A parte qualche caso sporadico (come tale Francesco Barozzi che si considerava un mago), fatture, magie e stregonerie erano a Venezia ad esclusivo appannaggio delle donne, o loro attribuite dalla cultura dell'Inquisizione. Contrariamente alla tradizione, le streghe della Serenissima, o quelle che si ritenevano tali, non professavano culti e patti diabolici con malefizi mortali, sabba od orge demoniache, ma si limitavano per lo più a piccole magie e fatture "casalinghe" riguardanti la salute oppure i tormenti amorosi.
Le streghe veneziane non adoravano il demonio ma al massimo lo invocavano, pagandogli addirittura in anticipo i favori gettando delle monete e manciate di sale sul fuoco; l'unica raffigurazione diabolica che conoscevano era quella presente tra le carte dei Tarocchi.
A volte si ritrovavano presso il cimitero ebraico del Lido, luogo considerato carico di poteri occulti.
Si trattava in sostanza di una stregoneria spicciola, patrimonio dei ceti più poveri dai quali provenivano la maggioranza di queste donne, che applicavano antichi segreti e pratiche di dubbia efficacia. I segreti venivano rivelati di generazione in generazione nelle notti di Natale o in punto di morte e venivano poi usati come mezzo di sostentamento.
Alcune presunte streghe erano anche cortigiane: c'era la convinzione che sapessero fare fatture e incantesimi affinché gli uomini si innamorassero di loro.
Queste fattucchiere sarebbero rimaste anonime se il Sacro Tribunale dell'Inquisizione non si fosse accanito nella caccia alle streghe. Nel resto dell'Europa gli Inquisitori sfogavano le proprie frustrazioni su povere donne che venivano plagiate, sottoposte a torture e mandate al rogo. Per fortuna, data la particolarità della società veneziana, nessun rogo fu mai acceso nel territorio della Serenissima e le torture vennero applicate in pochissimi casi; questo anche perché il governo veneziano, sempre mal disposto nei confronti della Chiesa di Roma, aveva saputo, sottilmente e tra le quinte, conferire un indirizzo speciale alla questione.
(fonte: Brusegan)
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lunedì 26 settembre 2011
Streghe a Venezia
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venerdì 9 luglio 2010
Magia a Venezia
“Ma veniamo all’inizio della mia esistenza di essere pensante. Al principio d’agosto del 1733 mi si sviluppò la facoltà della memoria. Avevo dunque otto anni e quattro mesi. Di ciò che può essermi accaduto prima di quella data, non serbo alcun ricordo. Ecco come andò la cosa.
Me ne stavo in piedi nell’angolo di una stanza, a ridosso del muro, con il capo e gli occhi fissi sul sangue che mi usciva in gran copia dal naso e scorreva a terra. Mia nonna Marzia, della quale ero il beniamino, mi si accostò, mi lavò il viso con acqua fredda e, all’insaputa di tutti i famigliari, mi fece salire con lei su una gondola e mi condusse a Murano.
Scendemmo dalla gondola ed entrammo in una catapecchia dove trovammo una vecchia seduta su un misero giaciglio, con un gatto nero in braccio e altre cinque o sei di queste bestie intorno. Era una fattucchiera. Le due vecchie tennero tra loro un lungo conciliabolo di cui io dovevo essere il soggetto. Alla fine del dialogo, che si svolse in dialetto friulano, la strega, ricevuto che ebbe da mia nonna un ducato d’argento, aprì una cassa, mi prese tra le braccia, mi ci mise dentro e mi ci chiuse, raccomandandomi di non aver paura. In verità era proprio il modo di farmela venire, se solo avessi avuto un barlume di coscienza, ma ero come inebetito. Così me ne stetti cheto, con il fazzoletto pigiato sul naso perché perdevo sangue, del tutto indifferente al baccano che mi giungeva da fuori. Sentivo alternativamente ridere e piangere, gridare, cantare e picchiare sulla cassa.
Mi tirarono finalmente fuori e il mio sangue ristagnò. Allora, quella donna straordinaria, dopo avermi fatto una quantità di carezze, mi spoglia, mi adagia sul letto, brucia degli aromi, ne raccoglie il fumo in un lenzuolo, mi ci avviluppa strettamente, mi recita scongiuri, poi mi libera e mi dà da mangiare cinque confetti di gusto molto gradevole. Subito dopo mi sfrega le tempie e la nuca con un unguento che esala un soave profumo e mi riveste. Mi dice che la mia emorragia sarebbe andate sempre diminuendo, a patto che non raccontassi ad anima viva ciò che aveva fatto per guarirmi, e mi minaccia invece della perdita di tutto il sangue e della conseguente morte nel caso osassi svelare a qualcuno i suoi segreti.
Dopo avermi così catechizzato, mi predice per la notte la visita di un’incantevole dama, dalla quale sarebbe dipesa la mia felicità, se fossi stato capace di non dire a nessuno di averla ricevuta. Quindi, io e la nonna partimmo e facemmo ritorno a casa.
Appena a letto, mi addormentai senza neanche ricordarmi della dolce visita che dovevo ricevere; ma quando mi sveglia qualche ora dopo, vidi o credetti di veder scendere dal camino una splendida donna in crinolina, tutta elegante e con in testa una corona costellata di pietre preziose che mi pareva mandassero faville infuocate. A passi lenti e con un’aria dolce e maestosa, venne a sedersi sul mio letto. Trasse di tasca alcune scatolette e me ne rovesciò il contenuto sul capo, mormorando alcune parole. Quindi, dopo avermi rivolto un lungo discorso, di cui non compresi una parola, e dopo avermi baciato sulla testa, se ne andò per dove era venuta, e io mi riaddormentai.”
(Memorie di Giacomo Casanova)
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