giovedì 14 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 04

 


Nelle puntate precedenti abbiamo raccontato del libertinaggio a Venezia nei suoi secoli d'oro.
Giungiamo ora dunque al Settecento, l'ultimo secolo di vita della Serenissima.

Se innegabilmente i Veneziani nei secoli precedenti si abbandonavano ben spesso al vizio, altrettanto spesso però operarono cose egregie ed onorevoli per sé o per la patria.
Mentre nel Settecento regnava ahimè l'assoluta mollezza e lascivia senza le virtù degli antenati.

Il marcio partiva già nell'educazione affidata ad abati ignoranti o a monache scandalose.
Non stupisce quindi l'altissimo numero di richieste di separazione che nel solo ultimo decennio del Settecento ammontarono a quasi trecento.
Né stupisce conoscere di numerosi casi di mariti che pur di non scontentare la moglie si prodigavano in prima persona a riappacificare il cavalier servente colla propria moglie in seguito ad un qualche litigio ...

Ma chi era il "cavalier servente"?

Ce lo spiega il de Brosses:

"E' di regola che le dame veneziane posseggano un amante, e sarebbe una specie di disonore per una dama non tenere un uomo per proprio conto. Le famiglie approvano e si lascia che la sposa faccia la sua scelta, dando l'esclusione a questo o a quello. Queste attuali pratiche delle dame han diminuito di molto i fasti delle monache che in passato avevano il monopolio della galanteria. Con tutto ciò, anche oggidì, un buon numero di esse si dedica agli impegni con onore, poiché al momento in cui scrivo, havvi una furiosa briga fra tre conventi della città per sapere quale fra essi avrà il privilegio di procurare una “amica” al nuovo Nunzio Apostolico che sta per arrivare".

Giova osservare che talvolta gli sfacciati mezzani facevano passare per monache agli occhi degli incauti stranieri, donne che non lo erano affatto; nella stessa guisa in cui offrivano qualche prostituta sotto il titolo di moglie del tal nobile.
Ma peraltro erano talvolta davvero mogli di patrizi se come si narra, un dì, un certo patrizio si sentì proporre la propria consorte!


Anche le leggi si fan più permissive e capita d'incontrar cortigiane ovunque in città comprese le chiese, a qualsiasi ora.

Un cronista accenna ad un nuovo costume adottato dalle gentildonne, le quali uscivano al passeggio calzando semplici pianelle e coperte soltanto di un sottanino.
Lo stesso cronista narra altresì della sfrenatezza con cui le gentildonne si abbandonano al gioco d'azzardo, che le riducevano al punto di dover pagare col proprio corpo.

I luoghi preposti al gioco venivano chiamati casin (nel senso di piccola casa) o ridotti (dal latino "redursi"=recarsi). Ma alcuni di questi casin servivano anche ad altro scopo, forniti com'erano di eleganti letti, di ricchi specchi, di quadri lascivi, di vasche da bagno e di tavoli sopra i quali stavano pagine scandalose, quali le poesie del poeta Giorgio Baffo.


Nel Settecento, alle monache e alle cortigiane, s'aggiungono le cantanti e le ballerine di teatro.
Gli ambasciatori e i rappresentati di corti estere facevano a gara per accaparrarsi le più aggraziate tra le deità della scena, valendosi nell'opera di fidati mezzani, i quali molto spesso erano gondolieri.


Talvolta la tariffa per la conquista era fissa come c'insegna un cronista parlando della Pelosina (e non voglio sapere perché la chiamassero così ..), che si faceva applaudire al teatro San Beneto; sua madre, scrive il cronista: “desidererebbe farla uscire dalla virginità al suono di 300 zecchini” (ti ci compravi una casa con 300 zecchini ...).

Ma ci sono anche casi contrari, come l'interessante storia di Stella Cellini.

Stella Cellini era una giovane attrice ballerina che si esibiva al Teatro di San Cassian. Molto amata dal pubblico, la ballerina viveva in una casa in affitto di proprietà del Procuratore Tommaso Sandi.

Il Tommaso Sandi in questione si invaghì della ballerina, ma venne da essa rifiutato. Così, per vendetta, la sfrattò da casa e la denunciò di vita scandalosa con un Turco (!).
Ma Stella Cellini non si fece intimorire e si presentò in tribunale con un certificato di verginità redatto da due ostetriche e contro-firmato da un parroco.

Vinse così la causa e fu completamente riabilitata e tornò a calcare le scene ancor più amata.

E fu così che da allora a Venezia non si giurò più sulla Vergine Maria ma sulla vergine Cellini.


Sempre sul fronte del gentil sesso non si può non nominare Cecilia Zeno.

Cecilia, di nobili natali, fu l'amante del doge Andrea Tron e per questo soprannominata la "Trona".
Donna colta e di spirito, difese strenuamente i suoi ideali di donna libera e i suoi principi anti-clericali.

Fu anche discreta poetessa e benefattrice.

Era grande amante del teatro e aveva un palco fisso presso il Teatro di San Beneto.

Celebre fu l'episodio del 1785 quando fu allestito un grande spettacolo nel Teatro ed ella sub-affittò il suo palco, per una somma spropositata, ai duchi di Curlandia in visita alla città.

E subito il popolo motteggiò: “Brava la Trona, la vende el palco più caro de la mona!”

E lei, che era donna di spirito, prontamente rispose: ”Gavè razon, perché questa, al caso, la dono!”.

E il popolo di rimando: "La Trona, la mona, la dona!".


