giovedì 10 giugno 2010

Pantalon

Uomo più che fatto, decisamente anziano, naso adunco, costume rosso, mantello nero, incarna il carattere di quei mercanti che piantarono la bandiera del Leone di Venezia in ogni angolo del Mediterraneo Orientale (da qui una delle etimologie:"pianta-leone"). In Pantalone la parsimonia può tramutarsi repentinamente in avarizia, la tenerezza senile in libidine, ma anche la severità in comprensione, soprattutto.
Tuttavia fuori del sistema di valori del Teatro dell'Arte, in cui ciascuna maschera ha una decisa connotazione regionale e sociale (per cui Pantalone è il padrone veneziano che parla in veneziano mentre lo Zanni o Arlecchino sono servitori che, provenienti dall'entroterra, si esprimono nel loro rustico dialetto), è difficile riscontrare un qualche elemento di storicità in questa maschera tranne che nell'ambito cittadino cinquecentesco. Tuttora assai apprezzata dal pubblico di tutto il mondo, la Commedia dell'Arte sembra giunta già da lungo tempo al capolinea proprio in Italia e in particolare a Venezia, dove è coltivata da poche compagnie amatoriali o semiprofessionali, laddove al contrario occorrerebbe forse un intervento pubblico per difendere quello che della tradizione ancora resiste (almeno negli archivi e nelle biblioteche). Fatto sta che, salvo rare eccezioni o presenze di grandi attori (come Dario Fo nel Festival della Biennale Teatro del 1985), gli attori che vogliono studiare le maschere dell'Arte devono riparare alle scuole transalpine, così come fecero già a lor tempo gli Arlecchini di Giorgio Strehler, Mario Moretti prima e Ferruccio Soleri dopo.
Ma per Pantalone è diverso: la mimica è ridotta ad un andamento incerto che cerca spesso sicurezza nel bastone e si guarda intorno in modo sospettoso, e quel che più conta è la parola, a volte assai tagliente soprattutto nei confronti dei giovani e delle donne.
Quella che occorre quindi per un Pantalone che sia degno erede di Cesco Baseggio e di Nico Pepe, è una formazione fortemente locale. Nato a Udine nel 1907 e scomparso all'età di ottant'anni, Pepe si considerò un vero missionario del teatro dell'Arte al quale dedicò fino alla fine grandi stage spettacolari, trascinando di città in città, come gli antichi capocomici, un baule ricolmo di maschere. Scoperto anche lui nel '47 da Strehler per la memorabile edizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Pepe coltivò senza sosta la maschera di Pantalone portandone a perfezione l'interpretazione, ma purtroppo senza creare un allievo degno del suo nome.
Singolare è invece la storia di un certo Giambattista Garelli, vissuto a Venezia nel '700, a tal punto straordinario nell'interpretare questa maschera, da diventarne infine prigioniero. Egli infatti veniva stipendiato annualmente dalla famiglia Vendramin perché non abbandonasse mai il teatro di San Salvador...

Fonti: M.Brusegan, A.Scarsella, M.Vittoria, G.Fuga, L.Vianello

martedì 8 giugno 2010

Le galee veneziane nel Quattrocento

Il Quattrocento rappresenta probabilmente l’apogeo del sistema delle galee veneziane, un sofisticato e articolato sistema di trasporto delle merci e dei passeggeri attraverso il Mediterraneo.
Ma cosa erano, e come navigavano le galee veneziane?

Prima di tutto, occorre ricordare che esistevano due tipi di galee, ben distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente alla guerra, e le «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il trasporto di merci o passeggeri. Tuttavia, contrariamente a quanto spesso si crede e si legge, le galee da mercato non erano le uniche navi che viaggiavano sotto la bandiera di San Marco: anzi, la maggior parte della flotta mercantile, dal punto di vista numerico e da quello del tonnellaggio, era composta da navi a vela. Le galee da mercato invece, che erano navi costruite dallo Stato, venivano noleggiate ai nobili che organizzavano il viaggio raccogliendo le merci dei mercanti. Le galee viaggiavano in convogli composti da tre o quattro navi, la cui rotta era stabilita nei dettagli e non poteva essere modificata: le varie mude, così si chiamavano i convogli, percorrevano una o due volte l’anno i percorsi prestabiliti raggiungendo Costantinopoli e il mar Nero (muda di Romania), il medio Oriente (muda di Beirut e Alessandria), la Francia meridionale (muda di Aigues Mortes, porto alla foce del Rodano), l’Inghilterra e l’Olanda (muda di Fiandre) e infine la Tunisia e l’Algeria (muda al trafégo). L’importanza di queste navi consisteva nel fatto che avendo un equipaggio numeroso (almeno 250 uomini tra marinai e rematori) erano considerate estremamente sicure e quindi venivano destinate a trasportare i carichi più preziosi e più leggeri: le spezie, le sete, l’argento e l’oro.
Quando nel corso del Quattrocento i pellegrinaggi in Terrasanta conobbero una grande diffusione, Venezia organizzò ogni anno una o anche due galee destinate esclusivamente a trasportare i pellegrini in Palestina. Questa circostanza riveste un estremo interesse, perché alcuni di questi viaggiatori hanno scritto un resoconto dettagliato del loro viaggio che sono giunti fino a noi, consentendoci di ricostruire nei dettagli lo stile di navigazione di queste navi.

