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martedì 26 ottobre 2010

Elena Lucrezia Corner Piscopia

Certo non è una prova definitiva della condizione femminile a Venezia all'epoca della Serenissima, il fatto che una nobildonna veneziana, Elena Lucrezia, Corner Piscopia, sia stata la prima donna al mondo a conseguire una laurea, però possiamo considerarlo un indice significativo del fatto che a Venezia le donne avevano una libertà superiore a quella del resto d'Europa.
Il padre di Elena si chiamava Giovanni Battista, era Procuratore di San Marco (la più alta carica dignitaria dopo il Doge) ed era un uomo di grande cultura: disponeva di una biblioteca personale di circa 4.000 volumi. Elena crebbe in questo ambiente e trovò nel padre incoraggiamento e aiuto al conseguimento dei suoi obiettivi culturali.
Elena nacque nel 1646 nel palazzo sul Canal Grande che diventerà di proprietà della famiglia Loredan e che oggi ospita il Municipio di Venezia. A sette anni il padre la affida ad insegnanti privati e a 15 anni parlava correntemente greco, latino, ebraico, spagnolo, francese e arabo. Ma lei studia anche matematica, astronomia e filosofia sotto la guida di uno dei maggiori scienziati del momento, Carlo Rinaldini.
Il padre consapevole del suo talento la iscrive all'Università di Padova, dove Elena vorrebbe studiare teologia, ma non le viene consentito. Sceglie quindi di dedicarsi alla filosofia, e nel 1677, in presenza dell'intero collegio di Padova, di gran parte del Senato e di un folto pubblico, sostenne la tesi sull'Analitica e Fisica di Aristotele. Il 25 giugno del 1678 viene insignita, prima donna al mondo, del titolo di "doctor". Data la grande affluenza di pubblico, la cerimonia si svolse in una chiesa!
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò, all'assistenza dei poveri. Morì a Padova il 26 luglio del 1684 malata di tubercolosi. Le sue spoglie riposano  nella chiesa di Santa Giustina.


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giovedì 7 ottobre 2010

Frederick Rolfe, Baron Corvo

"Corvo", perché questo epitaffio? Per romanticismo?
A Rolfe era sempre piaciuto il blasone, quand'era seminarista si componeva lo stemma, immaginava insegne, arrivava in refettorio con un corvo impagliato sulla spalla.
Una vita di solitudine e di miseria, un carattere instabile, eccentrico, cavilloso, vizioso, vendicativo, dotato per tutte le arti, sempre in lite con gli amici, cartomante, invaghito del passato della Chiesa, del Rinascimento, adorava i fasti cattolici senza la vocazione del sacerdozio.
A. Symons, nella sua famosa Quest for Corvo (indagine postuma condotta presso tutti coloro che avevano conosciuto Rolfe), traccia la sua vita dal seminario fino a Venezia.
Baron Corvo però non doveva trovare da appollaiarsi in quella città senza alberi.
Membro del circolo nautico del Bucintoro, Corvo aveva anche imparato a condurre la gondola, arte antica e difficile. Quando cadeva in acqua, continuava a fumare la pipa, così come Byron quando nuotava nel Canal Grande teneva il sigaro in bocca per "non perdere di vista le stelle".
Corvo, autore del prestigioso Adriano VII (1904), che conobbe il successo solo dopo la sua morte (1913), ci ha lasciato, del suo incontro con Venezia, una lettera bella quanto una notte bianca in laguna: "Un mondo crepuscolare, fatto d'un cielo senza nubi, d'un mare senza increspature, dove tutto è malva, tiepido, liquido e limpido, tagliato da strisce di rame bronzeo, che va fondendosi nell'azzurro insondabile".
Ancora ci sembra di vedere Corvo scacciato da tutte le locande, portare a spasso i suoi panni in un paniere e dormire sul fondo di una barca, sempre sull'orlo del suicidio, scrivere a fior d'acqua su un quaderno gigante, in pieno inverno, le sue famose "Lettere a Millard" che nessuno potrà mai leggere.