 

 

sabato 9 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 03

 


Il 26 marzo 1511 un tremendo terremoto colpiva la città facendo rovinare alcune case e vacillare le due colonne di Piazzetta San Marco.
La mattina seguente il patriarca Antonio Contarini, si presentava al Collegio Ducale per affermare che quel terremoto era necessariamente un castigo mandato dall'alto a Venezia per i tanti peccati che vi venivano commessi, primo fra tutti quello della carne.
In particolare il Patriarca volle ricordare un fatto avvenuto l'anno prima, quando alcuni giovani patrizi osarono ballare tutta una notte con le monache del convento della Celestia, al suono di pifferi e trombe, ed essendosi recato lui stesso a rimproverarle, tutte si misero alla porta rifiutando di farlo entrare.

Ma né il terremoto, né tanto meno la sua predica, sortirono particolare effetto, e tutto continuò come sempre.


Secondo la testimonianza di Marin Sanudo, agli inizi del Cinquecento, le meretrici in città sommavano ad 11.654, un numero impressionante se si pensa che la popolazione totale era di circa 130.000 persone!

Facendo un conto sommario, significa che circa una donna ogni cinque era prostituta di professione.

Ma, essendo così tante, non c'era abbastanza lavoro per tutte, così avvenne quella che forse è la prima manifestazione sindacale di protesta nel mondo: le meretrici scesero in Piazza San Marco per lamentarsi del poco lavoro e chiedendo un intervento dello Stato.

Le loro proteste furono ascoltate e il Maggior Consiglio dispose che ben mille di queste si trasferissero al campo di Mestre, ove era allora attendato l'esercito di terra veneziano. E si decise di licenziare tutte quelle fra esse che essendo foreste, abitassero a Venezia da meno di due anni.

Insomma lo Stato ascoltava e, se possibile, aiutava tutte le categorie professionali.


Ma ciò che colpisce maggiormente è che le meretrici non erano soggette ad alcuna tassazione!

Giordano Bruno nella sua commedia il "Candellajo", parlando di Venezia, dice: "Ivi le prostitute sono esenti da ogni aggravio. Certo, se il Senato volesse umiliarsi un poco e fare come gli altri, si farebbe un po' più ricco..." ma evidentemente la Repubblica era già sufficientemente ricca!


Tale Cesare Vecellio ci ha lasciato una descrizione minuta dei costumi delle meretrici dell'epoca: "Le pubbliche meretrici non stanno solo nei luoghi loro preposti, ma si trovano ovunque in città. Vestono, a volte, come uomini, nondimeno l'inegualità della fortuna fa sì che non tutte vadano vestite pompose allo stesso modo. Sulle carni portano camicia accomodata di sottigliezza ciascuna in base alla merce che ha da spendere. Molte di loro si trattengono per strada cantando canzonette amorose con poca grazia.

Alcune però, fra tante, oltreché colla bellezza del corpo, sollevavansi sopra le loro pari colle doti dello spirito e coll'educazione onde erano fornite. Esse erano più propriamente denominate "cortigiane". Le cortigiane si dedicavano alla musica e non si mostravano ignare alle lettere, e potevano paragonarsi in parte alla famose etére, sospiro degli uomini più distinti della Grecia. Non è quindi da stupirsi se la loro condizione destava l'invidia d'una tra le dame galanti di Brantome, la quale, avrebbe voluto cangiar tutto il suo avere in biglietti di banca e recarsi a Venezia per condurre colà vita cortigianesca, piacevole e felice."


Le cortigiane costituivano nella Venezia dei secoli d’oro una categoria sociale e professionale distinta da quella delle comuni meretrici.
Pur esercitando anch’esse la prostituzione, le cortigiane si distinguevano non solo perché potevano contare su lauti guadagni e protezioni influenti, ma anche in virtù della loro classe sociale, della cultura e talvolta anche del talento artistico e letterario, che erano libere di esercitare pubblicamente proprio grazie alla loro particolare condizione.


Infatti, nascere nobile o comunque di famiglia ricca, non era poi così auspicabile, in quanto avevi solo due opzioni : andare in sposa a qualcuno che manco conoscevi, o finire in convento.

Ecco quindi che il mestiere di cortigiana appare come una via di fuga.

Una fuga che tra l'altro comportava anche la possibilità di ottenere un'indipendenza economica che ti slegava dagli obblighi famigliari.

Ecco perché così tante donne scelgono questo mestiere che le rendeva libere e al contempo ammirate e invidiate.


In questo secolo venne pubblicato addirittura un catalogo delle cortigiane con tanto di indirizzi, prezzi e nomi della relativa matrona (che spesso era la madre...).


La più celebre tra queste fu senz’altro Veronica Franco.
Nata da famiglia benestante si sposò giovanissima con un medico, ma abbandonò presto il letto coniugale per darsi alla vita libera. Era anche poetessa e di buona cultura, aveva diverse amicizie tra letterati e nobili, e venne anche ritratta da Tintoretto che le donò poi il quadro.

Ecco, il fatto in sé che un pittore come Tintoretto avesse ritratto la Veronica Franco ci dà una misura della considerazione sociale che avevano queste cortigiane.

La sua fama era tale che quando Enrico III re di Francia venne in visita a Venezia nel 1574 volle conoscerla e passò una notte con lei. A ricordo dell’incontro, Veronica donò al re il proprio ritratto e due sonetti.


Altrettanto celebre fu Angela del Moro, che per esser figlia d'uno zaffo (cioè di uno sbirro), era soprannominata la Zaffetta.
Il cardinale Ippolito de' Medici, venuto a Venezia nel 1532, scelse proprio la Zaffetta per la prima notte del suo arrivo in città.

