Il nome dell' isola si riferisce alla presenza di alghe nella zona proliferate a causa dell'ambiente che si era creato nella fusione delle acque del fiume Brenta con quelle della laguna.
In quella zona si ha memoria, intorno al Trecento, dell'esistenza della così detta "Puncta canetorum", sorta di lunga penisola che si era formata da Fusina fino a collegarsi quasi con Venezia a Santa Marta. Terra che venne rimossa per impedire una facile via d'accesso alla città ad eventuali nemici. Si dispose di prelevare da quel sito la terra che serviva per bonificare e interrare altre zone della laguna.
L'isola di San Giorgio in Alga era luogo di accoglienza e di congedo di eminenti personaggi che giungevano a Venezia. Si ricorda in proposito la grande cerimonia organizzata per la partenza del re di Francia Enrico III per Fusina accompagnato dal doge Mocenigo, e in seguito l'accoglienza fatta al papa Pio VI.
Vi aveva sede un monastero benedettino, poi dal 1350 fu degli eremiti agostiniani.
Ma fu nel '400, con l'arrivo dei Canonici Regolari, che l'eremo divenne importante centro di umanisti. Fra questi si ricordano: Gabriele Condulmer, che divenne papa col nome di Eugenio IV, e quel Lorenzo Giustinian, detto "il Santo" che, dopo essere stato priore del monastero, fu nominato primo Patriarca di Venezia.
Il monastero vantava una preziosa biblioteca e varie opere d'arte del Veronese, del Vivarini e del Bellini; un angolo della laguna meta di raffinati studiosi.
Vi funzionava un sistema di segnalazioni per facilitare la navigazione delle imbarcazioni di passaggio, e la grande "cavana" accoglieva i natanti in caso di tempesta.
Ai Canonici Regolari subentrarono i Carmelitani Scalzi che vi rimasero fino al '700.
Nel 1717 un devastante incendio distrusse il sito con le sue preziose opere d'arte, biblioteca ed arredi vari; un vero disastro che segnò definitivamente il luogo.
Trasformato in carcere politico, con la caduta della Repubblica fu utilizzata come polveriera.
Ora restano i ruderi della chiesa, del monastero, della cavana, spogliati dei fregi, delle patere e di una vera da pozzo. C'era sull'angolo delle mura una statua della Madonna che ora è sistemata a Mazzorbo.
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Fonte: Fuga & Vianello
venerdì 27 agosto 2010
mercoledì 25 agosto 2010
Eleonora Duse
Eleonora Duse, che abitò a lungo all'ultimo piano di palazzo Barbaro Wolkoff sul Canal Grande tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, si sentiva veneziana nell'anima. D'altronde l'attrice, sebbene nata a Vigevano nel 1858, era originaria di Chioggia da parte di padre.
Palazzo Barbaro è separato da poco più di due metri dal palazzo Dario, che a quell'epoca era abitato dalla contessa De La Baume, che vi accoglieva una piccola corte di amici intellettuali: Angelo Conti, Mariano Fortuny, Mario de Maria, Gabriele D'Annunzio e altri.
Il grande regista Reinhardt favoleggiò di un casuale incontro tra la Duse e D'Annunzio vicino alle porte d'acqua dei due palazzi. Chissà, forse potrebbe persino essere vero!
Proprio Venezia quindi (città nella quale ebbe il suo primo grande successo teatrale con La principessa di Baghdad di Alexandre Dumas nel 1882), fu lo sfondo della loro tormentata storia d'amore, narrata dallo stesso D'Annunzio nel suo libro "Il Fuoco".
Seguire le vicende di questo amore aiuta a comprendere meglio sia lei che lui, ed è un vero peccato che le lettere di Gabriele ed Eleonora siano state distrutte per volontà della stessa Eleonora.
Ella fu una grandissima attrice, e se ebbe una vita sentimentale animata e varia, seppe trarne giovamento per la sua arte.
Dopo il matrimonio con l'attore Teobaldo Checchi (da cui ebbe una figlia, Enrichetta), ebbe diversi amanti, ma poi nel 1884 si legò col poeta e musicista Arrigo Boito, un uomo di vasta e profonda cultura, autore del Mefistofele e di numerosi libretti d'opera di Giuseppe Verdi, tra cui l'Otello e il Falstaff. Boito adattò per la Duse Antonio e Cleopatra di Shakespeare che andò in scena il 22 novembre 1888 al Teatro Manzoni di Milano.
