Durante il Rinascimento gli europei hanno un rapporto quasi schizofrenico con l'impero ottomano, da un lato temuto come la minaccia più spaventosa e dall'altro rispettato, ammirato e da qualcuno anche desiderato come modello sociale/politico alternativo rispetto all'intollerante e guerresco Occidente.
Ma anche gli Ottomani hanno un rapporto schizofrenico nei confronti dell'Europa, dove si uniscono da un lato il fascino e il desiderio di apprendere la loro tecnologia, e dall'altro la repulsione, il senso di superiorità indotto dalla fede islamica verso quei barbari dei cristiani.
La fascinazione per l'Occidente è legata in gran parte alle tecnologie occidentali, perché molto presto ci si rende conto che, anche se l'impero è perfettamente in grado di affrontare i cristiani alla pari sul campo di battaglia e ha una cultura altrettanto complessa, tuttavia ci sono tanti aspetti in cui l'Occidente ha un margine di superiorità. Basta guardare gli acquisti dei sultani, delle loro famiglie, delle loro donne, gli acquisti dei gran visir e dei pascià: c'è tutta una serie di merci che nel Cinquecento e nel Seicento gli ottomani sono costretti a comprare in Occidente, perché nel loro impero non si producono. Sono commerci che non si interrompono mai, e proseguono con estrema disinvoltura anche in tempo di guerra. Sultani e gran visir ordinano a Venezia occhiali, carte geografiche, orologi, vetri, lampade. Le lampade per le grandi moschee di Costantinopoli sono comprate a Venezia, perché nessuno produce vetri come quelli che si fanno qui.
Ci sono anche consumi voluttuari che rendono i turchi dipendenti dall'Occidente: per esempio a Costantinopoli è di gran moda il formaggio parmigiano, che però a quell'epoca si chiamava "piacentino".
Quando la figlia del sultano Solimano, Mihrimah, decide di offrire un nuovo acquedotto per la Mecca, per dare da bere ai pellegrini, gli attrezzi per i lavori li deve ordinare in Occidente, perché nell'impero nessuno sa produrre acciaio di così buona qualità.
Succede perfino che quando sta per scoppiare la guerra tra Venezia e gli Ottomani (è la guerra che poi porterà alla battaglia di Lepanto), il comandante della flotta imperiale turca, il kapudan pascià, abbia la faccia tosta di andare dall'ambasciatore veneziano per comprare dei fanali dai mercanti veneziani da mettere sulla sua galera!
Del resto la flotta del sultano era fornita di cannoni fabbricati con la consulenza di tecnici occidentali.
L'impero ottomano compensava questa sua arretratezza tecnologica con altri punti di forza, culturali, sociali e politici, ma non c'è dubbio che abbiano sempre percepito il fatto che vi erano degli aspetti in cui i barbari occidentali, misteriosamente, per volere di Dio, avevano un margine di superiorità.
Un esempio straordinario di questa fascinazione contraddittoria, è rappresentato dalle arti figurative. La civiltà occidentale nel Medioevo e ancor più nel Rinascimento, punta moltissimo sulla pittura e sulle arti figurative in genere, sia sul piano comunicativo sia della conoscenza della realtà che ci circonda.
Il mondo islamico invece ha un rapporto molto più difficile con le arti figurative, perché in teoria, se si dovessero ascoltare i dettami della legge islamica, raffigurare degli esseri viventi è un atto di empietà: significa riprodurre qualcosa che Dio ha creato e di cui lui solo è il padrone. Per cui solo il miscredente cristiano può pensare di rappresentare Dio con la barba bianca e non rendersi conto che sta commettendo un atto vergognoso nei suoi confronti.
Tuttavia i turchi musulmani sanno benissimo che i barbari occidentali hanno inventato delle tecniche di pittura straordinarie, e ne sono affascinati.
Non è forse un caso che il sultano che più di tutti si è interessato alla pittura europea, sia proprio quello straordinario personaggio che è Maometto II il Conquistatore, il quale chiama a Costantinopoli (in questa città che lui sta trasformando di nuovo in una grande capitale mondiale) dei pittori rinascimentali, tra cui Gentile Bellini da Venezia, il quale esegue il suo ritratto.
Questo quadro esiste ancora oggi (o almeno la critica lo riconosce come tale) e rappresenta la fisionomia turca di Maometto II, con la sua barbetta a punta.
Alla morte del sultano, il successore Beyazit II, che è un pio musulmano, trova vergognosa la faccenda del ritratto e lo fa vendere al bazar.