E Pietro Aretino ne faceva il più sfoggiato elogio, invitandola in diverse occasioni a cena, unitamente al Tiziano e al Sansovino.


Si può ben dire che in Pietro Aretino fosse personificato il libertinaggio di Venezia, città da lui abitata per moltissimo tempo e quivi sepolto.

Dedito, per pubblica fama, alla pederastia, si tenne in casa, in epoche diverse, alcuni giovanotti, tra cui un certo Polo che fece maritare con Pierina Riccia, facendosela però cedere ad uso proprio ed amandola assai, non tanto però da non perseguitare in tutti i modi Angela Tornimben, moglie di Gian Antonio Serena. Che fece allora Gian Antonio per vendicarsi? Indusse Pierina a fuggire dalla casa di Aretino insieme a Caterina Sandella, altra amica dell'Aretino, dalla quale ebbe una figlia, Adria, il cui padrino di battesimo era il tipografo Francesco Marcolini, la cui moglie Isabella, intratteneva pur essa amorosa tresca collo scostumatissimo Aretino!

Pietro Aretino è conosciuto principalmente per alcuni suoi scritti dal contenuto considerato licenzioso (almeno per l'epoca), fra cui i conosciutissimi Sonetti lussuriosi.

Ma scrisse anche opere di contenuto religioso.Questa, che oggi potrebbe apparire incoerenza, fu in realtà, per molti versi, un modello dell'intellettuale rinascimentale.

In una sua lettera scrisse: «Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; e tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice»
E dove avrebbe potuto vivere uno così, se non a Venezia?





sabato 2 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 02

 

Nell'articolo precedente abbiamo visto qualche esempio di scandalo tra i nobili veneziani.

Ma l'apice della sfrontatezza era raggiunto dalle monache dei conventi. In particolare i conventi patrizi, i quali venivano chiamati "doppi" in quanto frati e monache vi abitavano insieme. Talvolta le monache si tenevano qualche frate in vicinanza con il pretesto di venir da essi guidate negli affari spirituali.

Il Maggior Consiglio emanava quindi, nel 1385, una legge con cui si imponeva che il confessore delle monache fosse di non meno di 60 anni!

Ma il costume di recarsi nei chiostri delle monache era di largo appannaggio anche dei laici, e così feste e divertimenti non mancavano per queste suore, che infatti avevano trasformato il loro parlatoio in un elegante salotto sede di concerti e spettacoli vari, con un continuo "pellegrinaggio" di giovani cavalieri mascherati.


Da citare una nota dal diario del Granduca di Toscana, Cosimo III, che venne qui in visita agli inizi del Settecento:

Vestono leggiadrissimamente con abito bianco alla francese, il busto di bisso a piegoline, un piccolo velo cinge loro la fronte, sotto la quale escono li capelli arricciati e lindamente accomodati; seno mezzo scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache”.

Ma tutta questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze indesiderate.

Per questo motivo in tutta la città v’erano diverse imprese che producevano contraccettivi, fabbricati con budella di animali, che in dialetto erano chiamati condon, termine che qualcuno fa risalire ad un ipotetico medico inglese Condom, di cui però non è mai stata accertata l'esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere” = "proteggere".

Questo interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel 1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno di Napoli, ed è per questo tra l’altro che la sifilide veniva detta mal francese; la cosa curiosa è che in Francia invece la chiamano mal napolitaine!


A Venezia la legge prevedeva pene severe per i "monachini", cioè le persone che intrattenevano relazioni amorose con le monache, che andavano dalle multe, al carcere, fino alla pubblica frusta e al bando.


Ma se da una parte la legislazione veneziana si occupava di questi problemi, non trascurava l'argomento della pubblica prostituzione, giacché si legge in diversi decreti dell'epoca che le meretrici erano considerate "omninamente necessarie in Venezia".

Tutte le meretrici erano sottoposte alla sorveglianza dei Signori della Notte e dei Capi di Sestiere, tra le varie limitazioni a cui erano costrette ricordiamo che non potevano frequentare osterie, né recarsi in Chiesa durante la Messa della domenica, né indossare gioielli.


Un decreto del 1360 stabiliva che tutte le meretrici dovevano essere confinate in un'area nei pressi della chiesa di San Matteo di Rialto (chiesa poi scomparsa). Zona ribattezzata "Castelletto" forse perché c'erano delle torri sui tetti delle case, come usava all'epoca.

Tra le altre regole ricordiamo: l'obbligo di portare al collo, come segno distintivo, un fazzoletto giallo; approssimandosi la notte, dovevano, allo scocco della prima campana di San Marco, recarsi tutte nel già menzionato Castelletto, mentre durante il giorno potevano circolare liberamente per la città, eccetto durante le feste di Natale e di Pasqua, nonché in tutte le feste dedicate alla Madonna.


Ad ogni casa del Castelletto era preposta una direttrice chiamata "matrona" a cui spettava di dividere ogni mese, fra le sue dipendenti, i guadagni conservati in una cassa, cassa che veniva aperta solo in presenza di un rappresentante di Stato.

Questo per garantire che le meretrici fossero correttamente retribuite.

Sì, perché se da un lato queste meretrici subivano leggi che limitavano la loro libertà, da altre leggi venivano protette e difese. Si provvide ad esempio a controllare che coloro i quali ne avessero riscattate dalle matrone, non le tiranneggiassero, e che coloro che ne avevano sposate non continuassero a tenerle nel Castelletto.

