Maggior Consiglio che delimitava fortemente i poteri del primo.
Nel 1268 fu introdotto il definitivo sistema d'elezione del doge, che comportava ben dieci fasi: esclusi dai membri del Maggior Consiglio coloro che non avevano ancora compiuto trent'anni, fra i rimanenti si sceglievano 30 patrizi per ballottaggio in modo da non permettere che una famiglia avesse più di un rappresentante eleggibile. Con un secondo sorteggio venivano ridotti a 9, i quali ne eleggevano 40, ridotti per nuovo sorteggio a 12. Questi ne eleggevano 25, ridotti nuovamente a 9, che a loro volta ne eleggevano 45, su cui si sorteggiavano 11 i quali sceglievano i 41 elettori finali che procedevano all'elezione del Doge. Sistema complicato che testimonia quanta importanza si dava all'evitare la trasmissione ereditaria della funzione.
Direttamente in rapporto con il Doge erano i vari Consiglieri, i Procuratori, i Pregadi, i Savi e, indirettamente, una varietà di magistrati: Avogadori, Apontadori, Camerlenghi, Cassieri, Consoli, Governadori, Giudici, Masseri della Zecca, Officiali, Provveditori e Pagadori. Ogni corpo della Magistratura era poi suddiviso per responsabilità specifiche e per aree cittadine ed extra-cittadine. Alcune di queste cariche erano vitalizie, la più parte con limiti di tempo che variavano da sei mesi a due anni; alcuni erano stipendiati, altri no; alcuni dovevano avere un'età massima, altri un età minima.
Si aggiungano a queste magistrature: i Podestà, i Castellani, i Capitani del Dominio di Terraferma, i Capitani da Mar, i Baili e gli Ambasciatori, fiore della diplomazia europea. Un elenco preciso comporterebbe centinaia di voci, ma anche questo sguardo sintetico alla struttura amministrativa della Serenissima permette di valutarne la complessità e il gran numero di uomini capaci che la classe patrizia doveva produrre anno dopo anno.
Forse l'analogia migliore con il governo veneziano si trova nel libro 1984 di George Orwell: "L'essenza di un governo oligarchico non è la trasmissione del potere da padre in figlio, ma la continuità di una certa concezione del mondo e un certo modo di vivere imposto dai morti sui vivi. Un gruppo governante è tale in quanto abbia il potere di formare i propri successori. Chi detiene il potere non è importante a condizione che la struttura gerarchica non cambi".
Si spiega così perché è impossibile scrivere una storia della Serenissima riportando in ordine cronologico la storia individuale dei 120 Dogi.
A Venezia il potere era anonimo.

(Fonte: G. Villa)

domenica 29 agosto 2010

Venezia e le sue donne

Ci sono dei pregiudizi ancora abbastanza radicati sulla vita dei veneziani ai tempi della Repubblica. Sono pregiudizi che risalgono al 1818 quando apparve il libro di Pierre-Antoine Daru, Historie de la Rèpublique de Venise, che presenta il governo veneziano come regime bieco e tirannico. Niente di più falso.
Venezia fu il rifugio di perseguitati politici di altri stati, aveva una regolamentazione carceraria umana (cosa che ancora oggi non tutti gli stati hanno), e una politica sociale invidiabile. E la condizione femminile a Venezia appare unica per dignità e libertà, certamente ancora insufficiente ed inadeguata, ma di sicuro incomparabile con quella di altri stati in quella epoca.
Si legge nell'Editto di Rotari: "Se la moglie avrà ucciso il marito, sia uccisa, e i suoi beni siano assegnati ai parenti del marito, mentre se il marito avrà ucciso ingiustamente la moglie, paghi un risarcimento di 1200 scudi..." A Venezia viceversa abbiamo numerose sentenze di condanna per uxoricidio che prevedono la condanna a morte del marito. Anche nei casi di violenza carnale abbiamo numerose sentenze che vedono la donna in posizione vantaggiosa.
Nella civilissima Firenze la donna aveva meno possibilità che a Venezia di disporre dei propri beni in sede testamentaria. A Venezia la donna col divenire maggiorenne usciva dalla patria potestà (questo già a fine Trecento). A Venezia una donna poteva stipulare ogni tipo di atto: compravendite, locazioni, donazioni, prestiti.... Tutte possibilità impensabili altrove.
Questa ampia libertà ha permesso che a Venezia alcune donne si siano conquistate un posto nella storia: Elena Lucrezia Corner Piscopia, la prima donna laurerata nel mondo, Elisabetta Caminer Turra, considerata la prima redattrice letteraria in Europa, Rosalba Carriera, la prima pittrice donna a cui la società colta dell'epoca aprì le porte di corti reali e palazzi nobiliari, e Lucrezia Marinelli, prima femminista della storia, autrice del libro: Della nobiltà et eccellezza delle donne (1610).




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