L'isola di Poveglia è situata a sud-ovest della laguna veneziana, di fronte a Malamocco.
Anticamente era denominata "Popilia", forse a causa della presenza di numerosi alberi di pioppo, o forse in onore del Console romano Popilio Lena, che aveva fatto costruire la parte settentrionale della via Emilia-Altinate.
Nel 421 l'isola fu occupata dai profughi fuggiti dalle città di Padova e d'Este a causa delle invasioni barbariche. Nell'anno 809 gli abitanti dell'isola si trasferirono nella zona di Rivoalto (attuale Rialto) a causa della guerra di Pipino re di Francia contro Venezia.
Nell'864 venne ucciso il doge Pietro Tradonico (13° doge) a seguito di una congiura. I servi del doge si barricarono nel Palazzo Ducale chiedendo "giustizia" per l'avvenuto omicidio. Il nuovo doge, Orso Partecipazio, riuscì a trattare con la servitù del suo predecessore e permise loro di abitare nell'isola di Poveglia, concedendo ai nuovo abitanti diversi privilegi.
Nell'isola venne costruita una chiesa, con campanile, convento e cavana. L'isola si popolò di circa duecento famiglie, che dopo un secolo si erano moltiplicate ed avevano edificato più d'ottocento case, avviando la coltivazione di campi e orti. Fu anche realizzata la costruzione di un castello fortificato.
L'amministrazione dell'isola era anticamente tenuta da un Tribuno, poi da un Gastaldo Ducale ed infine da un Podestà. Nel 1379 fu deciso dal Senato lo smantellamento del castello fortificato.
Durante la guerra di Chioggia (contro i genovesi), gli abitanti di Poveglia si trasferirono alla Giudecca. Finita la guerra, i povegliani ritornarono in isola, ma la trovarono erosa dalle acque. In seguito la popolazione diminuì sensibilmente, ma per chi decideva di restare furono offerti molti privilegi, come quello di non pagare le tasse, di fare la scorta d'onore al Bucintoro durante la Festa della Sensa, la libera compravendita del pesce per gli anziani e l'esenzione dal servizio militare.
Nel 1527, il magistrato alle Rason Vecchie, che controllava gli interessi di Poveglia, offrì l'isola ai Camaldolesi, che però non l'accettarono. Nel 1777 l'isola passò sotto la giurisdizione del Magistrato alla Sanità. Dal 1793 al 1799, Poveglia fu trasformata in un lazzaretto provvisorio, in quanto su due navi in transito in laguna era scoppiata la peste.
Tra il 1805 e il 1814 l'isola venne nuovamente utilizzata come lazzaretto, essendo tra l'altro piuttosto distante da Venezia. Sotto la dominazione francese, la chiesa venne chiusa. Al suo interno c'era un bel pavimento di marmo, un Crocefisso e una tavola del Tiziano. Il Crocefisso ora è conservato nella chiesa di Malamocco.
Durante l'occupazione austriaca, il campanile della chiesa venne utilizzato come faro.
All'inizio del Novecento l'isola fu utilizzata come luogo di convalescenza per lunghe malattie e come casa di riposo per anziani, ma dal 1968 anche questo utilizzo venne dismesso e l'isola fu ceduta al Demanio.
Nel 2013, assieme a San Giacomo in Paludo, Poveglia è stata messa in vendita per essere recuperata a fini turistici. Nell'aprile del 2014 è nata un'associazione senza fini di lucro, Poveglia per tutti, con lo scopo di partecipare al bando del demanio per aggiudicarsi il possesso dell'isola per 99 anni e permetterne l'uso pubblico. Il 13 maggio 2014 l'imprenditore Luigi Brugnaro, patron di Umana, si è aggiudicato all'asta l'isola per il prezzo di 513mila euro. L’affidamento definitivo è stato però rinviato al 13 giugno, e in questi giorni i tecnici dovranno valutare con attenzione la «congruità dell’offerta».
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mercoledì 21 maggio 2014
domenica 28 aprile 2013
La chiesa di Santa Croce alla Giudecca
La chiesa e il complesso conventuale risalgono agli inizi del 1300, ma già nel 1500 subì una radicale ristrutturazione, e ulteriori rimaneggiamenti ebbero luogo lungo i secoli.
La chiesa un tempo era molto nota oltre che per i ricchi arredi, anche e soprattutto per il gran numero di reliquie in essa conservate, in essa infatti si trovavano: reliquie lignee della Croce di Cristo (da cui il nome della Chiesa), l'indice della mano destra di San Giovanni Crisostomo, la testa di San Teofane martire, un piede di Santa Teodosia martire, il corpo di Sant'Atanasio patriarca di Alessandria e il corpo della beata Eufemia Giustinian, già badessa del monastero.