Si deputarono delle guardie armate che tutte le notti sorvegliassero il loro quartiere perché nessuno potesse far loro del male, e si proibì di entrare nel Castelletto armati, sempre al fine di proteggerle.

Insomma niente veniva lasciato al caso nella Repubblica Serenissima, qualunque mestiere era regolamentato e protetto. 

 


 



lunedì 28 dicembre 2020

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 01

 

Nel quattordicesimo secolo Venezia raggiunse l'apice della sua grandezza.

Grandi erano le ricchezze che vi transitavano e di conseguenza numerose le persone che vi risiedevano stabilmente o per limitati periodi legati a trattative commerciali.

Naturalmente tra i vari servizi di accoglienza offerti non mancava certo la prostituzione.

Le nuove leve, se così possiamo chiamarle, provenivano per lo più dalle numerose orfane (soprattutto figlie illegittime di nobili, abbandonate) che popolavano le strade della città.

Alcune di queste venivano salvate da organizzazioni religiose o statali, ma molte erano quelle che non si riusciva a soccorrere.


Tra i soccorritori ricordiamo fra' Pieruzzo d'Assisi, francescano, che di contrada in contrada raccoglieva gli orfani che riusciva a trovare per portarli nelle case di proprietà dei frati intorno alla chiesa di San Francesco della Vigna. Nel 1346 aprì un vero e proprio istituto per trovatelli in parrocchia San Giovanni in Bragora col nome di Pietà. Primo dei quattro cosiddetti "ospedali" nei quali ai bambini veniva insegnato un mestiere mentre alle bambine si insegnava musica e canto.


Ma queste attività di assistenza non erano certo in grado di arginare del tutto il fenomeno della prostituzione, tanto più che non necessariamente le meretrici erano orfane abbandonate, anzi spesso erano avviate al mestiere dalle loro stesse madri.

Inoltre capitava anche che alcune ragazze venissero rapite alle loro famiglie nelle campagne dell'entroterra per costringerle a prostituirsi in città.


Alcuni storici dell'epoca lamentavano il degrado dei costumi dell'epoca, ma questi costumi non sono certo mai mancati nella storia dell'uomo presso qualunque società; ciò che distingueva però la prostituzione a Venezia era che qui era strettamente regolamentata dallo Stato, ma ne parleremo meglio in un prossimo articolo.


Per pura curiosità possiamo narrare qualcuna delle storie più celebri che diedero scandalo all'epoca.

Ad esempio la tresca tra il doge Andrea Dandolo e Isabella Fieschi, moglie di Luchino Visconti, duca di Milano.

Isabella, dopo aver adornato di molte ramosa corna la testa del povero marito, simulò nel 1347 di aver fatto voto di recarsi a Venezia per la festa della Sensa.

Partì quindi da Milano, con il suo corteo di dame, e arrivò a Venezia accolta con grandi feste e onori dalla Repubblica. Ma appena giunta in città, si diede alla più sfrenata licenza, e il doge stesso, Andrea Dandolo, fu uno di quelli con cui largheggiò dei propri favori, dando agio anche alle dame del suo seguito di ricercare i propri piaceri (per l'esattezza nel documento dell'epoca viene utilizzata la parola "pastura").

Il viaggio, possiamo letteralmente dire, di "piacere" di Isabella, costò addirittura la vita al povero Luchino, il quale avendo avuto notizia dei sollazzi della moglie a Venezia espresse l'intenzione di vendicarsi, ma fu prevenuto da Isabella con un veleno che lo portò brevemente alla morte. 

Altro esempio riportato nelle cronache è la storia di Lodovica Gradenigo, consorte del doge Marino Falier. Si narra infatti che durante una festa da ballo datasi in Palazzo Ducale la sera del Giovedì grasso del 1355, il nobile Michele Steno veniva cacciato dalla sala per alcuni eccessi dimostrati durante la festa, il quale però si vendicò scrivendo sopra il seggio del Falier il noto epigramma: "Marin Falier da la bela mugier. Altri la gode e lu la mantien!". Si dice che Marino Falier se la prese così tanto per questa frase che decise di ordire la nota congiura di Stato, che fu poi repressa e che terminò con la decapitazione del doge.


Interessante, anche se per motivi diversi, è la storia di Luigi Venier, figlio del doge Antonio Venier, il quale era l'amante della moglie del nobile Giovanni dalle Boccole. Accadde che la moglie si stufò di Luigi e non volle più donargli le sue grazie, questi però non la prese bene e pensò di attaccare sul ponte di Cà dalle Boccole due grandi corna accompagnate da una scritta volgarmente pesante contro la famiglia Dalle Boccole, e per questo veniva catturato e condannato a due mesi di prigione, seppur figlio del doge stesso. E' interessante il fatto che il Doge Antonio Venier, il quale avrebbe potuto intervenire per far almeno diminuire la pena, lasciò che la giustizia facesse il suo regolare corso, affermando che la giustizia è uguale per tutti.


Abbiamo visto qualche scandalo legato al mondo della nobiltà, ma anche i preti non volevano esser da meno e innumerevoli sono i casi di scandalo raccontati nelle cronache. Ricordiamo ad esempio, don Stefano Pianigo, piovano di San Polo, che sedusse una vedova, tale Cristina, e poi la diede in sposa a tale Nicoletto d'Avanzo, col patto di potersi congiungere con la donna, quando più gli fosse piaciuto.