La loro relazione durò sette anni e fu intensa ed appassionata, come testimoniano le numerose lettere rimaste. Boito fu per lei amico, amante e maestro.
Donna intelligente e libera, fu considerata con Sarah Bernhardt la più grande attrice dell'epoca e simbolo della belle epoque.
Quando inizia la sua relazione con D'Annunzio è al colmo della celebrità in Europa e oltre oceano, e ci si domanda chi dei due ha dato di più all'altro. Infatti fu lei a portare sulle scene i drammi dannunziani: Il sogno di un mattino di primavera, La Gioconda, Francesca da Rimini, La città morta, La figlia di Iorio, spesso finanziando ella stessa le produzioni e assicurando loro il successo e l'attenzione anche fuori dall'Italia.
Il 2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano l'opera La figlia di Iorio viene interpretata da Irma Grammatica, poiché la Duse si era detta malata, ma forse il problema era un altro. Nella vita di D'Annunzio infatti si stava affacciando la marchesa di Rudinì, e la storia con la Duse era giunta alla fine.
Nel 1907 D'Annunzio scriverà nei suoi Taccuini: "Nessuna donna m'ha mai amato come Eleonora, né prima, né dopo. Questa è la verità lacerata dal rimorso e addolcita dal rimpianto". Ma lei questa frase non la lesse mai: i Taccuini furono pubblicati solo nel 1965.
Il fotografo Giuseppe Primoli ebbe il privilegio di fotografarla nel suo appartamento a Palazzo Barbaro, così lo descrive: "L'aveva arredato con pochi mobili antichi e molti tappeti, i fianchi delle lunghe scale che occorreva salire per giungervi, erano stati ricoperti con stoffe scarlatte appese". La Duse chiese di non rendere pubbliche quelle fotografie, che infatti vennero pubblicate solo dopo la sua morte, avvenuta a Pittsburgh nel 1924.
Fu sepolta ad Asolo, dove negli ultimi anni abitò in un elegante palazzetto nella splendida Via Canova. Pochi anni prima aveva scritto ad un amico: "Asolo è bello e tranquillo, paesetto di merletti e poesia. Non è lontano dalla Venezia che adoro, vi stanno dei buoni amici che amo. Questo sarà l'asilo della mia ultima vecchiaia, e qui desidero essere seppellita"
Sulla sua lapide D'Annunzio dettò l'epitaffio: "Figlia ultimogenita di San Marco".
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Palazzo Barbaro è separato da poco più di due metri dal palazzo Dario, che a quell'epoca era abitato dalla contessa De La Baume, che vi accoglieva una piccola corte di amici intellettuali: Angelo Conti, Mariano Fortuny, Mario de Maria, Gabriele D'Annunzio e altri.
Il grande regista Reinhardt favoleggiò di un casuale incontro tra la Duse e D'Annunzio vicino alle porte d'acqua dei due palazzi. Chissà, forse potrebbe persino essere vero!
Proprio Venezia quindi (città nella quale ebbe il suo primo grande successo teatrale con La principessa di Baghdad di Alexandre Dumas nel 1882), fu lo sfondo della loro tormentata storia d'amore, narrata dallo stesso D'Annunzio nel suo libro "Il Fuoco".
Seguire le vicende di questo amore aiuta a comprendere meglio sia lei che lui, ed è un vero peccato che le lettere di Gabriele ed Eleonora siano state distrutte per volontà della stessa Eleonora.
Ella fu una grandissima attrice, e se ebbe una vita sentimentale animata e varia, seppe trarne giovamento per la sua arte.
Dopo il matrimonio con l'attore Teobaldo Checchi (da cui ebbe una figlia, Enrichetta), ebbe diversi amanti, ma poi nel 1884 si legò col poeta e musicista Arrigo Boito, un uomo di vasta e profonda cultura, autore del Mefistofele e di numerosi libretti d'opera di Giuseppe Verdi, tra cui l'Otello e il Falstaff. Boito adattò per la Duse Antonio e Cleopatra di Shakespeare che andò in scena il 22 novembre 1888 al Teatro Manzoni di Milano.