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mercoledì 25 agosto 2010

Eleonora Duse

Eleonora Duse, che abitò a lungo all'ultimo piano di palazzo Barbaro Wolkoff sul Canal Grande tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, si sentiva veneziana nell'anima. D'altronde l'attrice, sebbene nata a Vigevano nel 1858, era originaria di Chioggia da parte di padre.
Palazzo Barbaro è separato da poco più di due metri dal palazzo Dario, che a quell'epoca era abitato dalla contessa De La Baume, che vi accoglieva una piccola corte di amici intellettuali: Angelo Conti, Mariano Fortuny, Mario de Maria, Gabriele D'Annunzio e altri.
Il grande regista Reinhardt favoleggiò di un casuale incontro tra la Duse e D'Annunzio vicino alle porte d'acqua dei due palazzi. Chissà, forse potrebbe persino essere vero!
Proprio Venezia quindi (città nella quale ebbe il suo primo grande successo teatrale con La principessa di Baghdad di Alexandre Dumas nel 1882), fu lo sfondo della loro tormentata storia d'amore, narrata dallo stesso D'Annunzio nel suo libro "Il Fuoco".
Seguire le vicende di questo amore aiuta a comprendere meglio sia lei che lui, ed è un vero peccato che le lettere di Gabriele ed Eleonora siano state distrutte per volontà della stessa Eleonora.
Ella fu una grandissima attrice, e se ebbe una vita sentimentale animata e varia, seppe trarne giovamento per la sua arte.
Dopo il matrimonio con l'attore Teobaldo Checchi (da cui ebbe una figlia, Enrichetta), ebbe diversi amanti, ma poi nel 1884 si legò col poeta e musicista Arrigo Boito, un uomo di vasta e profonda cultura, autore del Mefistofele e di numerosi libretti d'opera di Giuseppe Verdi, tra cui l'Otello e il Falstaff. Boito adattò per la Duse Antonio e Cleopatra di Shakespeare che andò in scena il 22 novembre 1888 al Teatro Manzoni di Milano.
La loro relazione durò sette anni e fu intensa ed appassionata, come testimoniano le numerose lettere rimaste. Boito fu per lei amico, amante e maestro.
Donna intelligente e libera, fu considerata con Sarah Bernhardt la più grande attrice dell'epoca e simbolo della belle epoque.
Quando inizia la sua relazione con D'Annunzio è al colmo della celebrità in Europa e oltre oceano, e ci si domanda chi dei due ha dato di più all'altro. Infatti fu lei a portare sulle scene i drammi dannunziani: Il sogno di un mattino di primavera, La Gioconda, Francesca da Rimini, La città morta, La figlia di Iorio, spesso finanziando ella stessa le produzioni e assicurando loro il successo e l'attenzione anche fuori dall'Italia.
Il 2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano l'opera La figlia di Iorio viene interpretata da Irma Grammatica, poiché la Duse si era detta malata, ma forse il problema era un altro. Nella vita di D'Annunzio infatti si stava affacciando la marchesa di Rudinì, e la storia con la Duse era giunta alla fine.
Nel 1907 D'Annunzio scriverà nei suoi Taccuini: "Nessuna donna m'ha mai amato come Eleonora, né prima, né dopo. Questa è la verità lacerata dal rimorso e addolcita dal rimpianto". Ma lei questa frase non la lesse mai: i Taccuini furono pubblicati solo nel 1965.
Il fotografo Giuseppe Primoli ebbe il privilegio di fotografarla nel suo appartamento a Palazzo Barbaro, così lo descrive: "L'aveva arredato con pochi mobili antichi e molti tappeti, i fianchi delle lunghe scale che occorreva salire per giungervi, erano stati ricoperti con stoffe scarlatte appese". La Duse chiese di non rendere pubbliche quelle fotografie, che infatti vennero pubblicate solo dopo la sua morte, avvenuta a Pittsburgh nel 1924.
Fu sepolta ad Asolo, dove negli ultimi anni abitò in un elegante palazzetto nella splendida Via Canova. Pochi anni prima aveva scritto ad un amico: "Asolo è bello e tranquillo, paesetto di merletti e poesia. Non è lontano dalla Venezia che adoro, vi stanno dei buoni amici che amo. Questo sarà l'asilo della mia ultima vecchiaia, e qui desidero essere seppellita"
Sulla sua lapide D'Annunzio dettò l'epitaffio: "Figlia ultimogenita di San Marco".

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giovedì 29 luglio 2010

Gaspara Stampa

Gaspara Stampa, la voce piu' autentica e spontanea della poesia italiana del seidicesimo secolo, nacque a Padova nel 1523 da una colta ma modesta famiglia di commercianti. Nel 1531, alla morte del padre Bartolomeo, si trasferì a Venezia con la madre, il fratello Baldassare e la sorella Cassandra. A Venezia tutti e tre ebbero una buona educazione letteraria e artistica, in particolare le due sorelle divennero presto ammirate cantanti e suonatrici di liuto. La casa Stampa divenne un salotto letterario tra i più frequentati dai maggiori musicisti, pittori e letterati di Venezia.
Gaspara, ammirata come cantante oltre che per la sua bellezza, ebbe molti corteggiatori. Alcuni elementi inducono a pensare che fosse una cortigiana, una di quelle cortigiane colte ed eleganti, d'alto rango, di cui specialmente Venezia nel '500 era piena, e che viveva in un ambiente raffinato composto di nobili e artisti che avevano il culto della poesia, della musica e delle arti in genere. Qualunque sia la sua biografia, di cortigiana oppure no, Gaspara dovette essere una donna che con prontezza d'ingegno e vivacità, riuscì a vivere in una certa libertà di affetti e di costumi, svincolata da rigidità morale, e ciò nulla toglie alla considerazione dei suoi versi, spesso severamente giudicati.
A 25 anni si innamorò follemente di Collatino di Collalto al quale dedicò versi e rime sublimi, che le hanno donato un posto d'onore nella letteratura. Il suo legame con il conte fu tempestoso e doloroso. Da parte sua sua fu un amore sincero, con sentimento quasi disperato. Il conte, invece, ricambiò solo a tratti la passione di Gaspara, l'amò più per vanità che per trasporto. Collatino si allontanava spesso e Gaspara soffriva immensamente della lontananza. La loro relazione si interruppe definitivamente nel 1551.
Fu un colpo duro per Gaspara che ne risentì anche nel fisico e a nulla valsero le attenzioni del nobile veneziano Bartolomeo Zen. Si pensa che Gaspara abbia soggiornato a Firenze, di certo morì suicida a Venezia nel 1554, a soli 31 anni.
Poco dopo la sua morte la sorella Cassandra pubblicò le oltre 300 composizioni del suo Canzoniere, una forma di diario intimo dove si alternano gioie ed angosce. E' una delle testimonianze letterarie più delicate della sensibilità femminile dell'epoca.