Eufemia Giustinian nacque nel 1409 e all'età di soli sedici anni entrò nel monastero della Santa Croce alla Giudecca, per divenirne badessa nel 1444. La sua grande carità cristiana si era mostrata concretamente durante una grave pestilenza che colpì la città nel 1464, in quell'occasione dimostrò animo intrepido assistendo numerosi malati afflitti dalla peste. Morì nel 1487 e il suo corpo si mantenne incorrotto. Venne poi beatificata.
Legato alla figura della badessa e ad un pozzo del monastero è nota un'antica leggenda. Sempre durante la pestilenza del 1464 successe al monastero un fatto straordinario: si narra che una notte qualcuno bussò alla porta del convento, la badessa aprì lo spioncino e vide un uomo incappucciato, senza timore alcuno aprì la porta allo sconosciuto e lo invitò ad entrare. Lo straniero disse di essere assetato e di stare semplicemente cercando un poco d'acqua. La suora lo condusse quindi al loro pozzo e gli porse da bere. L'uomo si scoprì il volto e svelò di essere San Sebastiano. Colpito dalla generosità di Eufemia annunciò che l'acqua di quel pozzo avrebbe preservato le monache di quel convento dal morbo della pesta.
A tal punto si diffuse la leggenda che durante la peste del 1575 (quella del Redentore) frotte di persone si accalcavano quotidianamente davanti al portone del monastero chiedendo di poter bere l'acqua del pozzo di San Sebastiano; addirittura più volte le suore furono costrette a chiamare le forze dell'ordine per far sciogliere gli assembramenti!
Con l'arrivo di Napoleone il monastero fu soppresso e divenne una casa di correzione che arrivò ad ospitare diverse centinaia di detenuti. Fu poi un magazzino per la raccolta del tabacco, e dagli anni sessanta del Novecento è divenuta sede sussidiaria dell'Archivio di Stato di Venezia.
La chiesa un tempo era molto nota oltre che per i ricchi arredi, anche e soprattutto per il gran numero di reliquie in essa conservate, in essa infatti si trovavano: reliquie lignee della Croce di Cristo (da cui il nome della Chiesa), l'indice della mano destra di San Giovanni Crisostomo, la testa di San Teofane martire, un piede di Santa Teodosia martire, il corpo di Sant'Atanasio patriarca di Alessandria e il corpo della beata Eufemia Giustinian, già badessa del monastero.
Eufemia Giustinian nacque nel 1409 e all'età di soli sedici anni entrò nel monastero della Santa Croce alla Giudecca, per divenirne badessa nel 1444. La sua grande carità cristiana si era mostrata concretamente durante una grave pestilenza che colpì la città nel 1464, in quell'occasione dimostrò animo intrepido assistendo numerosi malati afflitti dalla peste. Morì nel 1487 e il suo corpo si mantenne incorrotto. Venne poi beatificata.
Legato alla figura della badessa e ad un pozzo del monastero è nota un'antica leggenda. Sempre durante la pestilenza del 1464 successe al monastero un fatto straordinario: si narra che una notte qualcuno bussò alla porta del convento, la badessa aprì lo spioncino e vide un uomo incappucciato, senza timore alcuno aprì la porta allo sconosciuto e lo invitò ad entrare. Lo straniero disse di essere assetato e di stare semplicemente cercando un poco d'acqua. La suora lo condusse quindi al loro pozzo e gli porse da bere. L'uomo si scoprì il volto e svelò di essere San Sebastiano. Colpito dalla generosità di Eufemia annunciò che l'acqua di quel pozzo avrebbe preservato le monache di quel convento dal morbo della pesta.
A tal punto si diffuse la leggenda che durante la peste del 1575 (quella del Redentore) frotte di persone si accalcavano quotidianamente davanti al portone del monastero chiedendo di poter bere l'acqua del pozzo di San Sebastiano; addirittura più volte le suore furono costrette a chiamare le forze dell'ordine per far sciogliere gli assembramenti!
Con l'arrivo di Napoleone il monastero fu soppresso e divenne una casa di correzione che arrivò ad ospitare diverse centinaia di detenuti. Fu poi un magazzino per la raccolta del tabacco, e dagli anni sessanta del Novecento è divenuta sede sussidiaria dell'Archivio di Stato di Venezia.
venerdì 27 luglio 2012
Il Giardino Eden a Venezia
Mister Fredric Eden, gentiluomo inglese con signora al seguito, nel 1880 acquista quello che rimane dell’antico giardino Corner sull'isola della Giudecca e vi realizza il suo sogno di bellezza e di poesia.
Trasforma il vecchio giardino in un vero paradiso terrestre dove crescono pini, cipressi, oleandri, limoni, magnolie, melograni, bergamotti, viti, viole, piante dei Tropici e verbene, ma soprattutto rose di cui il nostro gentleman ha una vera predilezione e ne pianta di ogni varietà possibile; ma nel giardino ci sono anche una vera da pozzo, percorsi lastricati e una vasca in marmo rosso di Verona.
