L'edificio d'angolo con le Mercerie San Zulian, un tempo ospitava il Caffè di Menegazzo. Il locale era così chiamato per l'aspetto fisico del suo proprietario, Menico, uomo tarchiato e corpulento ma simpatico e ospitale. Questo luogo di ritrovo fu particolarmente famoso nel Settecento perché frequentato da noti personaggi della vita veneziana: Daniele Farsetti, Carlo Goldoni, Giacomo Casanova e L'Abate Chiari.
Nelle sale di questo caffè venne fondata l'Accademia dei Granelleschi. L'origine dell'Accademia fu piuttosto originale. Daniele Farsetti ed altri amici avevano ascoltato nel convento di S. Domenico un ridicolo sermone in onore di S.Vincenzo Ferreri, recitato da un prete, Giuseppe Sacchellari, considerato da loro non troppo sveglio né intelligente. La compagnia di amici, per burla, invitò il sacerdote a far parte dell'Accademia che essi stavano fondando e gli proposero di diventarne massimo esponente col titolo di "Arcigranellone"! Ma al di là dello scherzo nei confronti del povero parroco, Farsetti e i suoi amici decisero comunque di fondare l'Accademia in questione, che fu detta dei Granelleschi in ricordo del falso titolo di Sacchellari. Si scelse pertanto come insegna un gufo che con una zampa sollevava dei granelli.
Dell'Accademia fecero parte anche i fratelli Carlo e Gasparo Gozzi.
Narra il Molmenti che l'Accademia "aveva sotto la celia il nobile intento di guarire l'enfasi oratoria che guastava l'arte e il pensiero, e di opporsi al crescente imbarbarimento della lingua, sebbene con affettata imitazione degli antichi scrittori toscani fosse ben lontana dal conseguirne l'intento".
La bottega di Menegazzo continuò la sua attività anche nell'Ottocento, ma priva ormai della sua funzione di caffè letterario; cambio infine nome in "Trovatore", come ci ricorda il Cicogna nei suoi "Diarii" in data 21 luglio 1861.
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martedì 5 giugno 2012
Il Caffè Menegazzo e l'Accademia dei Granelleschi
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mercoledì 5 gennaio 2011
Venezia all'alba del XX secolo
Davanti all'obiettivo di Tomaso Filippi, alcune giovani veneziane si espongono con candore popolare che intenerisce: colgono l'acqua dai pozzi, rattoppano le reti da pesca, oppure vendono ceste di pesce al mercato di Rialto. Le loro madri, sedute in cerchio sull'uscio di casa, infilano perle chiacchierando tra loro. I corpi sono infagottati negli abiti consunti e troppo larghi. I volti sono tristi, i capelli ribelli, le scarpe scalcagnate.
Quando l'alba sorge sul XX secolo, Venezia soffre di un netto ritardo rispetto alle altre città italiane. Bisogna creare lavoro, unire l'isola alla terraferma. La fragile struttura acquatica viene sventrata con fragore e brutalità. La modernità preme e si affretta ad omogeneizzare e banalizzare tutto.
I ricchi stranieri acquistano a basso prezzo i palazzi da sogno che erano stati abbandonati dalle antiche famiglie patrizie della Serenissima. I nuovi occupanti ricevono ed invitano il fior fiore degli scrittori, dei pittori, degli esteti e dei collezionisti che, di giorno e di notte, esplorano, con il naso all'insù, il labirinto delle calli silenziose e deserte. All'ora del tè si passeggia in Piazza San Marco, prima di ritrovarsi al Quadri o al Florian, sulle piccole panchine cremisi, avvolti nei cappotti confezionati dallo spagnolo Mariano Fortuny. Si vive Venezia dentro se stessi, come una religione. Infine, calata la sera, sotto le stelle, nelle gondole o nelle barche da pesca, ci si dà alla serenata, ripassando o inventando melodie veneziane.
Offesi e feriti da una modernità rumorosa, invadente ed aggressiva, molti veneziani guardano con diffidenza e freddezza la loro immagine dai contorni poco definiti che si riflette nello specchio spezzato del presente.
L'amore folle, ossessivo, a volte addirittura morboso degli stranieri per Venezia aiuta forse alcuni di loro a riprendere il filo del discorso bruscamente interrotto con il loro passato. A scendere nel pozzo buio e profondo della storia per cercarvi i tesori che decenni di occupazione francese ed austriaca avevano finito col nascondere e far dimenticare. Un patrimonio la cui esistenza era stata cancellata, e che bisognava ora riesumare, trascrivere, pubblicare, suonare, studiare e trasmettere ai più giovani.
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Quando l'alba sorge sul XX secolo, Venezia soffre di un netto ritardo rispetto alle altre città italiane. Bisogna creare lavoro, unire l'isola alla terraferma. La fragile struttura acquatica viene sventrata con fragore e brutalità. La modernità preme e si affretta ad omogeneizzare e banalizzare tutto.
I ricchi stranieri acquistano a basso prezzo i palazzi da sogno che erano stati abbandonati dalle antiche famiglie patrizie della Serenissima. I nuovi occupanti ricevono ed invitano il fior fiore degli scrittori, dei pittori, degli esteti e dei collezionisti che, di giorno e di notte, esplorano, con il naso all'insù, il labirinto delle calli silenziose e deserte. All'ora del tè si passeggia in Piazza San Marco, prima di ritrovarsi al Quadri o al Florian, sulle piccole panchine cremisi, avvolti nei cappotti confezionati dallo spagnolo Mariano Fortuny. Si vive Venezia dentro se stessi, come una religione. Infine, calata la sera, sotto le stelle, nelle gondole o nelle barche da pesca, ci si dà alla serenata, ripassando o inventando melodie veneziane.
Offesi e feriti da una modernità rumorosa, invadente ed aggressiva, molti veneziani guardano con diffidenza e freddezza la loro immagine dai contorni poco definiti che si riflette nello specchio spezzato del presente.
L'amore folle, ossessivo, a volte addirittura morboso degli stranieri per Venezia aiuta forse alcuni di loro a riprendere il filo del discorso bruscamente interrotto con il loro passato. A scendere nel pozzo buio e profondo della storia per cercarvi i tesori che decenni di occupazione francese ed austriaca avevano finito col nascondere e far dimenticare. Un patrimonio la cui esistenza era stata cancellata, e che bisognava ora riesumare, trascrivere, pubblicare, suonare, studiare e trasmettere ai più giovani.
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