D'origine antichissima ed incerta, si rinnovò per secoli ad ogni Carnevale, non solo nei campi più spaziosi ma anche, in occasioni straordinarie, in Piazza San Marco.
Le cacce ai tori si realizzarono fino al 1802, quando in Campo Santo Stefano, a causa del panico provocato da un toro imbizzarrito, crollò una gradinata costruita per l'occasione davanti a Palazzo Morosini e ci furono morti e feriti.
La festa era organizzata in modo sapiente e con regole precise da un uomo ricco di spirito oltreché di denaro, che conosceva le leggi e le buone maniere. Sua primaria urgenza era quella di chiedere al parroco di zona il permesso di svolgere la caccia.
Risolti gli aspetti burocratici, si pubblicizzava la data attraverso una sorta di manifesto affisso nel campo. Da quel momento in poi tutti coloro che abitavano o lavoravano in zona si prodigavano per il buon esito della festa. I proprietari dei palazzi prospicienti sul campo affittavano i propri balconi; i commercianti si rifornivano di merci ed erano garantiti buoni affari per tutti i luoghi di mescita del vino.
Gli attori che davano vita alla festa erano per lo più macellai, garzoni di bottega e gondolieri. Costoro sceglievano presso il macello i buoi di più fiero aspetto, tanto da giustificarne il nome di toro a loro dato. Il giorno della festa gli animali erano condotti nel campo; già l'arrivo era motivo di ilarità: scivolavano dalle barche, scappavano o cadevano in acqua.
Ma in cosa consisteva il gioco vero e proprio? I tiratori reggevano lunghe corde legate alle corna del bue per evitare che i cani addestrati azzannassero le orecchie dell'animale. In pratica era un gioco di tira e molla con i cani che aizzavano i buoi.
Questi giochi suscitarono perfino l'interesse di Torquato Tasso. Egli infatti assistette da un caccia ai tori in onore di Enrico III di Francia e nella Gerusalemme Liberata paragona Clorinda, che si sottrae ai cavalieri cristiani, al bue che si sottrae ai cani:
Tal gran tauro talor ne l'ampio agone
se volge il corno ai cani ond'è seguito
s'arretran essi; e s'a fuggir si pone
ciascun ritorna a seguitarlo ardito
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giovedì 4 ottobre 2012
La caccia dei tori
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giovedì 1 settembre 2011
Divertimenti veneziani
I luoghi prediletti dai veneziani per i loro divertimenti erano i casin, detti anche ridotti. Questi erano delle piccole case o soltanto delle stanze, dove i veneziani restavano fino all'alba per divertirsi giocando d'azzardo o intrattenendosi con delle cortigiane.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.
lunedì 22 novembre 2010
Prova di coraggio
Non era dell'umore adatto per partecipare ad una chiassosa festa di piazza il giovane patrizio Almorò Morosini, ma ugualmente decise di lasciare il palazzo di famiglia e dirigersi verso il Campo Santa Maria Formosa. "E' davvero una bella giornata" pensò tra sé "che sarebbe un peccato sprecarla ad oziare a palazzo. Andrò dunque a godermi lo spettacolo della caccia al toro".
La caccia al toro era tra le manifestazioni più seguite a Venezia, e diventava un vero e proprio spettacolo considerato da non perdere nel momento in cui, all'ora prefissata, uscivano nel campo fino a sei tori che portavano appesi alle corna dei fuochi artificiali allo scopo di rendere più scenografica la caccia e aumentare il nervosismo degli animali. Tra le grida degli astanti, venivano aizzati contro i tori dei cani che dovevano in un certo modo dimostrarne la forza. Nell'impari lotta, il cane cercava di azzannare l'orecchio del toro, ma non di rado accadeva che qualche bovino, scrollando la testa, scaraventasse in aria il piccolo avversario per poi infilzarlo con le corna tra gli applausi degli spettatori.
In mezzo alla folla festante, il Morosini osservava pacatamente lo svolgersi della caccia ormai prossima alle fasi conclusive e attendeva il momento finale in cui il più abile componente della confraternita dei beccai si cimentava nello staccare la testa al toro con un sol colpo di spada. Mentre era assorto nei suoi pensieri, improvvisamente dalla folla sbucarono quattro sgherri armati che gli aizzarono contro un feroce mastino. Colto di sorpresa il Morosini non perse però d'animo e sguainata prontamente la spada uccise con un abile colpo il cane inferocito. Poi, senza nessun timore, affrontò e mise in fuga anche i quattro sicari, che erano stati inviati da una famiglia rivale per sistemare antiche ruggini.