Mr. Eden era zio di quel R. Antony Eden, che fu capo del governo britannico subito dopo Churchill, e marito di una certa Caroline, che si scopre essere nientemeno che la sorella maggiore di Gertrude Jekyll, la grande paesaggista inglese, potrebbe quindi darsi che la più famosa creatrice di giardini abbia appreso la sua arte dalla sorella e proprio qui, a Venezia.
Il bellissimo giardino giudecchino era frequentato dall’aristocrazia veneziana e dalla schiera nutritissima degli intellettuali che a cavallo tra '800 e '900 frequentavano la città. Henry James lo descrive in “Il carteggio Aspen” e per D’Annunzio è il giardino dove la Foscarina e Stelio si amano nell’ultimo capitolo de “Il fuoco”.
Mr. Eden era anche un importante imprenditore agricolo, e ai primi del Novecento stampa un libretto, allora famoso anche oltre i confini nazionali, che racconta la storia del giardino.
Dopo la morte di Fredric nel 1916, la proprietà passa alla principessa Aspasia di Grecia, nel 1927, che lo arricchirà di specie botaniche mediterranee.
Nel 1979 viene acquistato da un personaggio bizzarro, tale Undertwasser, architetto e artista austriaco, il quale riteneva che "non bisogna fare del giardinaggio, ma bisogna lasciar fare alla natura", accusato da più parti di lasciare andare in rovina il giardino egli rispondeva che "gli intrecci dei rovi e dei rami sembrano ricami"...
Undertwasser muore nel 2000 ma da allora la Fondazione a suo nome non permette l'ingresso a nessuno.
Trasforma il vecchio giardino in un vero paradiso terrestre dove crescono pini, cipressi, oleandri, limoni, magnolie, melograni, bergamotti, viti, viole, piante dei Tropici e verbene, ma soprattutto rose di cui il nostro gentleman ha una vera predilezione e ne pianta di ogni varietà possibile; ma nel giardino ci sono anche una vera da pozzo, percorsi lastricati e una vasca in marmo rosso di Verona.
Mr. Eden era zio di quel R. Antony Eden, che fu capo del governo britannico subito dopo Churchill, e marito di una certa Caroline, che si scopre essere nientemeno che la sorella maggiore di Gertrude Jekyll, la grande paesaggista inglese, potrebbe quindi darsi che la più famosa creatrice di giardini abbia appreso la sua arte dalla sorella e proprio qui, a Venezia.
Il bellissimo giardino giudecchino era frequentato dall’aristocrazia veneziana e dalla schiera nutritissima degli intellettuali che a cavallo tra '800 e '900 frequentavano la città. Henry James lo descrive in “Il carteggio Aspen” e per D’Annunzio è il giardino dove la Foscarina e Stelio si amano nell’ultimo capitolo de “Il fuoco”.
Mr. Eden era anche un importante imprenditore agricolo, e ai primi del Novecento stampa un libretto, allora famoso anche oltre i confini nazionali, che racconta la storia del giardino.
Dopo la morte di Fredric nel 1916, la proprietà passa alla principessa Aspasia di Grecia, nel 1927, che lo arricchirà di specie botaniche mediterranee.
Nel 1979 viene acquistato da un personaggio bizzarro, tale Undertwasser, architetto e artista austriaco, il quale riteneva che "non bisogna fare del giardinaggio, ma bisogna lasciar fare alla natura", accusato da più parti di lasciare andare in rovina il giardino egli rispondeva che "gli intrecci dei rovi e dei rami sembrano ricami"...
Undertwasser muore nel 2000 ma da allora la Fondazione a suo nome non permette l'ingresso a nessuno.
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lunedì 3 ottobre 2011
Teatro Verde sull'Isola di San Giorgio Maggiore
Detta l'Isola dei Cipressi , San Giorgio Maggiore ospita un luogo singolare al quale si accede dalla Fondazione Giorgio Cini, penetrandovi idealmente attraverso una delle tre porte che danno accesso al convento le quali si scorgono osservando l'isola dalla riva opposta, secondo il progetto dell'architetto rinascimentale Giambattista Bregno (1508), sottostante il rilievo marmoreo di San Giorgio a cavallo.
Secondo il romanzo esoterico Hypnerotomachia Poliphili, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499, il significato delle tre porte è, per il neofita, il seguente: la prima porta Gloria Dei, la seconda Mater Amoris, la terza Gloria Mundi.
Progettato nel 1952 da Luigi Vietti e Angelo Scattolin, il Teatro Verde è invece un'opera moderna caratterizzata da un esasperato classicismo, che se riprende la forma del teatro greco da una parte, dei teatri di "verzura" delle ville venete, assume dall'altra, in virtù delle gradinate di pietra e della corona di cipressi secolari, un tratto decisamente sepolcrale e funereo.