 

mercoledì 15 luglio 2020

Perché si dice "attaccare bottone"

Sì, lo so, nessuno dice più “attaccare bottone”, è una roba da vecchi; ma io sono vecchio, e magari tra di voi c'è qualcuno che come me è nato e cresciuto nel secolo scorso e ancora si ricorda di questo modo di dire, e magari non sa perché mai si dica “attaccare bottone” riferito all'atto del rivolgere la parola ad una ragazza, o un ragazzo, che ci sembra interessante e con cui vorremmo... sì insomma avete capito.

In ogni città, grande o piccola, c'è sempre una strada, una piazza, un luogo deputato al camminamento pigro il cui unico fine è guardare, o farsi guardare, sa mai che magari si incontra una ragazza, o un ragazzo, piacevole.
In alcune città si chiama “fare le vasche”, in altre si dice “fare lo struscio” e così via, a Venezia si diceva “fare il liston”.
Uno dei più antichi luoghi di queste passeggiate era quello di Campo Santo Stefano, già nel XVI secolo. In quel tempo la piazza era erbosa, salvo una striscia, una "lista" che era selciata e dove si poteva camminare comodamente avanti e indietro, chiacchierando e facendosi notare.
Quella comoda lista selciata veniva chiamata appunto liston.
Lì alla sera un gran numero di dame sfilavano civettando e lanciando sguardi ammiccanti ai cavalieri.
Di queste passeggiate riferisce, naturalmente, anche Giacomo Casanova nelle sue "Memorie".

Prima di continuare però dobbiamo fare un salto sull'isola della Giudecca, presso l'ex ospizio detto delle Zitelle (non nel senso di donne non sposate, ma di fanciulle orfane). Opera del Palladio tra l'altro.
Ora, dovete sapere che a Venezia, ai tempi della Repubblica intendo, il meccanismo sociale per salvare gli orfani in città (o i bambini poveri in generale) era sorprendentemente moderno ed efficiente.
Gli orfani venivano raccolti dalle strade e li si introduceva in strutture specifiche dove veniva loro insegnato un mestiere; per evitare appunto che i maschi si dessero alla delinquenza o all'accattonaggio, e le femmine alla prostituzione.
Alle fanciulle portate alla struttura delle Zitelle veniva insegnato il mestiere della sarta. Imparavano quindi il cucito in modo che in futuro avrebbero potuto mantenersi.

Nel Settecento queste ragazze si specializzarono nella creazione del famoso scialle veneziano; confezionato in seta e in pizzo per le dame, o in lana per le popolane, ma sempre rigorosamente con lunghe frange.

Tra l'altro lo scialle era in qualche modo simbolo di rispettabilità; l'uso era infatti vietato alle meretrici.

Ora dobbiamo immaginare queste dame passeggiare appunto lungo i famosi liston, agghindate con il loro scialle.
Quando adocchiavano un cavaliere che ritenevano interessante (perché diciamocelo, a noi uomini piace pensarci cacciatori, ma alla fine son loro che decidono), dicevamo, quando incrociavano un giovanotto di bell'aspetto, con un rapido gesto della mano prendevano un lembo dello scialle e lo facevano volteggiare facendo svolazzare con maestria le lunghe frange, le quali andavano ad impigliarsi sui bottoni della giacca del cavaliere … ecco perché si dice “attaccare bottone”, “tacar boton” in veneziano!

So cosa state pensando: e se il giovanotto in questione non aveva la giacca con i bottoni? Eh non lo so! Trovavano un altro modo, fioi, di sicuro una dama veneziana non si arrendeva per così poco!

So che in altre parti d'Italia l'espressione “attaccare bottone” ha un significato diverso, tipo “tediare qualcuno con un discorso lungo e noioso” ma a me piace di più la versione veneziana ;)



CIAO


No, non vi sto salutando, non ancora per lo meno … voglio parlarvi proprio della parola “ciao”.
Molti di voi già lo sanno, ma magari c'è ancora qualcuno che non lo sa: la parola “ciao” è una parola veneziana, o meglio, deriva dalla parola veneziana 'sciavo, che significa “servo” (“servo” non “schiavo”).
Da 'sciavo divenne 'sciao infine ciao.
Quando due gentiluomini si incontravano si salutavano dicendo “'sciavo vostro” nel senso di “sono servo vostro” “sono al vostro servizio”
Ancora oggi in Veneto se chiamate “Toni” l'altro vi risponde “comandi!”
Abbreviato in “mandi” dai friulani …

A proposito di servi e di schiavi, pochi sanno che la prima nazione al mondo ad abolire il commercio degli schiavi fu la Repubblica di Venezia nel 960, almeno ufficialmente, poi in realtà la legge veniva spesso disattesa, ma intanto questi già prima dell'anno Mille ci avevano quanto meno pensato …
C'è anche da dire che la motivazione non era solo umanitaria, ma anche pratica: gli schiavi non pagano le tasse, gli uomini liberi sì!

Resta il fatto che quando dite “ciao” a qualcuno gli state dicendo “sono al tuo servizio”.