Le galee da mercato erano navi lunghe circa 37 metri al ponte (23 passi e 3 piedi veneziani, come spiegano i quaderni dei capimastri dell’Arsenale di Venezia) e larghe poco più di sei, con un’altezza di puntale tra i 2,5 e i 3 metri. La caratteristica più nota di queste navi è il fatto di essere dotate di circa 150 remi, ciascuno dei quali mosso da un solo uomo, e questo ha generato l’errata convinzione che usassero prevalentemente questo mezzo di propulsione. Niente di più errato. Anche se è vero che le linee d’acqua degli scafi delle galee sono simmetriche e dimostrano la loro derivazione da imbarcazioni a remi, di fatto le galee navigavano prevalentemente a vela e usavano i remi solo come propulsione d’emergenza.
Le prestazioni che potevano raggiungere sotto vela erano notevoli, come d’altra parte ci si può aspettare da navi con un coefficiente di finezza così buono. Con vento a favore potevano raggiungere comodamente i cinque o sei nodi di velocità; tuttavia, dai diari dei pellegrini che andavano in Terrasanta risulta che le navi percorrevano intere tratte a una media di oltre sette nodi.
Insomma, le galee da mercato erano sostanzialmente delle navi a vela. A cosa servivano allora i rematori?
Fondamentalmente, prima dell’avvento dell’artiglieria, servivano a difendersi. Come spiega lo storico americano Fredrick Lane, «per le galee da mercato la loro capacità di difendersi era seconda come importanza solo alla sua sicurezza in mare, giacché esse erano progettate per combinare non solo alcuni dei vantaggi delle navi a remi con quelli delle navi a vela, ma anche quelli di una nave da guerra con quelli di un mercantile. L'elevato numero di uomini necessari su una galea per manovrare i remi forniva la base per una forza combattente molto più numerosa di quella che poteva essere impiegata su una nave tonda. In tutto l'equipaggio di una galea da mercato contava più di 200 uomini, ciascuno dei quali poteva essere chiamato a prender parte alla sua difesa. Le armi per questo scopo venivano fornite dall'Arsenale e trasportate in un apposito locale della stiva».

I diari dei pellegrini permettono di ricostruire in modo abbastanza accurato la vita a bordo. Prima di tutto, chi intendeva compiere un viaggio in Terrasanta stilava un vero e proprio contratto, estremamente dettagliato, che precisava diritti e doveri delle due parti (ossia del viaggiatore e del patronus della galea). A bordo i pellegrini dormivano per lo più nella grande stiva della nave e, come scriveva nel 1484 Felix Faber (Urbis venetianae fidelis descriptio), si trattava di una «inquieta dormitione». I giacigli erano disposti per madiere, e i pellegrini dormivano con il capo verso la murata e i piedi verso il centronave. Non essendoci fonti di luci a parte il boccaporto principale, ci si doveva avventurare portando con sé un lume. Felix Faber allude alla continue liti, soprattutto all’inizio del viaggio, tra chi voleva dormire e chi voleva rimanere sveglio, liti che spesso terminavano appunto col lancio dei pitali sopra le candele irrispettose…
Al mattino, i bisogni corporali venivano espletati a prua, dove si trovavano due appositi fori, davanti ai quali, nota il frate, si forma una coda «come in quaresima davanti al confessore». In nave, sostiene Faber, occorre lavarsi spesso, per evitare il rischio di prendere i pidocchi. «Ci sono molti invece che non sono provvisti di ricambi, e sono avvolti in tali puzze e fetori, che nella barba e nei capelli crescono i vermi».
Il pranzo era consumato due volte al giorno, al mattino e alla sera, e gli uomini a bordo venivano chiamati a tre «tavole» ben distinte a seconda del rango sociale: gli uomini da remo mangiavano sui loro banchi; i marinai, i balestrieri, il personale specializzato in genere a una mensa intermedia e infine il comitus con lo stato maggiore della galea mangiavano «come se fossero stati a Venezia».