martedì 27 luglio 2010

Il Conte Amedeo VI di Savoia e Venezia


Fra il 1366 e il 1367 Amurat I, Sultano dei Turchi, aveva fatto di Andrinopoli capitale del suo impero, che, poco distante da Costantinopoli, capitale dell'impero greco, ne andava a minacciare la sopravvivenza stessa.
L'imperatore Giovanni Paleologo, sentendo il pericolo prossimo, sollecitava soccorsi dall'Europa, ed il Papa Urbano V, fortemente desideroso di riconciliare la chiesa Greca con quella Latina, spinse le potenze d'Europa ad armarsi per la gran causa della religione e della civiltà.
I soli ad inscriversi per quella crociata furono Giovanni II re di Francia, Pietro di Lusignano re di Cipro ed Amedeo VI di Savoia, detto “Il Conte Verde”.
Ma entro breve sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe sconvolto la messa in opera della crociata stessa…
Il re francese morì, il re di Cipro che aveva preso Alessandria d'Egitto, ne è respinto dai Turchi, e “il Conte Verde”, cugino dell’Imperatore stesso, resosi conto delle condizioni agonizzanti dell’Impero e - soprattutto – dalla corruzione e decadenza della società bizantina stessa, così diversa dalla schiettezza a volte anche un po’ rude, ma onesta e sincera, dei savoiani e piemontesi, e, nonostante si trovasse solo nel rischio, non esita a prepararsi e ad invitare i suoi parenti ed alleati a condividere con lui le guerriere fatiche e la gloria.
A sue spese noleggiò galee Veneziane per il trasporto del suo esercito di cavalieri e fanti.
Le milizie lombarde presenti erano guidate da Cesare Visconti (nipote del “Conte Verde”), mentre le galee veneziane erano comandate da Federico Corner.
Il risultato fu veramente degno di un’abile condottiero alla guida di un’esercito ben organizzato ed addestrato:
riprendono Gallipoli con un eroico assalto (estate del 1366), liberano i Dardanelli dai Turchi, riconquistano il tratto di costa europea del Mar Nero strappando varie città ai Bulgari (fra cui Sozopoli, Anchialo, Mesembria e Varna) e riconsegnandole all’Impero.
Finalmente, il 23 gennaio del 1367, la spedizione termina con la liberazione dell’Imperatore Giovanni Paleologo che era stato fatto prigioniero dallo Zar dei Bulgari, Giovanni Shishman.
Il ritorno in patria è trionfale: grandi accoglienze vengono riservate in tutte le città veneziane toccate (da Corone a Durazzo, a Zara), nella stessa Venezia, a Milano e a Pavia.

Nel 1350 fonda l'Ordine del Cigno Nero (in occasione delle nozze della sorella Bianca con Galeazzo II Visconti), e la Compagnia del Collare,a capo della quale partecipa a molti tornei: il gruppo era formato da 15 cavalieri, che oltre all'abito verde portavano un collare d'argento dorato con il motto “FERT” (Fortitudo Eius Rhodum Tenuit ) chiuso da un anello con tre lacci d'amore a doppio intreccio, dono del Conte e prezioso segno di riconoscimento.
La compagnia del Collare divenne in seguito Ordine Cavalleresco, e fu dotato successivamente dallo stesso fondatore di carattere religioso-militare.
La Compagnia diverrà nel 1518 successivamente l’Ordine dell'Annunziata con Carlo II, che portò il numero dei cavalieri da 15 a 20 e ne modificò il collare, che risultò composto da lacci d'amore intrecciati con il motto "FERT" ma con l’aggiunta di 15 rose bianche e vermiglie, alternate, in onore della Vergine, e un medaglione con raffigurata l'Annunciazione.
In seguito diverrà la suprema ricompensa concessa per alti servigi resi allo Stato: gl'insigniti dell'Ordine erano considerati “cugini” del re.

Il “Conte Verde” muore di peste a Santo Stefano presso Castropignano (Campobasso) il 1° Marzo 1383, durante una spedizione dov’è accorso con 1000 lance per sostenere i diritti di Luigi D’Angiò, sul Regno di Napoli.
Fu sepolto a Hautecombe, in Savoia.

martedì 20 luglio 2010

Una veneziana sul trono di Costantinopoli

Nel 1559 un certo Hasan, che si dice inviato del principe turco Selim II, arriva a Venezia con l'incarico di raccogliere notizie sul casato della moglie del suo signore.
La storia è curiosa. Una patrizia veneziana, Cecilia, rapita da Barbarossa a Paros nel 1537, è finita nel serraglio del sultano dei turchi. E' figlia di Nicolò Venier, che governa l'isola per conto della Serenissima, e di Violante Baffo.
Fatta schiava, la giovane viene condotta a Costantinopoli, impara il turco, diventa musulmana e prende il nome di Nur Banu, "Signora Luce".
Il suo splendore tramortisce Selim, Principe Ottomano, un uomo non facile e a quanto pare non proprio gradevole, smodato nel bere e tanto grasso da non poter stare neanche a cavallo.
Nur s'impone con intelligenza e nel 1546 l'unione viene cementata dalla nascita di Murat.
La personalità di Nur si delinea nitidamente con gli anni, per esprimersi a pieno durante il regno del figlio, il piccolo e tozzo Murat, non spiacente nel volto, ma debole di carattere e non incline agli affari di Stato. E' allora che la potente sultana comincia ad intervenire nella condizione dell'impero: propone ministri e gran visir, si mantiene in contatto con i governi europei (in particolare con Venezia), e corrisponde con altre signore dell'epoca, come Caterina de' Medici, reggente del regno di Francia.
Nur Banu personifica l'essenza della cultura ottomana, e se in privato coltiva abitudini e convinzioni d'altro genere non lo sapremo mai. Visita i santi musulmani, fa devozione, promuove la costruzione di opere pie, finanza fondazioni religiose.
Muore il 7 dicembre del 1538, dopo una breve ma devastante malattia, circondata dal sospetto di avvelenamento.
Secondo il suo volere viene seppellita nel complesso della Basilica di Santa Sofia, in un piccolo mausoleo decorato con splendide ceramiche di Iznik.
Un estremo desiderio, forse espresso per riannodare il filo spezzato della sua origine cristiana ed europea
.