Caduto in disgrazia dopo memorabili rappresentazioni notturne di Romeo e Giulietta e della Carmen di Bizet, lo straordinario anfiteatro di 1500 posti, con palcoscenico di 56 metri sul fronte e 210 metri quadri complessivi, giace oggi in completo abbandono. Tuttavia gli alti spiriti che ancora aleggiano nell'atmosfera del Teatro Verde sono quelli di Gabriele D'Annunzio e di Eleonora Duse (le cui lettere sono conservate negli archivi della Fondazione Cini), in particolare riecheggiano ancora le rappresentazioni de La Nave e La Città morta (perché secondo certe indicazioni contenute nel romanzo Il Fuoco, la tragedia d'ambientazione archeologica si sarebbe configurata nella mente dell'autore durante una passeggiata meridiana per Venezia): "Entravano nel campo San Cassiano deserto sul suo rio livido, e la voce e i passi echeggiarono come in un circo di rupi, chiaramente, nel rombo che veniva dal Canal Grande come da un fiume...".
Il Teatro Verde riprende, nella cornice buia e priva di rumori esterni, la condizione notturna in cui ebbe a sprigionarsi dalla mano cieca di D'Annunzio, nell'inverno caliginoso del 1916, la più tenue e duratura fiammella del fantastico veneziano.
Secondo il romanzo esoterico Hypnerotomachia Poliphili, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499, il significato delle tre porte è, per il neofita, il seguente: la prima porta Gloria Dei, la seconda Mater Amoris, la terza Gloria Mundi.
Progettato nel 1952 da Luigi Vietti e Angelo Scattolin, il Teatro Verde è invece un'opera moderna caratterizzata da un esasperato classicismo, che se riprende la forma del teatro greco da una parte, dei teatri di "verzura" delle ville venete, assume dall'altra, in virtù delle gradinate di pietra e della corona di cipressi secolari, un tratto decisamente sepolcrale e funereo.
Caduto in disgrazia dopo memorabili rappresentazioni notturne di Romeo e Giulietta e della Carmen di Bizet, lo straordinario anfiteatro di 1500 posti, con palcoscenico di 56 metri sul fronte e 210 metri quadri complessivi, giace oggi in completo abbandono. Tuttavia gli alti spiriti che ancora aleggiano nell'atmosfera del Teatro Verde sono quelli di Gabriele D'Annunzio e di Eleonora Duse (le cui lettere sono conservate negli archivi della Fondazione Cini), in particolare riecheggiano ancora le rappresentazioni de La Nave e La Città morta (perché secondo certe indicazioni contenute nel romanzo Il Fuoco, la tragedia d'ambientazione archeologica si sarebbe configurata nella mente dell'autore durante una passeggiata meridiana per Venezia): "Entravano nel campo San Cassiano deserto sul suo rio livido, e la voce e i passi echeggiarono come in un circo di rupi, chiaramente, nel rombo che veniva dal Canal Grande come da un fiume...".
Il Teatro Verde riprende, nella cornice buia e priva di rumori esterni, la condizione notturna in cui ebbe a sprigionarsi dalla mano cieca di D'Annunzio, nell'inverno caliginoso del 1916, la più tenue e duratura fiammella del fantastico veneziano.
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mercoledì 20 luglio 2011
Isola Monte dell'Oro
Questo piccolo isolotto deve il suo suggestivo nome ad un'antica leggenda che lo vuole depositario, nelle sue viscere, del tesoro di Attila. Sembra infatti che gli Unni, inseguendo gli abitanti di Altino, che cercavano rifugio nella laguna di Venezia, fossero finiti impantanati con i loro pesanti carri in queste insidiose barene. Proprio lì, il più pesante di questi carri, carico del bottino di guerra e, secondo la leggenda, dello stesso arco di Attila, finì inghiottito nel fango.
Molti pescatori narrano che di notte si possono ancora vedere gli spiriti degli Unni che vigilano sul tesoro; tesoro ritenuto maledetto perché chiunque provò a cercarlo morì di morte violenta.
Data la posizione strategica, l'isola venne utilizzata per ricoprire un ruolo nel sistema difensivo ottocentesco della laguna. Vi si costruì una postazione d'artiglieria con un presidio di una cinquantina di militari.
Oggi l'isola si presenta come un dosso dalla forma tondeggiante con alle spalle la Palude della Rosa, e del tutto spoglia. Non resta che la suggestione del nome, l'affascinante vista sul paesaggio lagunare ed il piacere di cogliere qualche mora selvatica in estate sognando tesori nascosti.
Molti pescatori narrano che di notte si possono ancora vedere gli spiriti degli Unni che vigilano sul tesoro; tesoro ritenuto maledetto perché chiunque provò a cercarlo morì di morte violenta.