Fonte: Martino Sacchi

martedì 1 giugno 2010

Giovanni Caboto

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Giovanni Caboto (?, 1450 circa – Inghilterra, 1498) è stato un navigatore ed esploratore italiano, famoso per aver continuato l'opera di Cristoforo Colombo iniziando la serie di grandi viaggi di scoperta verso il nord-ovest, in particolare per aver scoperto il Canada il 24 giugno 1497.
A seguito della conquista di Gaeta da parte degli Aragonesi, la famiglia Caboto, temendo la vendetta dei vincitori, dovette abbandonare Gaeta e rifugiarsi nel 1461 in Venezia. Circa 15 anni dopo essersi trasferito in Venezia, nel 1476, Giovanni ottenne dal Senato di Venezia la cittadinanza.
Si sposò con Mattea, da cui ebbe tre figli (Sebastiano, Luigi e Santo) che lo seguirono in numerosi viaggi in Oriente, acquisendo ottime abilità nell'arte della navigazione.
Purtroppo la Serenissima non fu così lungimirante ed interessata a sfruttare le qualità del giovane navigatore, perdendo l'occasione storica di inserirsi nel gruppo delle grandi potenze marinare europee impegnate nell'esplorazione degli oceani e di mari sconosciuti, un campo dove predominavano spagnoli e portoghesi, limitandosi così a dedicarsi ai traffici commerciali all'interno del Mar Mediterraneo, non capendo che da lì a poco tutto il mondo dei traffici commerciali sarebbe stato rivoluzionato.
Caboto si spostò infatti a Valencia dove diresse i lavori di ampliamento del porto voluti dal re Ferdinando II d'Aragona. Nel 1493 Cristoforo Colombo ritornava dal suo primo viaggio transatlantico. Ma Caboto intuì che il genovese non aveva raggiunto l'Estremo Oriente e propose a Ferdinando II e Isabella di Castiglia di affidargli un viaggio esplorativo lungo una rotta più settentrionale.
Avendo ricevuto un rifiuto, si trasferì nel 1496 in Inghilterra, per convincere il re Enrico VII a sostenere il suo progetto. Il re, che già aveva perso l'occasione di avere Cristoforo Colombo al proprio servizio, si affrettò a concedere l'autorizzazione a Giovanni Caboto e accolse il suo progetto di viaggio con lettere patenti del 5 marzo 1496. Nel porto di Bristol fu così organizzata una spedizione di cinque navi, armate a spese di Caboto.
Tuttavia, per ragioni ancora da chiarire, il 2 maggio 1497 salpò solo una di esse, il Matthew, naviglio di cinquanta tonnellate con un equipaggio di diciotto uomini: con molta probabilità, si imbarcarono anche i figli Luigi e Sebastiano.
Il 24 giugno 1497, approdò sull'isola di Capo Bretone e toccò la Nuova Scozia, avvistando l'isola di Terranova, e, nell'illusione di aver toccato l'estremità Nord Orientale dell'Asia, ne prese possesso in nome di Enrico VII.
Sulla nuova terra scoperta Caboto piantò la bandiera inglese e quella della Repubblica di Venezia.
Ai primi di agosto, dopo un'assenza di circa tre mesi il Matthew fece ritorno a Bristol e la notizia delle nuove scoperte venne accolta in Inghilterra con grande giubilo anche tra la popolazione. Enrico VII concesse allo scopritore un premio di dieci sterline e più tardi una pensione annua di venti sterline.
L'anno successivo Enrico VII, con le lettere patenti del 3 febbraio 1498, autorizzò Giovanni Caboto ad approntare una spedizione di sei navi e almeno duecento uomini di equipaggio, allo scopo di colonizzare le terre scoperte e proseguire la ricerca di altre terre, nella speranza di poter raggiungere il favoloso Cipangu (l'odierno Giappone).
Le navi salparono nell'estate del 1498: con il figlio Luigi, Caboto toccò il Labrador e costeggiò la Groenlandia meridionale. A questo punto, si perdono le tracce della spedizione inglese.
Secondo alcuni storici, Caboto avrebbe raggiunto le coste del Nord America e avrebbe iniziato a procedere in direzione sud-ovest come previsto dal suo programma. Ciò sarebbe avallato dal fatto che tre anni dopo, nel 1501, l'esploratore Gaspar Corte-Reál ricevette dagli indigeni del Nord America, con cui era entrato in contatto, alcuni oggetti probabilmente appartenuti agli uomini della spedizione di Caboto, ma nulla si seppe della fine dell’intero equipaggio e del suo comandante.
Nonostante il misterioso epilogo della spedizione del 1498 e il blocco di ulteriori esplorazioni inglesi durante il regno di Enrico VII, la spedizione di Caboto pose le basi della futura colonizzazione inglese del Nord America. Inoltre le esplorazioni di Giovanni Caboto assicurarono ai geografi europei le prime indicazioni scientifiche circa la vastità del continente americano e stimolarono la ricerca di un passaggio a Nord-Ovest verso l'Estremo Oriente.