martedì 1 giugno 2010

Giovanni Caboto

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Giovanni Caboto (?, 1450 circa – Inghilterra, 1498) è stato un navigatore ed esploratore italiano, famoso per aver continuato l'opera di Cristoforo Colombo iniziando la serie di grandi viaggi di scoperta verso il nord-ovest, in particolare per aver scoperto il Canada il 24 giugno 1497.
A seguito della conquista di Gaeta da parte degli Aragonesi, la famiglia Caboto, temendo la vendetta dei vincitori, dovette abbandonare Gaeta e rifugiarsi nel 1461 in Venezia. Circa 15 anni dopo essersi trasferito in Venezia, nel 1476, Giovanni ottenne dal Senato di Venezia la cittadinanza.
Si sposò con Mattea, da cui ebbe tre figli (Sebastiano, Luigi e Santo) che lo seguirono in numerosi viaggi in Oriente, acquisendo ottime abilità nell'arte della navigazione.
Purtroppo la Serenissima non fu così lungimirante ed interessata a sfruttare le qualità del giovane navigatore, perdendo l'occasione storica di inserirsi nel gruppo delle grandi potenze marinare europee impegnate nell'esplorazione degli oceani e di mari sconosciuti, un campo dove predominavano spagnoli e portoghesi, limitandosi così a dedicarsi ai traffici commerciali all'interno del Mar Mediterraneo, non capendo che da lì a poco tutto il mondo dei traffici commerciali sarebbe stato rivoluzionato.
Caboto si spostò infatti a Valencia dove diresse i lavori di ampliamento del porto voluti dal re Ferdinando II d'Aragona. Nel 1493 Cristoforo Colombo ritornava dal suo primo viaggio transatlantico. Ma Caboto intuì che il genovese non aveva raggiunto l'Estremo Oriente e propose a Ferdinando II e Isabella di Castiglia di affidargli un viaggio esplorativo lungo una rotta più settentrionale.
Avendo ricevuto un rifiuto, si trasferì nel 1496 in Inghilterra, per convincere il re Enrico VII a sostenere il suo progetto. Il re, che già aveva perso l'occasione di avere Cristoforo Colombo al proprio servizio, si affrettò a concedere l'autorizzazione a Giovanni Caboto e accolse il suo progetto di viaggio con lettere patenti del 5 marzo 1496. Nel porto di Bristol fu così organizzata una spedizione di cinque navi, armate a spese di Caboto.
Tuttavia, per ragioni ancora da chiarire, il 2 maggio 1497 salpò solo una di esse, il Matthew, naviglio di cinquanta tonnellate con un equipaggio di diciotto uomini: con molta probabilità, si imbarcarono anche i figli Luigi e Sebastiano.
Il 24 giugno 1497, approdò sull'isola di Capo Bretone e toccò la Nuova Scozia, avvistando l'isola di Terranova, e, nell'illusione di aver toccato l'estremità Nord Orientale dell'Asia, ne prese possesso in nome di Enrico VII.
Sulla nuova terra scoperta Caboto piantò la bandiera inglese e quella della Repubblica di Venezia.
Ai primi di agosto, dopo un'assenza di circa tre mesi il Matthew fece ritorno a Bristol e la notizia delle nuove scoperte venne accolta in Inghilterra con grande giubilo anche tra la popolazione. Enrico VII concesse allo scopritore un premio di dieci sterline e più tardi una pensione annua di venti sterline.
L'anno successivo Enrico VII, con le lettere patenti del 3 febbraio 1498, autorizzò Giovanni Caboto ad approntare una spedizione di sei navi e almeno duecento uomini di equipaggio, allo scopo di colonizzare le terre scoperte e proseguire la ricerca di altre terre, nella speranza di poter raggiungere il favoloso Cipangu (l'odierno Giappone).
Le navi salparono nell'estate del 1498: con il figlio Luigi, Caboto toccò il Labrador e costeggiò la Groenlandia meridionale. A questo punto, si perdono le tracce della spedizione inglese.
Secondo alcuni storici, Caboto avrebbe raggiunto le coste del Nord America e avrebbe iniziato a procedere in direzione sud-ovest come previsto dal suo programma. Ciò sarebbe avallato dal fatto che tre anni dopo, nel 1501, l'esploratore Gaspar Corte-Reál ricevette dagli indigeni del Nord America, con cui era entrato in contatto, alcuni oggetti probabilmente appartenuti agli uomini della spedizione di Caboto, ma nulla si seppe della fine dell’intero equipaggio e del suo comandante.
Nonostante il misterioso epilogo della spedizione del 1498 e il blocco di ulteriori esplorazioni inglesi durante il regno di Enrico VII, la spedizione di Caboto pose le basi della futura colonizzazione inglese del Nord America. Inoltre le esplorazioni di Giovanni Caboto assicurarono ai geografi europei le prime indicazioni scientifiche circa la vastità del continente americano e stimolarono la ricerca di un passaggio a Nord-Ovest verso l'Estremo Oriente.