Data la posizione strategica, l'isola venne utilizzata per ricoprire un ruolo nel sistema difensivo ottocentesco della laguna. Vi si costruì una postazione d'artiglieria con un presidio di una cinquantina di militari.
Oggi l'isola si presenta come un dosso dalla forma tondeggiante con alle spalle la Palude della Rosa, e del tutto spoglia. Non resta che la suggestione del nome, l'affascinante vista sul paesaggio lagunare ed il piacere di cogliere qualche mora selvatica in estate sognando tesori nascosti.
lunedì 4 luglio 2011
Atlantide a Venezia
Anche Venezia ha la sua Atlantide: si tratta di Metamauco (Malamocco). Verso l'estremità sud dell'isola del Lido c'è oggi una borgata, Malamocco, in bilico tra mare e laguna, che ha ereditato il nome dell'antichissima Metamauco, culla della storia della Serenissima.
Metamauco venne probabilmente fondata dai padovani in fuga dalle invasioni barbariche nel VI secolo, quindi divenne sede del Governo veneziano negli anni dal 742 all'810, quando in seguito all'assalto dei Franchi guidati da Pipino, figlio di Carlo Magno, il doge Angelo Partecipazio decise di trasferire la sede ducale presso le isole realtine (da "rivo alto"), all'interno della laguna e quindi più facilmente difendibile.
Le cronache parlano di un violento terremoto avvenuto nel 1106 che avrebbe causato l'inghiottimento di Metamauco da parte del mare. A tutt'oggi però, nonostante studi approfonditi e numerose ricerche effettuate nel mare circostante, di questo antico centro non si è trovato traccia.
Le supposizioni, le storie e le ipotesi che circolano attorno a questa Atlantide lagunare hanno finora soltanto alimentato la curiosità intorno a questa leggenda.
Metamauco venne probabilmente fondata dai padovani in fuga dalle invasioni barbariche nel VI secolo, quindi divenne sede del Governo veneziano negli anni dal 742 all'810, quando in seguito all'assalto dei Franchi guidati da Pipino, figlio di Carlo Magno, il doge Angelo Partecipazio decise di trasferire la sede ducale presso le isole realtine (da "rivo alto"), all'interno della laguna e quindi più facilmente difendibile.
Le cronache parlano di un violento terremoto avvenuto nel 1106 che avrebbe causato l'inghiottimento di Metamauco da parte del mare. A tutt'oggi però, nonostante studi approfonditi e numerose ricerche effettuate nel mare circostante, di questo antico centro non si è trovato traccia.
Le supposizioni, le storie e le ipotesi che circolano attorno a questa Atlantide lagunare hanno finora soltanto alimentato la curiosità intorno a questa leggenda.
mercoledì 23 marzo 2011
Tour in barca per la Laguna di Venezia
L'offerta dei servizi de L'altra Venezia si arricchisce ancora: un nuovo itinerario in barca a vela alla scoperta delle isole della Laguna Nord di Venezia.
Il tour, creato in collaborazione con l'Associazione Navigador, viene effettuato su una tipica imbarcazione dell'alto Adriatico, il "bragozzo", mosso a vela o a motore.
Già dalla seconda metà del Cinquecento, il bragozzo veniva utilizzato come barca da pesca lagunare. Nel tempo divenne una vera e propria barca d'altura per la pesca in mare.
La proposta ha l'obiettivo di andare alla scoperta di alcune isole poco conosciute (anche perché non raggiungibili con i mezzi pubblici) e delle attività di pesca e viticoltura che ancora vi vengono svolte.
L'itinerario prevede:
- partenza da Venezia (Ponte Tre Archi, raggiungibile a piedi o con i vaporetti linee 51, 52, 41, 42) o dalla terraferma (Forte Marghera a Mestre, raggiungibile in auto)
- navigazione in laguna fino all'isola di Mazzorbo, dove è previsto un incontro con i pescatori locali
- sbarco e visita alla chiesa di S. Caterina e alla cantina Venissa
- passeggiata a piedi fino a Burano dove ci si imbarca nuovamente con destinazione Isola di San Francesco del Deserto
- pranzo a bordo con prodotti tipici veneti
- nel pomeriggio visita del convento francescano
- imbarco e navigazione costeggiando l'isola di Sant'Erasmo, ricca di orti che forniscono le primizie poi vendute al mercato di Rialto
- sbarco e visita guidata all'isola del Lazzaretto Nuovo (area archeologica)
- imbarco e ritorno al punto di partenza nel tardo pomeriggio
Il tour viene effettuato per un minimo di 6 persone.
Periodo: da maggio ad ottobre.