venerdì 28 maggio 2010

Franchetti

La Cà d’Oro fu fatta costruire da Marino Contarini nel 1400 in pieno stile gotico fiorito e fatto decorare con sottili lamine d’oro (da cui il nome) che lo resero immediatamente il palazzo più ammirato del Canal Grande. I Contarini abbandonarono il palazzo a fine ‘700 con la caduta della Repubblica. Fu poi acquistato da un principe russo che ne affidò il restauro ad un ingegnere tedesco che fece uno vero e proprio scempio. Fortunatamente alla fine del 1800 fu acquistato dal Barone Giorgio Franchetti (nobile famiglia di lontane origini mantovane), che lo restaurò ispirandosi al disegno originario, ricreando in pratica l’ambiente di una ricca casa di un patrizio nel 1400; ma fin dall’inizio il suo intento non era di farne una dimora ma di realizzare un vero e proprio museo e di ospitarvi la propria collezione di opere d'arte per renderla visitabile al pubblico. Nel 1916 Franchetti stipulò un accordo con lo Stato Italiano nel quale si impegnò a cedere il palazzo al termine dei lavori in cambio della loro copertura finanziaria. Il 18 gennaio del 1927 venne inaugurato il museo intitolato "Galleria Giorgio Franchetti" alla memoria del barone, scomparso nel 1922.

Il personaggio più avventuroso della famiglia Franchetti è senz’altro l’esploratore Raimondo (1981-1935) che dalle Montagne Rocciose, ai Mari della Cina, all’Africa, viaggiò senza sosta (a parte la parentesi della prima guerra mondiale a cui partecipò).
Ventenne, fu abbandonato su un’isola in Malesia, poiché sull’imbarcazione su cui viaggiava era scoppiata la peste e così, si ritrovò a vivere da solo con una tribù locale per circa un anno.
Fu ritrovato da una missionaria inglese quando ormai tutti lo davano per morto.
Nel 1911 documentò la rivoluzione in Cina.
Nel 1920 sposò a Venezia (nel palazzo Cavalli-Franchetti sul Canal Grande) la contessina Bianca Rocca, discendente per parte di madre dalla famiglia dei dogi Mocenigo, da cui ebbe quattro figli.
Il paese che segnò la sua vita fu però l’Africa, dove, a più riprese, partecipò a varie spedizioni (spesso accompagnato da Luca Comerio, fotografo ufficiale di Casa Savoia, e pioniere del filmato documentaristico)
Memorabile fu quella in Dancalia sulle tracce della spedizione Giulietti massacrata dai dancali.
Su questa impresa scrisse il libro “Nella Dancalia etiopica”, e in ricordo chiamò sua figlia Afdera (che sposerà Henry Fonda) dal nome del lago etiope da lui ribattezzato Giulietti.
Morì in un incidente aereo mentre viaggiava con il governatore onorario della colonia eritrea, insieme al quale stavano trattando con il Negus circa la possibilità di evitare la guerra.
L'incidente suscitò immediatamente vasta eco, anche sulla stampa estera e subito, più volte, si parlò di attentato, forse ad opera di agenti britannici, ma le vere cause non furono mai chiarite. Anzi, la commissione di inchiesta inviata dal governo italiano, per probabili ragioni di opportunità politica, dichiarò rapidamente l'impossibilità di appurare le ragioni dell'incidente.

Da ricordare anche Alberto Franchetti, famoso musicista, che collaborò con D’Annunzio e che fu strettamente amico di Puccini e Mascagni, le cui opere furono dirette da Toscanini e da Mahler
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martedì 25 maggio 2010