venerdì 28 maggio 2010

Franchetti

La Cà d’Oro fu fatta costruire da Marino Contarini nel 1400 in pieno stile gotico fiorito e fatto decorare con sottili lamine d’oro (da cui il nome) che lo resero immediatamente il palazzo più ammirato del Canal Grande. I Contarini abbandonarono il palazzo a fine ‘700 con la caduta della Repubblica. Fu poi acquistato da un principe russo che ne affidò il restauro ad un ingegnere tedesco che fece uno vero e proprio scempio. Fortunatamente alla fine del 1800 fu acquistato dal Barone Giorgio Franchetti (nobile famiglia di lontane origini mantovane), che lo restaurò ispirandosi al disegno originario, ricreando in pratica l’ambiente di una ricca casa di un patrizio nel 1400; ma fin dall’inizio il suo intento non era di farne una dimora ma di realizzare un vero e proprio museo e di ospitarvi la propria collezione di opere d'arte per renderla visitabile al pubblico. Nel 1916 Franchetti stipulò un accordo con lo Stato Italiano nel quale si impegnò a cedere il palazzo al termine dei lavori in cambio della loro copertura finanziaria. Il 18 gennaio del 1927 venne inaugurato il museo intitolato "Galleria Giorgio Franchetti" alla memoria del barone, scomparso nel 1922.

Il personaggio più avventuroso della famiglia Franchetti è senz’altro l’esploratore Raimondo (1981-1935) che dalle Montagne Rocciose, ai Mari della Cina, all’Africa, viaggiò senza sosta (a parte la parentesi della prima guerra mondiale a cui partecipò).
Ventenne, fu abbandonato su un’isola in Malesia, poiché sull’imbarcazione su cui viaggiava era scoppiata la peste e così, si ritrovò a vivere da solo con una tribù locale per circa un anno.
Fu ritrovato da una missionaria inglese quando ormai tutti lo davano per morto.
Nel 1911 documentò la rivoluzione in Cina.
Nel 1920 sposò a Venezia (nel palazzo Cavalli-Franchetti sul Canal Grande) la contessina Bianca Rocca, discendente per parte di madre dalla famiglia dei dogi Mocenigo, da cui ebbe quattro figli.
Il paese che segnò la sua vita fu però l’Africa, dove, a più riprese, partecipò a varie spedizioni (spesso accompagnato da Luca Comerio, fotografo ufficiale di Casa Savoia, e pioniere del filmato documentaristico)
Memorabile fu quella in Dancalia sulle tracce della spedizione Giulietti massacrata dai dancali.
Su questa impresa scrisse il libro “Nella Dancalia etiopica”, e in ricordo chiamò sua figlia Afdera (che sposerà Henry Fonda) dal nome del lago etiope da lui ribattezzato Giulietti.
Morì in un incidente aereo mentre viaggiava con il governatore onorario della colonia eritrea, insieme al quale stavano trattando con il Negus circa la possibilità di evitare la guerra.
L'incidente suscitò immediatamente vasta eco, anche sulla stampa estera e subito, più volte, si parlò di attentato, forse ad opera di agenti britannici, ma le vere cause non furono mai chiarite. Anzi, la commissione di inchiesta inviata dal governo italiano, per probabili ragioni di opportunità politica, dichiarò rapidamente l'impossibilità di appurare le ragioni dell'incidente.

Da ricordare anche Alberto Franchetti, famoso musicista, che collaborò con D’Annunzio e che fu strettamente amico di Puccini e Mascagni, le cui opere furono dirette da Toscanini e da Mahler
.

giovedì 6 maggio 2010

Guido Alberto Fano

Guido Alberto Fano nasce a Padova il 18 maggio 1875. Inizia gli studi musicali con Vittorio Orefice (noto maestro di canto e direttore di coro) e intraprende poi quelli pianistici sotto la guida di Cesare Pollini. Nel 1894 Giuseppe Martucci lo vuole suo allievo di pianoforte e composizione a Bologna. Nel 1896 si reca in Germania e Austria per una tournée concertistica e per conoscere la vita musicale di quei paesi, grazie a una borsa di studio ministeriale per perfezionamento all'estero ottenuta "per singolari meriti di composizione".
Nel 1897 consegue il Diploma di Maestro Compositore a pieni voti con lode presso il Liceo musicale di Bologna. L'anno seguente vince il Primo premio nel Concorso indetto dalla Società del Quartetto di Milano con la Sonata per pianoforte e violoncello. Viene nominato Direttore dell'Accedamia "Pierluigi da Palestrina" di Bologna per lo studio e la diffusione dell'arte corale antica italiana.