Per maggiori informazioni: info@laltravenezia.it
o scheda tecnica: http://issuu.com/walterfano/docs/laguna_nord_laltravenezia
Il tour, creato in collaborazione con l'Associazione Navigador, viene effettuato su una tipica imbarcazione dell'alto Adriatico, il "bragozzo", mosso a vela o a motore.
Già dalla seconda metà del Cinquecento, il bragozzo veniva utilizzato come barca da pesca lagunare. Nel tempo divenne una vera e propria barca d'altura per la pesca in mare.
La proposta ha l'obiettivo di andare alla scoperta di alcune isole poco conosciute (anche perché non raggiungibili con i mezzi pubblici) e delle attività di pesca e viticoltura che ancora vi vengono svolte.
L'itinerario prevede:
- partenza da Venezia (Ponte Tre Archi, raggiungibile a piedi o con i vaporetti linee 51, 52, 41, 42) o dalla terraferma (Forte Marghera a Mestre, raggiungibile in auto)
- navigazione in laguna fino all'isola di Mazzorbo, dove è previsto un incontro con i pescatori locali
- sbarco e visita alla chiesa di S. Caterina e alla cantina Venissa
- passeggiata a piedi fino a Burano dove ci si imbarca nuovamente con destinazione Isola di San Francesco del Deserto
- pranzo a bordo con prodotti tipici veneti
- nel pomeriggio visita del convento francescano
- imbarco e navigazione costeggiando l'isola di Sant'Erasmo, ricca di orti che forniscono le primizie poi vendute al mercato di Rialto
- sbarco e visita guidata all'isola del Lazzaretto Nuovo (area archeologica)
- imbarco e ritorno al punto di partenza nel tardo pomeriggio
Il tour viene effettuato per un minimo di 6 persone.
Periodo: da maggio ad ottobre.
Per maggiori informazioni: info@laltravenezia.it
o scheda tecnica: http://issuu.com/walterfano/docs/laguna_nord_laltravenezia
lunedì 14 marzo 2011
Sviluppo urbano nell'antica Venezia
Lo sviluppo urbano di Venezia è stato fortemente condizionato dall'ambiente naturale così insolito: la disposizione dei suoi spazi è stata dettata infatti dal continuo rapporto terra-acqua.
Per potersi sviluppare, la città ha dovuto strappare all'acqua il terreno su cui sorgere, rassodando con palafitte di legno o con strati di pietra gli isolotti situati nei luoghi maggiormente difendibili, tanto che il suo tessuto urbano ha assunto caratteristiche apparentemente casuali.
La laguna ha condizionato anche il gusto dei suoi abitanti, perché i rapporti spazio-colore e architettura-luce divennero fondamentali. L'architettura è misura e costruzione dello spazio, ma a Venezia lo spazio si trasformò in luce e colore.
E' facilmente intuibile come ambiente, clima e costume degli abitanti furono gli elementi che maggiormente condizionarono la realizzazione degli edifici pubblici e privati.
La prima accurata descrizione dell'ambiente lagunare è quella del prefetto romano Cassiodoro (VI secolo): "abitanti liberi e autonomi le cui risorse di vita sono la pesca e il sale, e le loro abitazioni sono per lo più di legno con tetto di paglia, materiali adatti ad un terreno fragile e fangoso".
Già nel IX secolo, in alcune zone dal terreno più compatto, si incominciò a costruire anche con la pietra, materiali provenienti per lo più dagli edifici romani distrutti dalle orde barbariche nelle zone di Aquileia e Altino.
Le case erano a due piani: quello inferiore in argilla, più umido, destinato a deposito e quello superiore in legno, più asciutto, ad uso abitativo. Le finestre erano strette, con inferriate, e non era ancora evidente, nella struttura, la distinzione tra i vari ceti sociali.
Nei quattro secoli seguenti si delineò (seguendo un principio policentrico, per cui intorno ad un campo e ad una chiesa si sviluppava il tessuto urbano) l'intera struttura della città, e a fine Trecento Venezia aveva già pienamente raggiunto la sua conformazione e dimensione, non molto diversa da quella che vediamo oggi.
Per potersi sviluppare, la città ha dovuto strappare all'acqua il terreno su cui sorgere, rassodando con palafitte di legno o con strati di pietra gli isolotti situati nei luoghi maggiormente difendibili, tanto che il suo tessuto urbano ha assunto caratteristiche apparentemente casuali.
La laguna ha condizionato anche il gusto dei suoi abitanti, perché i rapporti spazio-colore e architettura-luce divennero fondamentali. L'architettura è misura e costruzione dello spazio, ma a Venezia lo spazio si trasformò in luce e colore.
E' facilmente intuibile come ambiente, clima e costume degli abitanti furono gli elementi che maggiormente condizionarono la realizzazione degli edifici pubblici e privati.