Amori dimenticati, fedelmente raccontati

Dopo aver studiato diritto a Padova, a quindici anni Giacomo Casanova (1725-1798) ricevette gli ordini minori dalle mani del patriarca di Venezia. Ora portava la tonaca, e anche la tonsura, che lo facevano riconoscere per chierico. La gente vedeva già in lui un sacerdote, sua nonna persino un apostolo! Era fiera del nipote, che con la sua vocazione spirituale assicurava a se stesso e all’intera famiglia la salvezza dell’anima.
Il giovane chierico deve tenere la sua prima predica nelle chiesa di San Samuele. Tema prescelto, alcuni versi di Orazio, ma il curato Tosello non approva la proposta: la chiesa non è luogo per poeti pagani. Presto però si presenta al giovane una nuova occasione per farsi valere come predicatore: il 19 marzo 1741, alle quattro del pomeriggio, salirà sul pulpito per tenere la predica festiva in onore di San Giuseppe, il casto sposo della Vergine Maria. Casanova prepara la predica e la impara a memoria, ripetendola la sera prima di andare a letto e la mattina appena sveglio. Non ha problemi con la memoria, lo si è già visto a scuola.
Ma proprio il giorno della festa di San Giuseppe viene inviato a pranzo dal conte di Monreale. Il pranzo è buono e altrettanto il vino. Casanova sta per dimenticare la predica. Un messo viene a prenderlo, e Casanova giunge in chiesa appena in tempo.
Ecco che il giovane chierico si trova sul pulpito, appesantito dal pranzo e dal vino, davanti ai volti della parrocchia riunita. Riesce a dire appena l’esordio, poi perde il filo, si inceppa. I fedeli bisbigliano, trattenendo a stento le risate. A questo punto Casanova si fa prendere dal panico, perde la testa e dimentica la predica appresa così faticosamente a memoria. Evita l’imbarazzo con uno svenimento, mezzo vero e mezzo simulato, e stramazza sul pulpito. Viene portato privo di sensi in sagrestia. Il disastro è completo e Casanova, cui l’oblio fu così fatale, prende una decisione definitiva: “Ebbi la forza di persistere nella decisione di non saggiare più quel mestiere”.
La via è libera alla vocazione erotica di Casanova.
Anch’essa inizia con il curato Tosello o, per meglio dire, con sua nipote Angela. Giacomo ama Angela, Angela ama Giacomo ed è anche disposta a diventare sua moglie, ma fino a quel momento sorveglia “come un drago” la sua virtù e non concede all’amante il benché minimo favore. L’”avarizia” di Angela finisce per sconvolgere l’amante, la sua astinenza lo prosciuga. L’amore diventa un tormento, deve dimenticare “per qualche tempo i rigori della crudele Angela”.
Lo aiuta in questo un soggiorno in campagna.
Di ritorno a Venezia si riaccende in lui la passione temporaneamente sopita per Angela. Casanova ricomincia ad incalzarla con le sue voglie, ma la donna rimane risoluta. Casanova lascia furioso la città e torna a Padova per laurearsi, ma soprattutto per dimenticarla. Il titolo universitario non basterà allo scopo, ma a dimenticare lo aiuteranno in modo molto più efficace, al suo ritorno a Venezia, la sedicenne Nanette e la quattordicenne Marton. La notte è abbastanza lunga per divertirsi sotto le coperte con le due compagne, per fargli provare un piacere di cui godeva per la prima volta in vita sua, e per dimenticare “definitivamente” Angela: “J’oublie Angéla”.

Tutto questo lo veniamo a sapere dalla sua autobiografia, scritta in francese e pubblicata in edizione postuma con titolo Histoire de ma vie (1825), che egli terminò nel 1797, a settantadue anni, nel castello boemo di Dux. Una delle caratteristiche e dei paradossi più affascinanti di queste ‘confessioni’ è che Casanova si ricorda anche, e con la massima precisione, delle circostanze del vari oblii.
Per poter scrivere questi ricordi, da vecchio, lontano dagli affari mondani, Casanova rafforzò per tutta la vita la memoria (che una sola volta, come s’è visto, l’aveva piantato in asso) con note e molte lettere da lui scritte o ricevute. In questo modo potè ricordarsi delle innumerevoli donne da lui amate nel corso della vita, anche se non si vantò mai del numero delle sue avventure amorose. Casanova non è Don Giovanni, e non trae piacere dalle conquiste in sé, ma tutte le donne, a cui a fatto instancabilmente la corte, le ha amate, una dopo l’altra.
E’ vero che in ognuna delle nuove avventure amorose, Casanova cerca sempre nuovi piaceri dei sensi, ma ad eccitarlo non è ciò che in questo gioco si ripete sempre uguale, bensì ciò che ogni volta soddisfa la sua curiosità in modo diverso. Un bibliofilo come Casanova vuol leggere ogni donna come un libro, e questo significa che, come il lettore, prima di aprire un nuovo libro, deve chiuderne un altro. Così tra due amori, come tra due letture, si trova una cesura che nel linguaggio erotico di Casanova è chiamato oblio, e tuttavia un tipo di oblio che non esclude più tardi il ricordo.