La loro relazione durò sette anni e fu intensa ed appassionata, come testimoniano le numerose lettere rimaste. Boito fu per lei amico, amante e maestro.
Donna intelligente e libera, fu considerata con Sarah Bernhardt la più grande attrice dell'epoca e simbolo della belle epoque.
Quando inizia la sua relazione con D'Annunzio è al colmo della celebrità in Europa e oltre oceano, e ci si domanda chi dei due ha dato di più all'altro. Infatti fu lei a portare sulle scene i drammi dannunziani: Il sogno di un mattino di primavera, La Gioconda, Francesca da Rimini, La città morta, La figlia di Iorio, spesso finanziando ella stessa le produzioni e assicurando loro il successo e l'attenzione anche fuori dall'Italia.
Il 2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano l'opera La figlia di Iorio viene interpretata da Irma Grammatica, poiché la Duse si era detta malata, ma forse il problema era un altro. Nella vita di D'Annunzio infatti si stava affacciando la marchesa di Rudinì, e la storia con la Duse era giunta alla fine.
Nel 1907 D'Annunzio scriverà nei suoi Taccuini: "Nessuna donna m'ha mai amato come Eleonora, né prima, né dopo. Questa è la verità lacerata dal rimorso e addolcita dal rimpianto". Ma lei questa frase non la lesse mai: i Taccuini furono pubblicati solo nel 1965.
Il fotografo Giuseppe Primoli ebbe il privilegio di fotografarla nel suo appartamento a Palazzo Barbaro, così lo descrive: "L'aveva arredato con pochi mobili antichi e molti tappeti, i fianchi delle lunghe scale che occorreva salire per giungervi, erano stati ricoperti con stoffe scarlatte appese". La Duse chiese di non rendere pubbliche quelle fotografie, che infatti vennero pubblicate solo dopo la sua morte, avvenuta a Pittsburgh nel 1924.
Fu sepolta ad Asolo, dove negli ultimi anni abitò in un elegante palazzetto nella splendida Via Canova. Pochi anni prima aveva scritto ad un amico: "Asolo è bello e tranquillo, paesetto di merletti e poesia. Non è lontano dalla Venezia che adoro, vi stanno dei buoni amici che amo. Questo sarà l'asilo della mia ultima vecchiaia, e qui desidero essere seppellita"
Sulla sua lapide D'Annunzio dettò l'epitaffio: "Figlia ultimogenita di San Marco".
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lunedì 23 agosto 2010
Ti con nu, nu con ti
Il 12 maggio 1797 si svolge a Venezia, nel Palazzo Ducale, l'ultima tragica riunione del Maggior Consiglio, durante la quale la Serenissima Repubblica dichiara la propria fine:
è la conclusione dell'anacronistica strategia veneta di neutralità disarmata e della condotta spietata di Napoleone.
Il 16 maggio viene creato un governo provvisorio (del quale l'ex Doge rifiuta di far parte) e, per la prima volta, sfilano in Piazza San Marco truppe nemiche. La dominazione francese dura ben poco, poiché, con i preliminari di Campoformio conclusi il 17 ottobre all'una dopo mezzanotte, ai francesi succedono gli austriaci.
Il breve periodo di occupazione delle forze rivoluzionarie sarà però ricordato per le razzie e le rapine che portano a Parigi circa 20.000 opere d'arte, tra le quali il leone di San Marco e i quattro cavalli della Basilica (innalzati sull'arco di trionfo del Carrousel).
Mentre sta deponendo le insegne del potere, l'ultimo doge Ludovico Manin viene severamente apostrofato da Francesco Pisani con queste parole: "Tolé su el corno e andé a Zara", esortandolo così a non abdicare, ma a rifugiarsi col governo in Dalmazia, terra fedelissima a Venezia.
Se a Venezia una parte della popolazione tumultua per qualche ora al grido di 'San Marco', in Dalmazia l'emozione per la caduta della Repubblica è vivissima: la disillusione, la rabbia e lo sconcerto per l'ineluttabilità della situazione si impadroniscono dei dalmati.