La prima accurata descrizione dell'ambiente lagunare è quella del prefetto romano Cassiodoro (VI secolo): "abitanti liberi e autonomi le cui risorse di vita sono la pesca e il sale, e le loro abitazioni sono per lo più di legno con tetto di paglia, materiali adatti ad un terreno fragile e fangoso".
Già nel IX secolo, in alcune zone dal terreno più compatto, si incominciò a costruire anche con la pietra, materiali provenienti per lo più dagli edifici romani distrutti dalle orde barbariche nelle zone di Aquileia e Altino.
Le case erano a due piani: quello inferiore in argilla, più umido, destinato a deposito e quello superiore in legno, più asciutto, ad uso abitativo. Le finestre erano strette, con inferriate, e non era ancora evidente, nella struttura, la distinzione tra i vari ceti sociali.
Nei quattro secoli seguenti si delineò (seguendo un principio policentrico, per cui intorno ad un campo e ad una chiesa si sviluppava il tessuto urbano) l'intera struttura della città, e a fine Trecento Venezia aveva già pienamente raggiunto la sua conformazione e dimensione, non molto diversa da quella che vediamo oggi.
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giovedì 9 dicembre 2010
Lazzaretti
L'ubicazione particolare di Venezia, soglia d'Oriente per i commerci e luogo di transito per i pellegrinaggi in Terrasanta, pose presto il problema di arginare ricorrenti pestilenze portate dalle navi che qui si fermavano.
Dal più antico ricordo di contagio di peste del 954 se ne contarono successivamente ben 62.
Alla metà del Trecento, la Repubblica decide di eleggere tre Savi incaricati di occuparsi di questo problema. Si arrivò così al decreto del Senato del 28 agosto 1423 col quale si stabiliva l'utilizzo dell'Isola di Santa Maria di Nazareth (di fronte al Lido) come luogo di ricovero dei malati. Nacque così il primo lazzaretto del mondo: da "Nazareth" infatti viene, attraverso alcune modificazioni, la parola "Lazzareto".
Si era capito che bisognava provvedere all'isolamento e alla quarantena per circoscrivere in qualche modo il morbo e salvare il salvabile. Non si poteva certo impedire la circolazione delle persone e delle merci (sarebbe stato il collasso dell'economia), ma almeno cautelarsi isolando le persone che giungevano da paesi a rischio e tenerle in osservazione per minimo 40 giorni (da cui la parola "quarantena").
Si pensò inoltre di lasciare in quarantena non solo le persone ma anche le merci e gli animali, i quali dovevano essere lasciati esposti all'aria e disinfettati con fumi speciali.
L'isola si rivelò presto troppo piccola, pertanto si decretò l'acquisizione dell'isola di "Vinea Murata", di fronte a Sant'Erasmo, come Lazzaretto Nuovo.
Durante la peste del 1575, nel Lazzaretto Nuovo trovarono ricovero circa 10.000 persone, e attorno all'isola, ormeggiarono vascelli e altri natanti per dar rifugio ad altre migliaia di sventurati. Dice il Sansovino che erano presenti: "non meno di 3000 legni, grandi e piccoli, i quali avevano sembianza d'armata che assediasse una città di mare".
English version
Version française
(Fonte: Fuga e Vianello)
Dal più antico ricordo di contagio di peste del 954 se ne contarono successivamente ben 62.
Alla metà del Trecento, la Repubblica decide di eleggere tre Savi incaricati di occuparsi di questo problema. Si arrivò così al decreto del Senato del 28 agosto 1423 col quale si stabiliva l'utilizzo dell'Isola di Santa Maria di Nazareth (di fronte al Lido) come luogo di ricovero dei malati. Nacque così il primo lazzaretto del mondo: da "Nazareth" infatti viene, attraverso alcune modificazioni, la parola "Lazzareto".
Si era capito che bisognava provvedere all'isolamento e alla quarantena per circoscrivere in qualche modo il morbo e salvare il salvabile. Non si poteva certo impedire la circolazione delle persone e delle merci (sarebbe stato il collasso dell'economia), ma almeno cautelarsi isolando le persone che giungevano da paesi a rischio e tenerle in osservazione per minimo 40 giorni (da cui la parola "quarantena").
Si pensò inoltre di lasciare in quarantena non solo le persone ma anche le merci e gli animali, i quali dovevano essere lasciati esposti all'aria e disinfettati con fumi speciali.
L'isola si rivelò presto troppo piccola, pertanto si decretò l'acquisizione dell'isola di "Vinea Murata", di fronte a Sant'Erasmo, come Lazzaretto Nuovo.
Durante la peste del 1575, nel Lazzaretto Nuovo trovarono ricovero circa 10.000 persone, e attorno all'isola, ormeggiarono vascelli e altri natanti per dar rifugio ad altre migliaia di sventurati. Dice il Sansovino che erano presenti: "non meno di 3000 legni, grandi e piccoli, i quali avevano sembianza d'armata che assediasse una città di mare".