Nel 1899 ottiene la nomina di insegnante di pianoforte al Liceo Musicale di Bologna, e nel 1900 il diploma di organizzatore dei concerti spirituali per la Mostra di Arte Sacra San Francesco di Bologna. Ottiene inoltre una Menzione d'onore al "Concorso Internazionale Rubinstein per compositori" di Vienna, con l'Andante e Allegro con fuoco per pianoforte o orchestra, la Sonata per pianoforte e violoncello, le Quattro Fantasie per pianoforte solo.
Nel 1905 è nominato Direttore del Regio Conservatorio di Musica di Parma a seguito di concorso per titoli, unico vincitore su trentasei concorrenti per giudizio unanime dei commissari Toscanini, D'Arienzo, Falchi, Gallignani, Zuelli.
Fra il 1905 e il 1912 forma, promuove e incoraggia istituzioni di concerti e di varia cultura musicale, esegue concerti come pianista solista e di musica da camera, dirige concerti sinfonici.
Nel 1911 rifiuta la nomina a insegnante e virtuoso di pianoforte al "College of Music" di Cincinnati Ohio (U.S.A.). Nel 1912 viene nominato Direttore del Regio Conservatorio "San Pietro a Majella" di Napoli.
Nel 1916 riceve la nomina a Direttore del Regio Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo. Nel 1922 ottiene la nomina a Professore di pianoforte principale al regio Conservatorio "G. Verdi" di Milano.
Dal 1938 è rimosso dall'insegnamento a causa delle leggi razziali e dal 1943 al 1945 è costretto a fuggire e rifugiarsi a Fossombrone e Assisi.
Alla fine della guerra riprende il suo posto di insegnamento che lascia definitivamente nel 1947, anno in cui viene collocato a riposo.Muore il 14 agosto 1961 a Tauriano di Spilimbergo (Udine).

La sede dell'Archivio Musicale Guido Alberto Fano è in Calle del Tagiapiera 4674, nel sestiere di Cannaregio, a un passo dalla fermata di Ca' D'Oro. In un'elegante palazzina, al primo piano c'è la casa-museo di chi fra la fine dell' Ottocento e la prima metà del Novecento fu uno dei più significativi musicisti italiani. All'ingresso fa bella mostra di sé il pianoforte Bosendorfer su cui era solito comporre, in salotto, oltre a una biblioteca che raccoglie fra l'altro edizioni cinquecentesche, a partiture e a registrazioni, spiccano i ritratti ad olio del Maestro e della moglie, gli album fotografici, le reliquie di una vita piena, ricca di avvenimenti, di gioie e di dolori: i trionfi musicali, le persecuzioni razziali, gli esili, le incomprensioni...
Anima della neonata associazione è Vitale Fano, nipote di Guido Alberto e figlio di Fabio Fano: una dinastia di musicisti e di musicologhi, la sua, che lungo tutto il Novecento ha visto il nome dei Fano dividersi fra i conservatori di Venezia, Napoli, Palermo, Bologna, Milano, Parma.

mercoledì 14 aprile 2010

Hugo Pratt, viaggiatore incantato

"Avevo quattro o cinque anni, forse sei, quando mia nonna si faceva accompagnare da me al Ghetto Vecchio di Venezia. Andavamo a visitare una sua amica, la signora Bora Levi, che abitava in una casa vecchia. A questa casa si accedeva salendo un’antica scala di legno esterna chiamata “scala matta” oppure “scala delle pantegane”, o ancora “scala turca”. La signora Bora Levi mi dava un confetto. una tazza di cioccolata bollente e densa, e due biscotti senza sale. che non mi piacevano. Poi lei e la nonna, immancabilmente, si sedevano e giocavano a carte, sorridendo e sussurrando frasi per me incomprensibili. E così, a me non restava che passare minuziosamente in rassegna tutti i cento medaglioni appesi alla parete di velluto rosso scuro, che mi osservavano dai loro ovali di vetro. Dico che mi osservavano, perché questi medaglioni racchiudevano vecchi ritratti di severi signori in uniformi asburgiche o di rabbini con treccine nere e feltri a larghe tese. E tutti sembravano fissarmi con un’insistenza che certo sconfinava nell’indiscrezione. Un po’ imbarazzato andavo alla finestra della cucina e guardavo giù in un campiello erboso con una vera da pozzo coperta di edera. Quel campiello ha un nome: Corte Sconta detta Arcana. Per entrarvi si dovevano aprire sette porte, ognuna delle quale aveva inciso il nome di un shed, ossia di un demonio della casta dei Shedim, generata da Adamo durante la sua separazione da Eva, dopo l’atto di disubbidienza . Ogni porta si apriva con una parola magica, che era poi il nome del demone stesso.
Li ricordo ancora quei nomi terribili: Sam Ha, Mawet, Ashmodai, Shibbetta, Ruah, Kardeyakos, Nà Amah.
Ricordo che un giorno la signora Bora Levi mi prese per mano e mi condusse nella Corte Sconta illuminando il cammino con un “menorah”, il candelabro a sette braccia, e ogni volta che apriva una porta soffiava su una candela. La corte era piena di sculture e graffiti: un re armato di arco e frecce, a cavallo di un dio; un neonato; una cacciatrice anch’essa con arco e frecce; una vacca con un occhio solo; una stella a sei punte; un cerchio tracciato nei suo1o con lo scopo di far ballare una ragazza nuda; i nomi degli angeli caduti o veleni di Dio, Samael, Satael, Amabiel. La signora ebrea mi parlava di tutte quelle cose, rispondendo alle mie domande. Poi apriva una porta sul fondo della corte e mi faceva passare in una calle con le erbe alte, che conduceva in un altro campiello bellissimo e che molto più tardi ritrovai uguale e pieno di fiori in una casa della Juderia di Cordoba.
Ricordo che nella Corte Sconta c’era una signora molto bella, sempre circondata da bambini e fanciulle che giocavano attorno a una farfalla gigante di vetri colorati. Era Aurelia, la farfalla gnostica.
La gnosi rappresentando se stessa come fonte inesauribile di sapienza e offrendo, in mille riflessi di vari colori, quello che ognuno desidera..."