A Zara il gonfalone purpureo è portato in processione per l'ultima volta da tutta la popolazione, ma la cerimonia più commovente avviene a Perasto, che si gloriava di non esser mai stata presa dai turchi. Perasto, posta all'inizio della baia di Cattaro, aveva, per il suo valore, ottenuto il privilegio di fornire a Venezia i custodi del gonfalone e dimostra di saper concludere degnamente la sua unione con Venezia. La bandiera viene portata dalla popolazione, vestita a lutto e piangente, nella chiesa parrocchiale per essere posta sotto l'altare maggiore.
Prima di deporla il Conte Giuseppe Viscovich pronuncia queste celebri parole:
"Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon.
Per 377 anni la nostra fede, el nostro valor l'ha sempre custodio per terra e per mar, per tutto dove ne ha chiamà i so nemici, che xe sta pur quelli della Religion.
Per 377 anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite, le xe sempre stae per ti, o San Marco,
e felicissimi sempre se avemo reputà: ti con nu, nu con ti;
e sempre con ti sul mar nu semo stai illustri e virtuosi.
Nissun con ti n'ha visto scampar, nissun con ti n'ha visto vinti e paurosi".
Era il 23 agosto, ed erano gli ultimi vessilli veneti a venire deposti.
L'espressione 'Ti con nu, nu con ti' verrà ripresa nel 1919 da Gabriele D'Annunzio nella Lettera ai Dalmati ed era stata il motto della squadriglia aerea di San Marco da lui comandata.
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è la conclusione dell'anacronistica strategia veneta di neutralità disarmata e della condotta spietata di Napoleone.
Il 16 maggio viene creato un governo provvisorio (del quale l'ex Doge rifiuta di far parte) e, per la prima volta, sfilano in Piazza San Marco truppe nemiche. La dominazione francese dura ben poco, poiché, con i preliminari di Campoformio conclusi il 17 ottobre all'una dopo mezzanotte, ai francesi succedono gli austriaci.
Il breve periodo di occupazione delle forze rivoluzionarie sarà però ricordato per le razzie e le rapine che portano a Parigi circa 20.000 opere d'arte, tra le quali il leone di San Marco e i quattro cavalli della Basilica (innalzati sull'arco di trionfo del Carrousel).
Mentre sta deponendo le insegne del potere, l'ultimo doge Ludovico Manin viene severamente apostrofato da Francesco Pisani con queste parole: "Tolé su el corno e andé a Zara", esortandolo così a non abdicare, ma a rifugiarsi col governo in Dalmazia, terra fedelissima a Venezia.
Se a Venezia una parte della popolazione tumultua per qualche ora al grido di 'San Marco', in Dalmazia l'emozione per la caduta della Repubblica è vivissima: la disillusione, la rabbia e lo sconcerto per l'ineluttabilità della situazione si impadroniscono dei dalmati.
A Zara il gonfalone purpureo è portato in processione per l'ultima volta da tutta la popolazione, ma la cerimonia più commovente avviene a Perasto, che si gloriava di non esser mai stata presa dai turchi. Perasto, posta all'inizio della baia di Cattaro, aveva, per il suo valore, ottenuto il privilegio di fornire a Venezia i custodi del gonfalone e dimostra di saper concludere degnamente la sua unione con Venezia. La bandiera viene portata dalla popolazione, vestita a lutto e piangente, nella chiesa parrocchiale per essere posta sotto l'altare maggiore.
Prima di deporla il Conte Giuseppe Viscovich pronuncia queste celebri parole:
"Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon.
Per 377 anni la nostra fede, el nostro valor l'ha sempre custodio per terra e per mar, per tutto dove ne ha chiamà i so nemici, che xe sta pur quelli della Religion.
Per 377 anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite, le xe sempre stae per ti, o San Marco,
e felicissimi sempre se avemo reputà: ti con nu, nu con ti;
e sempre con ti sul mar nu semo stai illustri e virtuosi.
Nissun con ti n'ha visto scampar, nissun con ti n'ha visto vinti e paurosi".
Era il 23 agosto, ed erano gli ultimi vessilli veneti a venire deposti.
L'espressione 'Ti con nu, nu con ti' verrà ripresa nel 1919 da Gabriele D'Annunzio nella Lettera ai Dalmati ed era stata il motto della squadriglia aerea di San Marco da lui comandata.