Bizzarramente la parola “ciao” negli ultimi decenni si è diffusa anche al di fuori dell'Italia, curiosamente però viene usata quasi sempre unicamente per il commiato … mah, questi foresti che non conoscono la lingua veneziana!



domenica 11 marzo 2018

Carlo Goldoni, lucido e visionario economista

Lucidissimo economista, nelle sue commedie Carlo Goldoni non descrive banalmente lo scontro tra padri spilorci e figli dissipatori, ma le contraddizioni di un'economia malata nella quale l'eccesso di spesa è contemporaneamente una necessità vitale e un rischio mortale.
Quando parliamo di Goldoni ci pare d'avere a che fare con un Molière minore, e per giunta tardivo; con un giocoso dipintore dei vizi della società del suo tempo; e un poco persino con un venditore di gondole, che ci accompagna nelle pittoresche atmosfere del Settecento veneziano. Tutto questo basterebbe a tenerci lontani dalla sua opera, come alcuni stanno ormai lontani dalla città di Venezia... 
E tuttavia sarebbe un errore, perché Carlo Goldoni fu molto di più. Più di un venditore di gondole, beninteso; più di un moralista o d'un immoralista; e più di Molière, se vogliamo.
Con Goldoni siamo già piuttosto dalle parti di Honoré de Balzac ovvero alla nascita di un'arte intesa come scienza, come paradigma conoscitivo, e in particolare come modello dei rapporti economici. Ma Balzac nasce 5 anni dopo la morte di Goldoni, perché scomodarlo? Andiamo con ordine, e scomodiamo di conseguenza.
Nato nel 1707, morto nel 1793, Carlo Goldoni fu contemporaneo di Adam Smith, nato nel 1723, morto nel 1790.
Il cruccio scientifico di Goldoni, se teniamo fede alle sue dichiarazioni programmatiche, sembra non essere altro che quello di rappresentare con la massima precisione i vari tipi umani, ovvero dei caratteri universali in cui ciascuno possa riconoscersi. Non c'è nulla di originale in questo: si chiama commedia di costume, ed è appunto il genere in cui eccelleva Molière. Non è neppure troppo dissimile dalla Commedia dell'Arte con i suoi padroni burberi i suoi servi sfaticati. 
Se si trattasse solo di questo, il merito di Goldoni, nel proporre la sua commedia di carattere, non sarebbe altro che d'aver raffinato la tecnica, aggiornandola alla società borghese. Tuttavia l'autore veneziano non si limita a far sfilare questi caratteri in “scene accozzate senz'ordine e senza regole”, né - come Molière - tesse trame con l'unico scopo di far emergere i personaggi paradigmatici: l'avaro, il borghese gentiluomo, il tartufo, il malato immaginario, il misantropo, eccetera.
Al contrario, e soprattutto nelle commedie d'ambiente, il genio di Goldoni sta nell'aver messo in scena, piuttosto che dei tipi umani, dei tipi di situazioni che drammatizzano i meccanismi economici del capitalismo nascente.
In effetti, le azioni e i moventi di cui è fatto il teatro goldoniano sono spesso di natura contrattuale, monetaria, finanziaria, creditizia, speculativa. In questo senso Carlo Goldoni è più di un semplice testimone, che descrive in maniera confusa sintomi ed epifenomeni: sulla scena egli è in grado di ordinarli, esaminarli, collegarli, sistematizzarli.
La “Trilogia della villeggiatura” è in questo senso rappresentativa. La villeggiatura è definita da Goldoni “una mania, una passione, un disordine”, poi ancora un “fanatismo” una vera e propria patologia che produce debito, ma è sulla scena “feconda di ridicolo e di stravaganze”. Dunque qual è il legame tra la villeggiatura e la ricchezza delle nazioni?
Lo si capisce leggendo Le smanie per la villeggiatura, primo capitolo della celebre trilogia, quando Vittoria, che vuole farsi comprare un vestito dal fratello sommerso dai debiti, sostiene che rinunciare a una spesa superflua “può far perdere il credito”.
Quello che sembra soltanto il capriccio d'una ragazza viziata, da cui scaturisce l'effetto comico, è in realtà il cuore di un sistema economico nel quale lo spreco onorifico permette di attrarre nuovo capitale e il debito alimenta il credito. Insomma la risposta di Vittoria è tutt'altro che ingenua.
Il rischio estremo cui va incontro è di perdere il credito. Dietro il ridicolo, dietro la vanità, dietro la critica, dietro la follia, Goldoni fa trasparire la tragica ragionevolezza del comportamento di Vittoria, costretta a inseguire freneticamente la moda e combattere l'obsolescenza programmata delle merci.
Perché la sua follia è del tutto ragionevole nel contesto della società in cui vive.
Non sono infatti i personaggi di Goldoni a essere pazzi o banalmente vanitosi, ma l'universo stesso in cui vivono a essere disfunzionale.
Negli anni ruggenti del primo Novecento, poco prima della grande crisi del 1929, a incarnare questo paradosso con malinconica ironia, fu lo scrittore americano Francis Scott Fitzgerald, che in un suo articolo del 1924 per il Saturday Evening Post, consegnò una formula perfetta: “Siamo troppo poveri per risparmiare, il risparmio è un lusso”.

(fonte: R. A. Ventura)

venerdì 20 ottobre 2017

Sistema numerico veneziano

[ se non avete tempo e/o voglia di leggere, in fondo al testo trovate il video del post ;) ] 

Presso la maggior parte delle civiltà che si sono sviluppate su questo pianeta, il sistema numerico si basa sul numero 1.
Nel senso che si parte a contare dal numero 1 e si procede man mano a contare...

A Venezia invece, tutto si basa sul numero 2. 
 
Vi faccio un esempio concreto: l'altro giorno ero in sala d'attesa del medico di base, e c'erano due gentildonne che se la contavano su. Ad un certo punto una dice: "Mia sorella è stata operata 3 volte: do e n'altra " …

Capite? Si parte comunque dal due e poi si conta, a salire...