L'episodio aveva avuto un occasionale spettatore: il principe Eugenio di Savoia, che dalle finestre di Palazzo Priuli aveva assistito, in compagnia di altri nobili veneziani, alla caccia al toro. Colpito dal valore dimostrato dal Morosini, chiese immediatamente ai presenti: "Chi è costui? Conducetelo da me", "La persona di cui parlate, Eccellenza" spiegò un anziano senatore "altri non è che il patrizio Almorò Morosini, considerato tra gli eroi di questa Repubblica per aver dimostrato un grandissimo valore nella recente guerra contro i Turchi". "Ebbene" rispose il principe "se le cose stanno così, andrò io da lui!" e lasciato il balcone, scese rapidamente le scale portandosi sul campo.
Dopo essersi presentato e congratulato con l'intrepido patrizio veneziano, Eugenio di Savoia volle regalargli un quadro del Correggio rappresentante la Vergine. Dipinto che la famiglia Morosini, in ricordo del proprio avo, conservò poi nei secoli, raccontando con orgoglio l'episodio accaduto durante la caccia al toro a quanti si soffermavano ad ammirare il delicato dipinto alle pareti del salone nel grande palazzo di famiglia.
English version
Version française
(Fonte: D. Mazzetto)
La caccia al toro era tra le manifestazioni più seguite a Venezia, e diventava un vero e proprio spettacolo considerato da non perdere nel momento in cui, all'ora prefissata, uscivano nel campo fino a sei tori che portavano appesi alle corna dei fuochi artificiali allo scopo di rendere più scenografica la caccia e aumentare il nervosismo degli animali. Tra le grida degli astanti, venivano aizzati contro i tori dei cani che dovevano in un certo modo dimostrarne la forza. Nell'impari lotta, il cane cercava di azzannare l'orecchio del toro, ma non di rado accadeva che qualche bovino, scrollando la testa, scaraventasse in aria il piccolo avversario per poi infilzarlo con le corna tra gli applausi degli spettatori.
In mezzo alla folla festante, il Morosini osservava pacatamente lo svolgersi della caccia ormai prossima alle fasi conclusive e attendeva il momento finale in cui il più abile componente della confraternita dei beccai si cimentava nello staccare la testa al toro con un sol colpo di spada. Mentre era assorto nei suoi pensieri, improvvisamente dalla folla sbucarono quattro sgherri armati che gli aizzarono contro un feroce mastino. Colto di sorpresa il Morosini non perse però d'animo e sguainata prontamente la spada uccise con un abile colpo il cane inferocito. Poi, senza nessun timore, affrontò e mise in fuga anche i quattro sicari, che erano stati inviati da una famiglia rivale per sistemare antiche ruggini.
L'episodio aveva avuto un occasionale spettatore: il principe Eugenio di Savoia, che dalle finestre di Palazzo Priuli aveva assistito, in compagnia di altri nobili veneziani, alla caccia al toro. Colpito dal valore dimostrato dal Morosini, chiese immediatamente ai presenti: "Chi è costui? Conducetelo da me", "La persona di cui parlate, Eccellenza" spiegò un anziano senatore "altri non è che il patrizio Almorò Morosini, considerato tra gli eroi di questa Repubblica per aver dimostrato un grandissimo valore nella recente guerra contro i Turchi". "Ebbene" rispose il principe "se le cose stanno così, andrò io da lui!" e lasciato il balcone, scese rapidamente le scale portandosi sul campo.
Dopo essersi presentato e congratulato con l'intrepido patrizio veneziano, Eugenio di Savoia volle regalargli un quadro del Correggio rappresentante la Vergine. Dipinto che la famiglia Morosini, in ricordo del proprio avo, conservò poi nei secoli, raccontando con orgoglio l'episodio accaduto durante la caccia al toro a quanti si soffermavano ad ammirare il delicato dipinto alle pareti del salone nel grande palazzo di famiglia.
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(Fonte: D. Mazzetto)
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