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sabato 31 luglio 2010
Ruggine a Venezia
Quando niente viene a turbare il mare nei canali, l'acqua comincia a riacquistare le sue sfumature, spesso denaturate. I veri colori subentrano con lo specchiarsi del cielo e del sole, con i riflessi dei profili della città sulla superficie che scintilla - li avevo conosciuti nei quadri dei pittori prima di vederli nella realtà, non so dove siano più veri.
Un sottile strato di vegetazione compare sui muri e sulle scale e poi scompare; verde che di sopra sembra muschio e più in basso, nell'acqua, diventa alga.
Alcune sono di un verde cupo - ho visto questo colore anche sul piviale di un santo in una chiesa di Castello e in una minuscola cappella di Cannaregio.
L'umidità penetra tutto: il muro e la pietra, il legno, il ferro e anche l'anima. Osservo una trave fradicia, gonfia, zuppa d'acqua: la stessa acqua impedisce ad altra acqua di entrarci dentro. Quando ci appoggi la mano, non sai se tocchi il legno o il liquido.
Le assi marciscono, come i tronchi incastrati nelle fondamenta o la bitta d'ormeggio sul molo.
La pietra imputridisce a sua volta, a modo suo. L'umidità stessa invecchia nella pietra, nel legno, nel mattone...
Che dire della sua vecchiaia?
Il ferro è roso dalla ruggine, qui profonda, lì superficiale, di diversi colori: nera, rossa, dorata. Ruggine fulva.
Si possono trovare tutte queste sfumature nei quadri di Tintoretto o dell'ultimo Tiziano.
Il legame tra ruggine e patina sarà decifrato meglio da chi scruta gli antichi portali di metallo, le grate e le griglie, le piastre sulle vere da pozzo, i parapetti, le serrature con le loro chiavi.
Di fatto non riesco a spiegarmi perché alcuni oggetti di ferro invecchiando si rivestano subito di patina, mentre alti, vicini, arrugginiscono di dentro e di fuori.
A Venezia la ruggine è sfarzosa. La patina somiglia ad una doratura.
Un sottile strato di vegetazione compare sui muri e sulle scale e poi scompare; verde che di sopra sembra muschio e più in basso, nell'acqua, diventa alga.
Alcune sono di un verde cupo - ho visto questo colore anche sul piviale di un santo in una chiesa di Castello e in una minuscola cappella di Cannaregio.
L'umidità penetra tutto: il muro e la pietra, il legno, il ferro e anche l'anima. Osservo una trave fradicia, gonfia, zuppa d'acqua: la stessa acqua impedisce ad altra acqua di entrarci dentro. Quando ci appoggi la mano, non sai se tocchi il legno o il liquido.
Le assi marciscono, come i tronchi incastrati nelle fondamenta o la bitta d'ormeggio sul molo.
La pietra imputridisce a sua volta, a modo suo. L'umidità stessa invecchia nella pietra, nel legno, nel mattone...
Che dire della sua vecchiaia?
Il ferro è roso dalla ruggine, qui profonda, lì superficiale, di diversi colori: nera, rossa, dorata. Ruggine fulva.
Si possono trovare tutte queste sfumature nei quadri di Tintoretto o dell'ultimo Tiziano.
Il legame tra ruggine e patina sarà decifrato meglio da chi scruta gli antichi portali di metallo, le grate e le griglie, le piastre sulle vere da pozzo, i parapetti, le serrature con le loro chiavi.
Di fatto non riesco a spiegarmi perché alcuni oggetti di ferro invecchiando si rivestano subito di patina, mentre alti, vicini, arrugginiscono di dentro e di fuori.
A Venezia la ruggine è sfarzosa. La patina somiglia ad una doratura.
giovedì 29 luglio 2010
Gaspara Stampa
Gaspara Stampa, la voce piu' autentica e spontanea della poesia italiana del seidicesimo secolo, nacque a Padova nel 1523 da una colta ma modesta famiglia di commercianti. Nel 1531, alla morte del padre Bartolomeo, si trasferì a Venezia con la madre, il fratello Baldassare e la sorella Cassandra. A Venezia tutti e tre ebbero una buona educazione letteraria e artistica, in particolare le due sorelle divennero presto ammirate cantanti e suonatrici di liuto. La casa Stampa divenne un salotto letterario tra i più frequentati dai maggiori musicisti, pittori e letterati di Venezia.