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Version française
(Fonte: Fuga e Vianello)
venerdì 27 agosto 2010
Isola di San Giorgio in Alga
Il nome dell' isola si riferisce alla presenza di alghe nella zona proliferate a causa dell'ambiente che si era creato nella fusione delle acque del fiume Brenta con quelle della laguna.
In quella zona si ha memoria, intorno al Trecento, dell'esistenza della così detta "Puncta canetorum", sorta di lunga penisola che si era formata da Fusina fino a collegarsi quasi con Venezia a Santa Marta. Terra che venne rimossa per impedire una facile via d'accesso alla città ad eventuali nemici. Si dispose di prelevare da quel sito la terra che serviva per bonificare e interrare altre zone della laguna.
L'isola di San Giorgio in Alga era luogo di accoglienza e di congedo di eminenti personaggi che giungevano a Venezia. Si ricorda in proposito la grande cerimonia organizzata per la partenza del re di Francia Enrico III per Fusina accompagnato dal doge Mocenigo, e in seguito l'accoglienza fatta al papa Pio VI.
Vi aveva sede un monastero benedettino, poi dal 1350 fu degli eremiti agostiniani.
Ma fu nel '400, con l'arrivo dei Canonici Regolari, che l'eremo divenne importante centro di umanisti. Fra questi si ricordano: Gabriele Condulmer, che divenne papa col nome di Eugenio IV, e quel Lorenzo Giustinian, detto "il Santo" che, dopo essere stato priore del monastero, fu nominato primo Patriarca di Venezia.
Il monastero vantava una preziosa biblioteca e varie opere d'arte del Veronese, del Vivarini e del Bellini; un angolo della laguna meta di raffinati studiosi.
Vi funzionava un sistema di segnalazioni per facilitare la navigazione delle imbarcazioni di passaggio, e la grande "cavana" accoglieva i natanti in caso di tempesta.
Ai Canonici Regolari subentrarono i Carmelitani Scalzi che vi rimasero fino al '700.
Nel 1717 un devastante incendio distrusse il sito con le sue preziose opere d'arte, biblioteca ed arredi vari; un vero disastro che segnò definitivamente il luogo.
Trasformato in carcere politico, con la caduta della Repubblica fu utilizzata come polveriera.
Ora restano i ruderi della chiesa, del monastero, della cavana, spogliati dei fregi, delle patere e di una vera da pozzo. C'era sull'angolo delle mura una statua della Madonna che ora è sistemata a Mazzorbo.
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Version française
Fonte: Fuga & Vianello
In quella zona si ha memoria, intorno al Trecento, dell'esistenza della così detta "Puncta canetorum", sorta di lunga penisola che si era formata da Fusina fino a collegarsi quasi con Venezia a Santa Marta. Terra che venne rimossa per impedire una facile via d'accesso alla città ad eventuali nemici. Si dispose di prelevare da quel sito la terra che serviva per bonificare e interrare altre zone della laguna.
L'isola di San Giorgio in Alga era luogo di accoglienza e di congedo di eminenti personaggi che giungevano a Venezia. Si ricorda in proposito la grande cerimonia organizzata per la partenza del re di Francia Enrico III per Fusina accompagnato dal doge Mocenigo, e in seguito l'accoglienza fatta al papa Pio VI.
Vi aveva sede un monastero benedettino, poi dal 1350 fu degli eremiti agostiniani.
Ma fu nel '400, con l'arrivo dei Canonici Regolari, che l'eremo divenne importante centro di umanisti. Fra questi si ricordano: Gabriele Condulmer, che divenne papa col nome di Eugenio IV, e quel Lorenzo Giustinian, detto "il Santo" che, dopo essere stato priore del monastero, fu nominato primo Patriarca di Venezia.
Il monastero vantava una preziosa biblioteca e varie opere d'arte del Veronese, del Vivarini e del Bellini; un angolo della laguna meta di raffinati studiosi.
Vi funzionava un sistema di segnalazioni per facilitare la navigazione delle imbarcazioni di passaggio, e la grande "cavana" accoglieva i natanti in caso di tempesta.
Ai Canonici Regolari subentrarono i Carmelitani Scalzi che vi rimasero fino al '700.
Nel 1717 un devastante incendio distrusse il sito con le sue preziose opere d'arte, biblioteca ed arredi vari; un vero disastro che segnò definitivamente il luogo.
Trasformato in carcere politico, con la caduta della Repubblica fu utilizzata come polveriera.
Ora restano i ruderi della chiesa, del monastero, della cavana, spogliati dei fregi, delle patere e di una vera da pozzo. C'era sull'angolo delle mura una statua della Madonna che ora è sistemata a Mazzorbo.
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Fonte: Fuga & Vianello
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