D'altra parte, l'istituzione stessa della venezianità più pura, cioè i bacari, hanno nomi assai significativi:
  • Do Mori
  • Do Spade
  • Do Colonne

Come dite? Non sapete cos'è un bacaro?
Mmhhh... come spiegare? … Non esiste un termine adeguato corrispondente in italiano... diciamo che è un po' enoteca, un po' street food, un po' baretto confessionale, un po' caffè letterario... La loro missione è quella di sempre: dar da bere a veneziani e foresti fornendo anche alcuni "piatti di credenza" vale a dire salumi e formaggi, insieme a quella piccola e intrigante "cucina in briciole" che va sotto il nome di cicchetti.

Alle orecchie di un italiano, il termine “cicchetto” suona come qualcosa da bere, ma in realtà la parola che identifica questi piccoli frammenti di un discorso amoroso-culinario, deriva dal latino ciccus, cioè “piccolo boccone”. Un boccone quindi che può assumere mille forme, ma si tratta pur sempre di qualcosa da masticare, non da bere.

Ma sto divagando, torniamo al sistema numerico veneziano...
sì perché anche le farmacie non sono da meno:
  • Alle due colonne
  • Due ombrelli
e così via...

D'altra parte, scusate, ma in Piazzetta San Marco, di colonne ghe ne xe do, mica una!


giovedì 22 dicembre 2016

Il doge di Venezia non veniva pagato

Nessun doge di Venezia, così come nessun'altra carica pubblica elettiva di alto e di altissimo livello ai tempi della Serenissima, percepiva alcun compenso per i servigi che rendeva allo Stato; servire la Repubblica era un dovere e un onore, e dare il meglio di sé per Venezia era quanto di migliore si potesse fare nella vita.
Anche per questo, in genere, il doge veniva eletto tra i nobili dotati di maggior patrimonio personale: essere a capo della Serenissima era infatti senz'altro un onore grandissimo, ma anche un onere fortissimo.
Il doge versava i contributi allo Stato alla pari di ogni altro nobile e non poteva essere omaggiato con il bacio della mano o con la genuflessione. Non poteva avere alcuna statua a lui dedicata: il culto della personalità era rigorosamente vietato, e in linea generale, per ogni decisione che riteneva di dover assumere - specialmente quelle importanti - subiva le attenzioni e le ingerenze della Signoria.
Il doge era una sorta di prigioniero a Palazzo Ducale: non poteva accrescere in alcun modo i poteri che gli erano stati conferiti; non poteva ricevere di sua iniziativa nessuno, in veste ufficiale, né spedire autonomamente lettere di Stato o riceverne. Non poteva fare donazioni, se non all'interno della sua stessa famiglia, e in ogni caso non poteva riceverne.
Non poteva più curare i suoi interessi mercantili ed economici (un po' quello che succede con il cosiddetto blind trust che viene applicato ai presidenti degli Stati Uniti) e ogni suo tentativo di influenza nelle nomine delle varie magistrature sarebbe stato oggetto delle cure delle Magistrature di Stato.

(Estratto dal nuovo libro di Alberto Toso Fei: "Forse non tutti sanno che a Venezia...")

giovedì 26 maggio 2016

Francesco Petrarca a Venezia e le Corderie della Tana

Nell'estate del 1362, da Padova, Francesco Petrarca avvia trattative con la Repubblica di Venezia, queste le condizioni: Petrarca lascia in eredità la sua biblioteca alla Repubblica, qualora la Repubblica gli offra una casa in città.
Senza intralci burocratici vien presa subito la decisione (abbiamo i verbali della seduta del Maggior Consiglio, 4 settembre 1362), e viene offerta al Petrarca una casa che gli piace moltissimo: il palazzo Molin.
Chi conosce un po' Venezia sa che ancora al giorno d'oggi di palazzi Molin ce ne sono diversi. Quello dove viene a stare il Petrarca è un altro ancora che non c'è più. Possiamo immaginarlo sulla Riva degli Schiavoni. Venendo dal Palazzo Ducale, dopo il ponte della Paglia (con vista sul passaggio aereo detto “dei sospiri”), dopo il Danieli (grondante letteratura e pettegolezzi), dopo la chiesa della Pietà (dove non suonò mai Vivaldi), si scavalca il rio Sant'Antonin sul ponte del Sepolcro, subito a sinistra il palazzo Navagero, poi sede del Presidio Militare già caserma Aristide Cornoldi, già convento del Sepolcro. La casa del Petrarca era qui (lapide).
Il Petrarca ci lascerà opere in latino con la descrizione di quel che vede dalle sue finestre. Una volta vengono ad ormeggiare proprio qui due navi grandi come la casa, i loro alberi si ergono molto più in alto dei tetti. Poi una notte, stanco ed assonnato, ha appena cominciato a scrivere una lettera quando sente strepiti e grida. Sale di corsa in cima a una delle due torri che ha la casa e vede che una delle due navi sta salpando. Le stelle sono coperte dalle nubi, il vento scuote la casa dalle fondamenta, il bacino di San Marco è tutto un tumulto, ma la nave prende il largo. È carica di merci pesanti, gran parte dello scafo è immersa, eppure la nave sembra una montagna galleggiante. La nave, gli dicono, è diretta alle foci del Don. Mentalmente il Petrarca le augura buon viaggio, e torna a finire la lettera che stava scrivendo.
Cosa pensate voi quando pensate al Don? Fiume russo, uno dei più lunghi d'Europa. Allora però si chiamava Tanai (dal greco Tánaïs, dal nome della città di “Tana”). In quel sonetto, che nel Canzoniere come lo conosciamo noi, porta il numero 148 inaugura la tradizione di flatus vocis che durerà almeno fino ad Alessandro Manzoni: “scoppiò da Scilla al Tànai / dall'uno all'altro mar”.
I veneziani a Tana, lungo il fiume Tanai (oggi Don), ci andavano ad acquistare la canapa (ma non solo), che poi avrebbero usato in una grande area coperta dell'Arsenale, per fabbricare le corde per le navi (ma non solo).
Lungo i muri esterni delle Corderie (edificio a tre navate, con 84 colonne, avente una lunghezza di 316 metri), troviamo calle e campo della Tana
 
Per inciso, della biblioteca di Petrarca a Venezia rimase ben poco e di quel poco quasi nulla è sopravvissuto all'umidità...

