"Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D'abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d'accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell'Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza.
- Dimmi ancora un'altra città - insisteva.
- Di là l'uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... - riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d'un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d'arrendersi. Era l'alba quando disse:
- Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.
- Ne resta una di cui non parli mai.
Marco Polo chinò il capo.
- Venezia - disse il Kan.
Marco sorrise: - E di che altro credevi che ti parlassi?
L'imperatore non batté ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia
- Quando ti chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle, e di Venezia, quando ti chiedo di Venezia
- Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia
- Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com'è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei.
L'acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell'antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano.
- Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano - disse Marco - Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco."
(Italo Calvino)
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lunedì 14 novembre 2011
Le Venezie invisibili
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giovedì 24 giugno 2010
Venezia e il suo mito
"Nobilissima" qualifica Venezia, nel titolo della sua celebre guida uscita nel 1581, Francesco Sansovino (figlio del più noto architetto Jacopo), volendo, nell'aggettivo, fondere l'idea di bellezza eletta con quella di gestione politica socialmente selezionata. Non solo: Venezia è anche "singolare". In effetti la singolarità sembra il connotato principe della città. Spiccatissima la sua individualità, percepita via via come unica, irripetibile, strana, turbante.
Un ambiente insomma non omologabile. Persino i suoi abitanti paiono una sorta d'anomalia antropologica: essi non arano, non seminano, non vendemmiano. I suoi nobili non hanno niente in comune coi tratti costitutivi dei ceti nobiliari: questi suppongono possesso di terre e castelli con prerogative feudali, quelli invece navigano e mercanteggiano. Già la lettera di Cassiodoro evoca la stranezza di un popolo le cui case hanno legata fuori dall'uscio un'imbarcazione al posto del cavallo.
Nel secolo XIV Frà Nicolò da Poggibonsi si emoziona alla vista di "Vinegia, fatta in altro modo, con le strade che sono canali d'acqua". Sempre l'acqua campeggia, quasi confondendosi e confrontandosi col cielo, attorno e dentro, cornice e sostanza, habitat biofisico. Diaframma e sutura le pietre tra specchio liquido e volta celeste. In questo sta la sua diversità di facies urbana reale e irreale, in certo qual modo alternativa e perciò sempre più caricabile di significati, sempre più satura di stimoli, sempre più dislocabile sul versante dell'immaginazione. Si dilata, nel definirsi modellarsi e complicarsi della sua forma, a dimensioni esistenziali estreme, da quelle dell'amore a quella della morte.
Venezia è se stessa e, nel contempo, è sempre qualcos'altro, è sempre ulteriorità possibile.
I dotti fuggiti da Costantinopoli caduta, nel 1453, in mano turca v'approdano come ad una seconda Bisanzio, gli umanisti la salutano come un' Atene rediviva.
S'attivano altresì, in sintonia col concreto esercizio del potere, i due meccanismi ideologici più efficaci: quello della presupposizione della sua legittimità e bontà e quello, conseguente, della sua valorizzazione: mitizzabile e perciò mitizzata.
C'è la convinzione del superiore destino della città: essa si sente una seconda Roma, anzi di Roma migliore perché senza le agitazioni sociali del periodo repubblicano, senza le dispotiche degenerazioni di quello imperiale.
L'aristocrazia lagunare non ha remore in fatto di autogratificazione: il suo governo non è soltanto il migliore tra gli esistenti, ma anche tra i concepibili. Essa è la "città felice", la "vera forma di perfetto governo", sintetizza Paolo Paruta.
Ma se il mito del perfetto reggimento politico finisce con lo sfaldarsi nell'età dei lumi, resiste quello della città di sogno appagante e anticipante le fantasie dei poeti. Rimane lo scenario urbano con tutta la sua carica di suggestioni psichiche.
La storia, si può obiettare, bada ai fatti, non s'attarda con ideologismi mitizzatori, né con fantasticherie esistenziali. Ma sarebbe ingiusto applicare a Venezia un'ottica così riduttiva: sfuggirebbero persino i meri fatti. Anzi, mito e realtà, verità e deformazione, si confondono e si compenetrano inscindibilmente.
Le trine marmoree degli edifici specchiantisi nei canali e inquadrati dai campi, i labirintici andirivieni del tessuto viario, l'inarcarsi dei ponti, il rimbalzare delle voci tra pietre ed acque, il subitaneo subentrare del silenzio all'eccitato brusio, i colori movimentati nel cangiare della luce, sono anch'essi storia.