(Hugo Pratt)
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“Vustu che mi te insegna a navegar?
Vate a far una barca o una batela,
Co ti l’a fata, butila in mar,
La te condurà a Venezia bela”.
Così recita una delle delicate Villotte Veneziane. Pratt, invece, ha fatto in qualche modo il percorso inverso. Dopo l’infanzia veneziana ha girato il mondo e la sua barca l’ha condotto lontano, dall’Africa al Sud America.
Questo tuttavia non lo ha snaturato: una volta imparato “a navegar” a Venezia, è stato ben capace di solcare tutti i mari, ovunque riscoprendo – in un angolo, in un’atmosfera, in un personaggio – Venezia,
e a Venezia poi ritrovando luoghi, colori, sensazioni dei più sperduti posti del globo.
Sì, un viaggiatore incantato. E di tanta sua meraviglia ci ha fatto partecipi. Quanti tramonti esotici, quanti inseguimenti, quante avventure abbiamo vissuto insieme a Corto Maltese!
Umberto Eco ha definito Pratt “il Salgari dei nostri tempi”, ma se Sandokan è l’eroe perfetto, Corto è l’uomo del nostro tempo, è Ulisse nel cuore e nella mente. E infatti, quale altro aggettivo meglio si adatta a Corto se non il “politropos” che Omero straordinariamente scelse per il re di Itaca?
Amava dire Pratt: “Mi diverte essere inutile”. Era una sfida, uno sberleffo contro chi si ostinava a non capirlo e a non coglierne la grandezza d’artista. Ma era anche la semplice verità.
Certo che si divertiva, perché lui sapeva “andare in altre direzioni”, uscire dal gregge, prendere il largo. E certamente era inutila, perché non si faceva usare.
Era inutile come i racconti d’avventura, inutile come i sogni, come la dolce trasgressione.
Inutile… o no?

(Massimo Cacciari)

lunedì 12 aprile 2010

Josif Brodskji, il poeta russo che amò Venezia

In America sul comodino degli alberghi, si trova una copia della Bibbia. Da qualche anno, in quelli più importanti, anche un libro di Josif Brodskji, un uomo convinto che la poesia come le automobili, può portare lontano, perché è uno straordinario acceleratore mentale, e il poeta è l’animale più sano, l’unico che riesca a fondere il mondo razionale con il mondo intuitivo.

Josif Brodskji nasce a S. Pietroburgo il 24 maggio del 1940. Il padre Alexandr era ufficiale della Marina sovietica con la passione per la fotografia. Una passione che diventò un mestiere-ripiego, quando, a causa dell’origine ebraica, sopraggiunse il prepensionamento, perché l’antisemitismo stava diventando dottrina di stato. La madre Maria Volpert, durante la guerra lavorò come traduttrice nei campi di lavoro per prigionieri tedeschi, e finì per fare la contabile.

Esordì nel 1958 pubblicando alcune poesie in una rivista clandestina; venne subito riconosciuto come uno dei poeti di maggior talento della sua generazione e ricevette il sostegno della poetessa Anna Achmatova, che gli dedicò una delle sue raccolte (1963).
Fu denunciato per la prima volta da un giornale di Leningrado, che attaccò i suoi lavori come pornografici e antisovietici.
Nel 1964 fu arrestato con l'accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell'opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo diciotto mesi, tornò a vivere a Leningrado, dedicandosi soprattutto alla traduzione di poeti inglesi.
Nel frattempo venne pubblicata a New York, nel 1970, la sua raccolta di versi Fermata nel deserto, che confermò il suo straordinario estro poetico.
Nel 1972 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare e si stabilì negli Stati Uniti, dove tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982).
Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura.

A dare il ritmo al suo destino saranno S. Pietroburgo e quel quotidiano fatto di diversità consapevole, coltivata dalla sua famiglia, in un Paese in cui la regola era essere uguali. Una città sospesa, lontana, affollata d’odori, ricordi, densa di personaggi letterari, e mai dimenticata, ritrovata in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascerà la descrizione in Fondamenta degli Incurabili (1989), attraverso un inimitabile gioco di specchi.

È quella città, insieme con una capacità di raccogliere tutto quello che si sospendeva sulla retina, ad averlo reso grande. Sia la fotografia sia la poesia colgono frammenti di vissuto, ma se la prima coglie l’attimo, la superficie, la seconda guarda all’eterno.

Ogni anno in prossimità delle feste natalizie, Josif Brodskji si recava a Venezia. Riteneva che fosse l’unico periodo possibile per viverla. La nebbia, i colori smorzati, il suono dell’acqua, non erano disturbati dallo sciame di turisti e permettevano all’occhio di studiare il mondo esteriore, perché le basse temperature erano il clima ideale per rendere omaggio alla sua bellezza. E poi la nebbia consentiva di dimenticarsi di sé, in una città che aveva smesso di farsi vedere. Del resto per lui le stagioni erano delle metafore, e l’inverno da qualsiasi continente si veda è un po’ antartico.

L’acqua è il luogo dove il tempo fisico e quello metafisico si fondono. L’elemento che mette in discussione il principio d’orizzontalità, che rivela la profonda solitudine di ogni essere umano, la sua precarietà, trasformando anche i piedi in organo dei sensi. E se l’acqua è uguale al tempo, Venezia che dall’acqua è toccata, non fa altro che migliorare, abbellire il tempo, restando uguale a se stessa.

Per Brodskji, annusare Venezia è come toccare la propria essenza dispersa, entrare nel proprio autoritratto. Essere felice. Una felicità legata all’equilibrio sensoriale, l’unica che avrebbe potuto accettare.

Basterebbe questo per fare di Fondamenta degli incurabili, un libro da custodire gelosamente perché l’acqua, oltre alla città e ai sensi, sono i protagonisti assoluti:
“Acqua è uguale a Tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua,  serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’Universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro, mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama.”