Il quadro poi andrà perso e, dopo chissà quali peripezie, ritrovato (oggi si trova a Londra), ma quel che è certo è che a Costantinopoli non ne seguirà alcuna tradizione pittorica.
(fonte: A. Barbero)
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mercoledì 16 marzo 2016
Gentile Bellini alla corte dell'Impero Ottomano
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lunedì 7 marzo 2016
Il Doge Andrea Gritti e il rinnovamento politico culturale veneziano.
Nel
1523 viene eletto doge Andrea Gritti. Questa data segna l’inizio di
un breve, ma estremamente significativo periodo di riforme per la
città di Venezia ed il suo territorio.
Il
nuovo Doge, l’eroe di Padova e della riconquista dei territori
veneziani ai tempi della lega di Cambrai, apre un’importante stagione di cambiamenti nell’amministrazione della Serenissima, che
investe moltissimi settori dello stato.
Dal
punto di vista economico, si registra una serie di riforme mirate
alla razionalizzazione amministrativa ed affiancate da un’innovativa
riorganizzazione del credito bancario. Nel 1526, con il divieto agli
uffici pubblici di accettare qualsiasi divisa straniera, si attua
un’unificazione monetaria all’interno dei territori veneti, dove
precedentemente, le città soggette alla Serenissima utilizzavano
ancora conii locali.
Due
le importanti novità in campo economico introdotte nel 1528: la
prima consiste nell’utilizzo, per la prima volta nella storia,
della partita doppia nell’amministrazione pubblica: efficacissimo
contributo di natura pratica suggerito dal grande matematico italiano
amico di Leonardo da Vinci, Luca Pacioli.
Il
secondo, innovativo provvedimento del 1528 vede la Zecca dello stato
veneziano cambiare intimamente la sua natura e funzione. Da cassa di
deposito dei prestiti obbligatori allo stato, legati alla decima e al
catasto, è trasformata in banca di stato nella quale chiunque, anche
forestiero, può effettuare depositi ad interesse, in cambio di
ricevute trasferibili.
Un
altro settore statale, oggetto di tentativi riformistici interessanti
per quanto destinati all’insuccesso, è quello del diritto, nella
cosiddetta “renovatio
legis”
Già all’inizio
del suo dogado il Gritti è fortemente orientato alla riforma del
sistema giuridico veneziano; di antica fondazione e basato per lo più
sull’arbitrio dei magistrati, la cui libertà interpretativa delle
leggi è estremamente ampia. L’idea è quella di una riforma
radicale dello Statuto, per una maggior razionalizzazione del sistema
giudiziario, ad un tempo troppo poco rigoroso e mal codificato. È
significativo che, nonostante la revisione giudiziaria sia tentata
dal Gritti per l’intero corso del suo dogado, essa non vedrà mai
una realizzazione. La resistenza della nobiltà veneziana a questa,
come ad altre riforme è di natura conservatrice.
Da una parte infatti
la nuova codificazione avrebbe reso il giudice un “tecnico del
diritto”: si sarebbe in qualche modo negata la peculiarità del
patriziato veneziano, che tradizionalmente ricopriva, per brevi
periodi, le più diverse cariche pubbliche. Dall’altra, è
ipotizzabile che la riforma del diritto mirasse a un rafforzamento
dell’oligarchia, in linea con l’orientamento del Gritti, cosa
anch’essa temuta dalla media e piccola nobiltà.
Questa opposizione
era immagine di quel conflitto sotterraneo tra “Vecchio Mondo” e
“Nuovo Mondo” che sarà elemento costante di tutto il dogado
grittiano.
Un
altro aspetto cruciale, per quanto riguarda le novità introdotte
nell’‘era grittiana’, è la ‘renovatio
rei militaris’,
affidata dal Gritti al Capitano generale della Serenissima, Francesco
Maria della Rovere, amico personale del Doge.
A
pochi anni dalle ombre di Cambrai, quando Gritti stesso, prima di
essere investito della carica di Doge, aveva dovuto misurare sul
campo i limiti dell’organizzazione militare veneziana sulla
terraferma, era impossibile non rendersi conto della debolezza della
Serenissima sui campi di battaglia. E anche in questo settore la
ricetta dell’entourage
grittiano è la stessa: rinnovamento, razionalità e innovazione
tecnica volte ad una maggiore efficienza.