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venerdì 21 maggio 2010

Lettera di Cassiodoro ai Veneziani

"Voi che al margine del suo territorio possedete un gran numero di navi, provvedete con uguale devota grazia a fare in modo di portare con tutta celerità il carico che la provincia è pronta a consegnarvi. Il ringraziamento per la realizzazione sarà pari verso ambedue, dal momento che una parte separata dall' altra non permette che vada a compimento l'impresa. Siate perciò pieni di sollecitudine per questo trasporto nelle vicinanze, voi che spesso attraversate spazi di mare infiniti. In un certo senso voi andate a far visita ai vostri conoscenti, poiché navigate in terra patria. C'è ancora a vostro favore, che avete aperta anche un'altra strada sempre tranquilla e sicura. Infatti quando il mare è chiuso alla navigazione per l'imperversare dei venti, si dischiude davanti a voi l'itinerario attraverso incantevoli canali. Le vostre navi non temono gli aspri venti: toccano terra con somma allegrezza e non sanno che cosa sia fare naufragio, poiché spesso approdano a terra. Da lontano sembrano camminare sui prati, quando accade di non vedere il corso del canale, avanzano tirate da corde, le quali di solito servono a tenerle ferme e, capovolte le condizioni, la ciurma aiuta le proprie navi con i piedi: senza sforzo trascinano le loro portatrici e, invece delle pavide vele, adoperano il passo dei marinai, che è più sicuro.
Ci piace parlarvi di come abbiamo visto l'ubicazione delle vostre case. Le Venezie una volta famose, piene di nobile gente, a meridione raggiungono Ravenna e il Po, ad oriente si deliziano della bellezza del litorale ionico: qui l'alternarsi delle maree ora copre, ora lascia in secco la superficie dei campi con una reciproca inondazione di acqua o di asciutto. Qui voi, alla maniera degli uccelli acquatici, avete la vostra casa. Infatti una persona ora si vede stare sulla terraferma, ora su un'isola, così che ben più a ragione credi che le Cicladi si trovino là, dove osservi che l'aspetto dei luoghi cambia repentinamente. A somiglianza di quelle isole le case appaiono sparse in mezzo ad ampi tratti di mare: e non le ha prodotte la natura, ma le ha create il lavoro umano. Infatti all'intreccio dei vimini flessibili si aggiunge la solidità della terra e non si teme affatto di opporre alle onde marine una difesa tanto fragile: si fa così perché il litorale basso non può scagliare a terra grandi onde, e queste vengono senza forza non avendo l'aiuto della profondità.
Un'unica risorsa hanno gli abitanti, quella di mangiare solo pesci a sazietà. Ivi poveri e ricchi vivono allo stesso modo. Un solo cibo sostenta tutti, uno stesso tipo di abitazione rinserra ogni cosa, non conoscono l'invidia riguardante le case e, vivendo con questo tenore, stanno fuori del vizio, al quale, come si sa, tutto il mondo soggiace. Tutto il loro sforzo è rivolto alla produzione del sale: invece di aratri e di falci fate rotolare dei rulli: di qui viene ogni vostro provento, dal momento che possedete in essi anche gli altri generi che non producete; in un certo qual senso li si conia la moneta per il proprio sostentamento. Ogni onda sottostà al vostro trattamento. E' possibile che qualcuno non vada in cerca d'oro, ma invece non ce n'è uno che non desideri trovare il sale, e giustamente dal momento che ad esso ogni cibo deve il potere di essere graditissimo.
Perciò con cura diligente mettete in sesto le navi, che legate alle vostre pareti, come fossero animali, affinché, quando Lorenzo, uomo di grandissima esperienza, incaricato di procurare le derrate, si metterà a chiedervele, vi affrettiate a correre per non ritardare con alcuna difficoltà a portarci gli acquisti a noi necessari, tanto più che potete scegliere, secondo le condizioni del tempo, il tragitto che vi è più vantaggioso"

Cassiodoro, Senatore e Prefetto del re Vitige, anno 537 d.C.
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giovedì 20 maggio 2010

Allarme a Torcello, campanile a rischio crollo: chiuso d'urgenza

Il Patriarcato: «Restauro previsto da tempo ma sempre
rimandato per mancanza di fondi. Qui tutto cade a pezzi»

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martedì 18 maggio 2010

Intervista a Walter Fano

Ma Venezia ti chiamava...
Esatto, è proprio andata così. Era da qualche parte nel mio cuore, nella mia anima, inevitabilmente sono finito lì, non poteva andare altrimenti.