Morì nel proprio appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore nel 1996.
Per sua volontà è stato sepolto nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia.

« Giudice: Qual è la tua professione?,
Brodskij: Traduttore e poeta.
Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano? »
(Atti del processo del 1964)


Fonti: Italia Libri, Adelphi, Wikipedia

venerdì 9 aprile 2010

Giuseppe Tassini, il veneziano 'curioso'

"Fuvvi tempo in cui curiosità ci spinse ad indagare l'origine delle denominazioni stradali di Venezia". Così iniziava il Tassini la prefazione della prima edizione del suo libro Curiosità Veneziane (1863).
Giuseppe Tassini nacque il 12 novembre 1827 in una famiglia della borghesia veneziana. Suo nonno era vissuto molti anni a Costantinopoli come Ambasciatore della Serenissima presso la Sublime Porta. Suo padre, nato a Costantinopoli, fu ufficiale nella Veneta Marina Austriaca e sposò la figlia di un colonnello dell'esercito austriaco. Soleva infatti dire:"Nato da padre turco e madre tedesca non posso esser che strambo!".
La sua gioventù fu piuttosto disordinata: avviato agli studi giuridici a Padova, li aveva trascurati ostentatamente per darsi alla bella vita. Ma nel 1858 la morte del padre sembra scuoterlo dalla sua indolenza e riprende gli studi. A quasi trentatre anni consegue la laurea e di lì a poco comincia ad interessarsi al tema che lo accompagnerà fino alla fine: gli studi su Venezia e sulla sua storia.
Egli fu autore di diversi saggi relativi alla storia di Venezia, scritti elaborati con un'angolazione particolare, per mettere in evidenza adettoti e curiosità, storie minime, che hanno appassionato generazioni di lettori.
Ne ricordiamo solo alcuni:
- Curiosità Veneziane
- Veronica Franco, celebre letterata e meretrice veneziana
- Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite a Venezia
    
Insolite furono le sue opere, ma anche la sua vita. Uomo solitario, viveva tra carte d'archivio e di biblioteca, ma diversamente da molti altri studiosi, non si cibava di sola cultura, ma era un gran mangiatore e un ottimo bevitore, come la sua stazza stava a testimoniare.
Amava le donne, e poiché era scettico, cinico forse, non chiedeva loro più di quello che egli stesso loro desse di sé: qualche ora d'oblio, nella soddisfazione dei sensi. Egli aveva bandito dalla sua vita ogni ingombro sentimentale, non credeva all'amore, né a nessun'altra astrazione di sentimento umano. E si studiava di aver il minor numero possibile di padroni del suo destino. Contava i suoi amici tra gli eruditi e i cultori degli studi veneziani, ma all'infuori degli incontri al caffè non manteneva relazioni con chicchessia. E nulla chiedeva a nessuno. Studiava per suo piacere, per soddisfare la sua curiosità, e scriveva per naturale inclinazione.

Probabilmente furono i suoi eccessi nel bere e nel mangiare a portarlo alla morte, per colpo apoplettico, nel 1899, nella sua casa presso il sotoportego delle Cariole, non lontano da San Zulian (nel 1988 il Comune di Venezia vi fece apporre una targa in sua memoria), dove lo trovò disteso a terra il cameriere che era solito portargli il caffè tutte le mattine.
Giuseppe Tassini non fu uno storico, fu un amabile, talvolta sornione, rievocatore della vita di un tempo, di azioni nobili e meschine, eroiche e vili, turpi e virtuose in una città singolarissima che, per chi non solo l'ama come spettacolo, ma la vuol vivere come avventura, come esperienza, ha nei suoi scritti un'introduzione impareggiabile
.

venerdì 2 aprile 2010

Aldo Manuzio e l'arte della tipografia nel Rinascimento

Aldo Manuzio (Velletri 1449 - Venezia 1515) è considerato il più importante tipografo del Rinascimento nonché il primo editore in senso moderno.
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insieme a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel Cinquecento in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'


mercoledì 31 marzo 2010

Diego Valeri: Guida sentimentale di Venezia


Sono davvero tanti i libri su Venezia che ho letto, ma solo alcuni mi sono rimasti davvero nel cuore.
Uno di questi è: "Guida sentimentale di Venezia" di Diego Valeri (1887-1976).
Diego Valeri è stato uno dei protagonisti della poesia italiana del Novecento, e in questa guida ci invita alla conoscenza della più magica delle nostre città: non un colto Baedeker per turisti alla ricerca dei monumenti e luoghi obbligati dalla tradizione, ma una vera e propria 'educazione sentimentale' a "quell'insolubile enigma che si rinserra nel cuore di Venezia".

Riporto qui alcuni significativi stralci:

"Quei nostri santi padri che, mille e più anni fa, posero mano alla costruzione di questa macchina straordinaria dovevano pur avere, insieme ad una enorme provvista di testarda volontà, un grano di generosa pazzia"

"Città sempre un poco strana e segreta, anche a chi l'abbia in antica consuetudine; che non si lascia comprendere intera neppure da chi ne abbia la labirintica topografia stampata nella testa e sotto la pianta dei piedi"

"Se si continua a scrivere di Venezia non è, dunque, perché si speri 'sua laude finire', ma soltanto per 'isfogar la mente'. Così diceva Dante di Beatrice, così diciamo noi di questo nostro amore in forma di città."

'Guida sentimentale di Venezia' Diego Valeri (Passigli Editori)