Il territorio della
Serenissima viene allora interamente coinvolto in un progetto che lo
trasforma in un unico organismo difensivo, nel quale ogni roccaforte,
ogni città, ogni collina sono sfruttate o ripensate secondo le loro
potenzialità strategiche intrinseche e in relazione con gli altri
elementi della unificante “macchina difensiva”. Venezia, in modo
machiavellico, trovatasi scoperta dalla “pelle del leone”, ormai
troppo ristretta, sceglie di proteggere le parti più fortemente
esposte cucendoci sopra la “pelle della volpe” dell’ingegno
tecnologico.
Un’altro
episodio estremamente interessante, per cogliere il clima culturale,
oserei dire rivoluzionario, di questa breve ma significativa stagione
veneziana, è la famosa vicenda di Vettor Fausto. Letterato umanista,
il Fausto è il promotore di un progetto, presentato al Doge Gritti
nel 1525, che mira a “...introdurre nell’Arsenale [...] scientia
fondata
su methodus
e litterae”.
In pratica egli propone al Doge un progetto di una quinquereme,
ricostruita attraverso la compenetrazione tra lo studio filologico
dei testi latini e la conoscenza dell’architettura navale. E anche
in questo campo i sogni di innovazione tecnologica dei “grittiani”
si scontrano con le resistenze di ampie porzioni del patriziato
veneto, sempre spaventato dalla minaccia che degli “specialisti del
settore” lo possano scalzare dal suo tradizionale controllo sulle
istituzioni veneziane.
Tuttavia,
diversamente da quello che sarà l’esito negativo delle riforme
legislative, in questo caso il progetto di Vettor Fausto registra una
serie di successi. In primo luogo, già nel 1526, nonostante le forti
opposizioni, Vettor Fausto ottiene uno
squero nell’Arsenale,
dove costruire la quinquereme romana, che sarà varata nel 1529.
Il 23 maggio dello
stesso anno ha luogo, di fronte alle rive di San Francesco della
Vigna, il collaudo dell’imponente nave, che gareggia contro una più
esile galera, vincendo la gara a dispetto del suo maggior
dislocamento. Il Bembo, entusiasta, scrive che, grazie all’impresa
di Vettor Fausto “non si potrà più dire a niun di loro [gli
umanisti] come per addietro si solea: va e statti nello scrittoio e
nelle tue lettere”.
Il Doge, vedendo la
vittoria del “nuovo-antico” sul vecchio, scoppia addirittura in
lacrime di gioia.
L’età grittiana è
quindi estremamente carica di fermenti culturali. Nel contesto
veneziano degli anni 20-30 del Cinquecento, il Rinascimento sembra
così fare un salto di qualità significativo. Se prima infatti gli
umanisti rinascimentali erano inclini ad un rapporto stretto con il
potere, ma sempre da una posizione esterna ad esso, ora nella
Serenissima comincia a delinearsi un diverso ruolo per l’uomo di
scienza e di lettere. Egli sembra chiamato ad entrare all’interno
del meccanismo del potere istituzionale, per poterlo razionalizzare,
per rendere più rapidi ed efficaci i suoi meccanismi, per
aggiungergliene di nuovi.
Persa la partita sul
piano della forza, Venezia cerca di gettare le basi di una sua
vittoria futura, attraverso la celebrazione del matrimonio tra sapere
e potere, chiamando gli umanisti alla cura della cosa pubblica.
E poiché i
matrimoni, per generare figli legittimi, devono essere pubblici,
viene affidato al Sansovino il compito di tracciare il segno
eloquente di questa unione. E nel 1537 iniziano quindi i lavori di
costruzione della Biblioteca Marciana. Nella zona della città
deputata alla gestione del potere, da esibire alle rappresentanze
diplomatiche, in cui sono organizzati e si svolgono i riti civili e
della patria. Per la prima volta una biblioteca di stato entra, e in
una posizione di estremo rilievo, all’interno dell’autocelebrazione
del potere. L’edificio, che custodirà i testi del Petrarca e la
biblioteca platonica del Bessarione, è posto di fronte al Palazzo
Ducale, nel cuore politico della città.
(fonte: F. Merlo)
(fonte: F. Merlo)
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venerdì 2 aprile 2010
Aldo Manuzio e l'arte della tipografia nel Rinascimento
Aldo Manuzio (Velletri 1449 - Venezia 1515) è considerato il più importante tipografo del Rinascimento nonché il primo editore in senso moderno.
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insieme a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel Cinquecento in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insieme a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel Cinquecento in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'
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