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A cura di S. Venturelli
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domenica 9 maggio 2010

Santa Lucia a Venezia

La realizzazione della stazione ferroviaria a Venezia determinò profonde e radicali modifiche che trasformarono l'aspetto dell'ultimo tratto di Canal Grande sia dal punto di vista urbanistico che architettonico.
Il complesso degli edifici allora esistenti fu abbattuto per far posto alla stazione ferroviaria vera e propria e a tutte le attrezzature connesse al nuovo servizio. Scomparvero così non solo la chiesa di Santa Lucia con il suo monastero, ma l'intero quartiere composto dalle case e dai palazzi, edificati in gran parte tra il XV e il XVIII secolo, che prospettavano la fondamenta o le strette calli interne fino a raggiungere la zona retrostante, ancora tenuta ad orti, e l'ultimo, opposto lembo lagunare.
Nel 1846 il ponte ferroviario translagunare era completato e immetteva in città attraverso un'area di raccordo ottenuta in parte con interramenti. Nel 1858 le due rive del Canal Grande venivano collegate da un ponte di ferro.
Il piccone demolitore che distrusse un'intera area abitata cancellandone le testimonianze storiche, sociali e artistiche, si arrestò, nel primi tempi di attività della stazione, alle spalle della Chiesa di Santa Lucia, la cui zona retrostante divenne punto di arrivo e di parcheggio di locomotori e vagoni. Era comunque evidente l'intenzione di acquisire uno sbocco sul Canal Grande.
Tra il 1860 e il 1861 vennero infatti abbattute oltre alla Chiesa le superstiti costruzioni sulla fondamenta, per far posto all'edificio della Stazione passeggeri, secondo una soluzione urbanistica tra le più ovvie e meno intelligenti.

Fonti storicamente attendibili pongono alla fine del XII secolo la costruzione della prima chiesa. Nel 1280, proveniente da San Giorgio Maggiore, dove si trovava fin dall'inizio del secolo, fu traslato il corpo della martire siracusana Lucia, da cui la chiesa prese il nome.
La fabbrica venne ufficialmente consacrata nel 1343. Alla fine del XV secolo presentava forme gotiche, stilisticamente e volumetricamente molto simili a quelle di San Gregorio alla Salute.
Gli edifici del monastero si sviluppavano lungo il fianco sinistro della chiesa e si intestavano verso il Canal Grande in leggero arretramento rispetto al filo degli altri edifici.
Nel 1565 si ha notizia di un  nuovo intervento riferito all'edificazione di una grande cappella per conto di Leonardo Mocenigo che ne aveva affidato il progetto al Palladio. I lavori non ebbero tuttavia facile corso, è anzi probabile che iniziassero dopo la morte dell'artista (1580), poiché l'opera ebbe termine soltanto nel 1589.
L'antica struttura gotica andò così gradualmente sostituita da una nuova, composta secondo il diverso disegno cinquecentesco, in sostanza si può ritenere che l'intervento, limitato all'inizio soltanto alla cappella Mocenigo, si sia esteso a tutto l'edificio gotico, assumendo il carattere di una vera e propria ricostruzione.
La nuova chiesa ebbe così non solo diversa definizione architettonica e stilistica, ma rispose ad un più moderno criterio di funzione con la facciata rivolta al Canal Grande per l'avvenuta inversione dell'orientamento originario.
La nuova chiesa fu consacrata nel 1617.
Nel 1805 il convento fu soppresso e destinato a sede di una scuola per ragazza povere; stessa sorte subì la chiesa che ebbe fin dalle origini titolo parrocchiale.
Con l'abbattimento della Chiesa il corpo di Santa Lucia venne traslato nella vicina chiesa di San Geremia.

Santa Lucia subì il martirio a Siracusa intorno al 304 durante le persecuzioni di Diocleziano. Di nobile famiglia si consacrò a Cristo; rinunciò al matrimonio e donò ogni suo bene ai poveri. Per questo fu denunciata dal fidanzato: venne imprigionata, torturata e decapitata.
Secondo la leggenda si sarebbe da sola rimessa gli occhi, cavati dai torturatori. Il suo culto si diffuse subito dopo la morte.
E' abitualmente rappresentata con gli occhi su un piatto, la palma del martirio o la spada, e viene invocata contro le malattie degli occhi. Il nome deriva dal latino e significa "luce"

Ogni anno il 13 dicembre a Venezia si va nella Chiesa di San Geremia, dietro l'altare, ci si mette in fila lungo la bara di cristallo, si prega accanto alla mummia della Santa. Fino agli anni '60 si poteva fissare Lucia direttamente nelle orbite cave. I veneziani e la Santa si scambiavano uno sguardo salutare: occhi eccessivi, traboccanti per la commozione, erano messi di fronte a occhi manchevoli, estirpati dal martirio. Era un toccasana spalancare le palpebre davanti alle occhiaie vuote di Lucia: le pupille dei veneziani lacrimavano, i cristallini intorbiditi dalla bellezza si lavavano, le retine peccatrici si purificavano. L'orrore dava l'assoluzione alla bellezza: non c'era nulla di macabro in tutto ciò. Purtroppo il Patriarca Albino Luciani, pastore d'anime dall'indole sensibile, qualche anno prima di diventare Papa Giovanni Paolo I e di rivelare alla cristianità tutta che Dio è la Mamma, ha disposto che la faccia della Santa venisse coperta con una maschera d'argento dai lineamenti aggraziati.