Quale città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirrannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita. Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura”
(Francesco Petrarca) 



(fonte: G. Dossena) 

mercoledì 16 marzo 2016

Gentile Bellini alla corte dell'Impero Ottomano

Durante il Rinascimento gli europei hanno un rapporto quasi schizofrenico con l'impero ottomano, da un lato temuto come la minaccia più spaventosa e dall'altro rispettato, ammirato e da qualcuno anche desiderato come modello sociale/politico alternativo rispetto all'intollerante e guerresco Occidente.
Ma anche gli Ottomani hanno un rapporto schizofrenico nei confronti dell'Europa, dove si uniscono da un lato il fascino e il desiderio di apprendere la loro tecnologia, e dall'altro la repulsione, il senso di superiorità indotto dalla fede islamica verso quei barbari dei cristiani.
La fascinazione per l'Occidente è legata in gran parte alle tecnologie occidentali, perché molto presto ci si rende conto che, anche se l'impero è perfettamente in grado di affrontare i cristiani alla pari sul campo di battaglia e ha una cultura altrettanto complessa, tuttavia ci sono tanti aspetti in cui l'Occidente ha un margine di superiorità. Basta guardare gli acquisti dei sultani, delle loro famiglie, delle loro donne, gli acquisti dei gran visir e dei pascià: c'è tutta una serie di merci che nel Cinquecento e nel Seicento gli ottomani sono costretti a comprare in Occidente, perché nel loro impero non si producono. Sono commerci che non si interrompono mai, e proseguono con estrema disinvoltura anche in tempo di guerra. Sultani e gran visir ordinano a Venezia occhiali, carte geografiche, orologi, vetri, lampade. Le lampade per le grandi moschee di Costantinopoli sono comprate a Venezia, perché nessuno produce vetri come quelli che si fanno qui.
Ci sono anche consumi voluttuari che rendono i turchi dipendenti dall'Occidente: per esempio a Costantinopoli è di gran moda il formaggio parmigiano, che però a quell'epoca si chiamava "piacentino".
Quando la figlia del sultano Solimano, Mihrimah, decide di offrire un nuovo acquedotto per la Mecca, per dare da bere ai pellegrini, gli attrezzi per i lavori li deve ordinare in Occidente, perché nell'impero nessuno sa produrre acciaio di così buona qualità.
Succede perfino che quando sta per scoppiare la guerra tra Venezia e gli Ottomani (è la guerra che poi porterà alla battaglia di Lepanto), il comandante della flotta imperiale turca, il kapudan pascià, abbia la faccia tosta di andare dall'ambasciatore veneziano per comprare dei fanali dai mercanti veneziani da mettere sulla sua galera!
Del resto la flotta del sultano era fornita di cannoni fabbricati con la consulenza di tecnici occidentali.
L'impero ottomano compensava questa sua arretratezza tecnologica con altri punti di forza, culturali, sociali e politici, ma non c'è dubbio che abbiano sempre percepito il fatto che vi erano degli aspetti in cui i barbari occidentali, misteriosamente, per volere di Dio, avevano un margine di superiorità.
Un esempio straordinario di questa fascinazione contraddittoria, è rappresentato dalle arti figurative. La civiltà occidentale nel Medioevo e ancor più nel Rinascimento, punta moltissimo sulla pittura e sulle arti figurative in genere, sia sul piano comunicativo sia della conoscenza della realtà che ci circonda.
Il mondo islamico invece ha un rapporto molto più difficile con le arti figurative, perché in teoria, se si dovessero ascoltare i dettami della legge islamica, raffigurare degli esseri viventi è un atto di empietà: significa riprodurre qualcosa che Dio ha creato e di cui lui solo è il padrone. Per cui solo il miscredente cristiano può pensare di rappresentare Dio con la barba bianca e non rendersi conto che sta commettendo un atto vergognoso nei suoi confronti.
Tuttavia i turchi musulmani sanno benissimo che i barbari occidentali hanno inventato delle tecniche di pittura straordinarie, e ne sono affascinati.
Non è forse un caso che il sultano che più di tutti si è interessato alla pittura europea, sia proprio quello straordinario personaggio che è Maometto II il Conquistatore, il quale chiama a Costantinopoli (in questa città che lui sta trasformando di nuovo in una grande capitale mondiale) dei pittori rinascimentali, tra cui Gentile Bellini da Venezia, il quale esegue il suo ritratto.
Questo quadro esiste ancora oggi (o almeno la critica lo riconosce come tale) e rappresenta la fisionomia turca di Maometto II, con la sua barbetta a punta.
Alla morte del sultano, il successore Beyazit II, che è un pio musulmano, trova vergognosa la faccenda del ritratto e lo fa vendere al bazar.
Il quadro poi andrà perso e, dopo chissà quali peripezie, ritrovato (oggi si trova a Londra), ma quel che è certo è che a Costantinopoli non ne seguirà alcuna tradizione pittorica.


(fonte: A. Barbero)