La città è anche quello che significa e che ha significato. Si monca la traccia della sua vicenda se si dimentica la trasformazione in mito della propria civiltà.
Di bellissime città è piena l'Italia, ma Venezia è anche paesaggio mentale, luogo dell'anima, referente attivo e passivo dell'immaginazione, involucro e contenuto per il desiderio.
Tutto ciò s'incorpora nella sua storia.
Proprio perché unica al mondo è la città di cui il mondo ha bisogno.
Senza di lei il mondo sarebbe più povero.
Un ambiente insomma non omologabile. Persino i suoi abitanti paiono una sorta d'anomalia antropologica: essi non arano, non seminano, non vendemmiano. I suoi nobili non hanno niente in comune coi tratti costitutivi dei ceti nobiliari: questi suppongono possesso di terre e castelli con prerogative feudali, quelli invece navigano e mercanteggiano. Già la lettera di Cassiodoro evoca la stranezza di un popolo le cui case hanno legata fuori dall'uscio un'imbarcazione al posto del cavallo.
Nel secolo XIV Frà Nicolò da Poggibonsi si emoziona alla vista di "Vinegia, fatta in altro modo, con le strade che sono canali d'acqua". Sempre l'acqua campeggia, quasi confondendosi e confrontandosi col cielo, attorno e dentro, cornice e sostanza, habitat biofisico. Diaframma e sutura le pietre tra specchio liquido e volta celeste. In questo sta la sua diversità di facies urbana reale e irreale, in certo qual modo alternativa e perciò sempre più caricabile di significati, sempre più satura di stimoli, sempre più dislocabile sul versante dell'immaginazione. Si dilata, nel definirsi modellarsi e complicarsi della sua forma, a dimensioni esistenziali estreme, da quelle dell'amore a quella della morte.
Venezia è se stessa e, nel contempo, è sempre qualcos'altro, è sempre ulteriorità possibile.
I dotti fuggiti da Costantinopoli caduta, nel 1453, in mano turca v'approdano come ad una seconda Bisanzio, gli umanisti la salutano come un' Atene rediviva.
S'attivano altresì, in sintonia col concreto esercizio del potere, i due meccanismi ideologici più efficaci: quello della presupposizione della sua legittimità e bontà e quello, conseguente, della sua valorizzazione: mitizzabile e perciò mitizzata.
C'è la convinzione del superiore destino della città: essa si sente una seconda Roma, anzi di Roma migliore perché senza le agitazioni sociali del periodo repubblicano, senza le dispotiche degenerazioni di quello imperiale.
L'aristocrazia lagunare non ha remore in fatto di autogratificazione: il suo governo non è soltanto il migliore tra gli esistenti, ma anche tra i concepibili. Essa è la "città felice", la "vera forma di perfetto governo", sintetizza Paolo Paruta.
Ma se il mito del perfetto reggimento politico finisce con lo sfaldarsi nell'età dei lumi, resiste quello della città di sogno appagante e anticipante le fantasie dei poeti. Rimane lo scenario urbano con tutta la sua carica di suggestioni psichiche.
La storia, si può obiettare, bada ai fatti, non s'attarda con ideologismi mitizzatori, né con fantasticherie esistenziali. Ma sarebbe ingiusto applicare a Venezia un'ottica così riduttiva: sfuggirebbero persino i meri fatti. Anzi, mito e realtà, verità e deformazione, si confondono e si compenetrano inscindibilmente.
Le trine marmoree degli edifici specchiantisi nei canali e inquadrati dai campi, i labirintici andirivieni del tessuto viario, l'inarcarsi dei ponti, il rimbalzare delle voci tra pietre ed acque, il subitaneo subentrare del silenzio all'eccitato brusio, i colori movimentati nel cangiare della luce, sono anch'essi storia.
La città è anche quello che significa e che ha significato. Si monca la traccia della sua vicenda se si dimentica la trasformazione in mito della propria civiltà.
Di bellissime città è piena l'Italia, ma Venezia è anche paesaggio mentale, luogo dell'anima, referente attivo e passivo dell'immaginazione, involucro e contenuto per il desiderio.
Tutto ciò s'incorpora nella sua storia.
Proprio perché unica al mondo è la città di cui il mondo ha bisogno.
Senza di lei il mondo sarebbe più povero.
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