Fonti: Umberto Franzoi, Dina Di Stefano, Tiziano Scarpa

giovedì 6 maggio 2010

Guido Alberto Fano

Guido Alberto Fano nasce a Padova il 18 maggio 1875. Inizia gli studi musicali con Vittorio Orefice (noto maestro di canto e direttore di coro) e intraprende poi quelli pianistici sotto la guida di Cesare Pollini. Nel 1894 Giuseppe Martucci lo vuole suo allievo di pianoforte e composizione a Bologna. Nel 1896 si reca in Germania e Austria per una tournée concertistica e per conoscere la vita musicale di quei paesi, grazie a una borsa di studio ministeriale per perfezionamento all'estero ottenuta "per singolari meriti di composizione".
Nel 1897 consegue il Diploma di Maestro Compositore a pieni voti con lode presso il Liceo musicale di Bologna. L'anno seguente vince il Primo premio nel Concorso indetto dalla Società del Quartetto di Milano con la Sonata per pianoforte e violoncello. Viene nominato Direttore dell'Accedamia "Pierluigi da Palestrina" di Bologna per lo studio e la diffusione dell'arte corale antica italiana.

Nel 1899 ottiene la nomina di insegnante di pianoforte al Liceo Musicale di Bologna, e nel 1900 il diploma di organizzatore dei concerti spirituali per la Mostra di Arte Sacra San Francesco di Bologna. Ottiene inoltre una Menzione d'onore al "Concorso Internazionale Rubinstein per compositori" di Vienna, con l'Andante e Allegro con fuoco per pianoforte o orchestra, la Sonata per pianoforte e violoncello, le Quattro Fantasie per pianoforte solo.
Nel 1905 è nominato Direttore del Regio Conservatorio di Musica di Parma a seguito di concorso per titoli, unico vincitore su trentasei concorrenti per giudizio unanime dei commissari Toscanini, D'Arienzo, Falchi, Gallignani, Zuelli.
Fra il 1905 e il 1912 forma, promuove e incoraggia istituzioni di concerti e di varia cultura musicale, esegue concerti come pianista solista e di musica da camera, dirige concerti sinfonici.
Nel 1911 rifiuta la nomina a insegnante e virtuoso di pianoforte al "College of Music" di Cincinnati Ohio (U.S.A.). Nel 1912 viene nominato Direttore del Regio Conservatorio "San Pietro a Majella" di Napoli.
Nel 1916 riceve la nomina a Direttore del Regio Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo. Nel 1922 ottiene la nomina a Professore di pianoforte principale al regio Conservatorio "G. Verdi" di Milano.
Dal 1938 è rimosso dall'insegnamento a causa delle leggi razziali e dal 1943 al 1945 è costretto a fuggire e rifugiarsi a Fossombrone e Assisi.
Alla fine della guerra riprende il suo posto di insegnamento che lascia definitivamente nel 1947, anno in cui viene collocato a riposo.Muore il 14 agosto 1961 a Tauriano di Spilimbergo (Udine).

La sede dell'Archivio Musicale Guido Alberto Fano è in Calle del Tagiapiera 4674, nel sestiere di Cannaregio, a un passo dalla fermata di Ca' D'Oro. In un'elegante palazzina, al primo piano c'è la casa-museo di chi fra la fine dell' Ottocento e la prima metà del Novecento fu uno dei più significativi musicisti italiani. All'ingresso fa bella mostra di sé il pianoforte Bosendorfer su cui era solito comporre, in salotto, oltre a una biblioteca che raccoglie fra l'altro edizioni cinquecentesche, a partiture e a registrazioni, spiccano i ritratti ad olio del Maestro e della moglie, gli album fotografici, le reliquie di una vita piena, ricca di avvenimenti, di gioie e di dolori: i trionfi musicali, le persecuzioni razziali, gli esili, le incomprensioni...
Anima della neonata associazione è Vitale Fano, nipote di Guido Alberto e figlio di Fabio Fano: una dinastia di musicisti e di musicologhi, la sua, che lungo tutto il Novecento ha visto il nome dei Fano dividersi fra i conservatori di Venezia, Napoli, Palermo, Bologna, Milano, Parma.