Gaspara, ammirata come cantante oltre che per la sua bellezza, ebbe molti corteggiatori. Alcuni elementi inducono a pensare che fosse una cortigiana, una di quelle cortigiane colte ed eleganti, d'alto rango, di cui specialmente Venezia nel '500 era piena, e che viveva in un ambiente raffinato composto di nobili e artisti che avevano il culto della poesia, della musica e delle arti in genere. Qualunque sia la sua biografia, di cortigiana oppure no, Gaspara dovette essere una donna che con prontezza d'ingegno e vivacità, riuscì a vivere in una certa libertà di affetti e di costumi, svincolata da rigidità morale, e ciò nulla toglie alla considerazione dei suoi versi, spesso severamente giudicati.
A 25 anni si innamorò follemente di Collatino di Collalto al quale dedicò versi e rime sublimi, che le hanno donato un posto d'onore nella letteratura. Il suo legame con il conte fu tempestoso e doloroso. Da parte sua sua fu un amore sincero, con sentimento quasi disperato. Il conte, invece, ricambiò solo a tratti la passione di Gaspara, l'amò più per vanità che per trasporto. Collatino si allontanava spesso e Gaspara soffriva immensamente della lontananza. La loro relazione si interruppe definitivamente nel 1551.
Fu un colpo duro per Gaspara che ne risentì anche nel fisico e a nulla valsero le attenzioni del nobile veneziano Bartolomeo Zen. Si pensa che Gaspara abbia soggiornato a Firenze, di certo morì suicida a Venezia nel 1554, a soli 31 anni.
Poco dopo la sua morte la sorella Cassandra pubblicò le oltre 300 composizioni del suo Canzoniere, una forma di diario intimo dove si alternano gioie ed angosce. E' una delle testimonianze letterarie più delicate della sensibilità femminile dell'epoca.
Gaspara, ammirata come cantante oltre che per la sua bellezza, ebbe molti corteggiatori. Alcuni elementi inducono a pensare che fosse una cortigiana, una di quelle cortigiane colte ed eleganti, d'alto rango, di cui specialmente Venezia nel '500 era piena, e che viveva in un ambiente raffinato composto di nobili e artisti che avevano il culto della poesia, della musica e delle arti in genere. Qualunque sia la sua biografia, di cortigiana oppure no, Gaspara dovette essere una donna che con prontezza d'ingegno e vivacità, riuscì a vivere in una certa libertà di affetti e di costumi, svincolata da rigidità morale, e ciò nulla toglie alla considerazione dei suoi versi, spesso severamente giudicati.
A 25 anni si innamorò follemente di Collatino di Collalto al quale dedicò versi e rime sublimi, che le hanno donato un posto d'onore nella letteratura. Il suo legame con il conte fu tempestoso e doloroso. Da parte sua sua fu un amore sincero, con sentimento quasi disperato. Il conte, invece, ricambiò solo a tratti la passione di Gaspara, l'amò più per vanità che per trasporto. Collatino si allontanava spesso e Gaspara soffriva immensamente della lontananza. La loro relazione si interruppe definitivamente nel 1551.
Fu un colpo duro per Gaspara che ne risentì anche nel fisico e a nulla valsero le attenzioni del nobile veneziano Bartolomeo Zen. Si pensa che Gaspara abbia soggiornato a Firenze, di certo morì suicida a Venezia nel 1554, a soli 31 anni.
Poco dopo la sua morte la sorella Cassandra pubblicò le oltre 300 composizioni del suo Canzoniere, una forma di diario intimo dove si alternano gioie ed angosce. E' una delle testimonianze letterarie più delicate della sensibilità femminile dell'epoca.
martedì 27 luglio 2010
Il Conte Amedeo VI di Savoia e Venezia
Fra il 1366 e il 1367 Amurat I, Sultano dei Turchi, aveva fatto di Andrinopoli capitale del suo impero, che, poco distante da Costantinopoli, capitale dell'impero greco, ne andava a minacciare la sopravvivenza stessa.
L'imperatore Giovanni Paleologo, sentendo il pericolo prossimo, sollecitava soccorsi dall'Europa, ed il Papa Urbano V, fortemente desideroso di riconciliare la chiesa Greca con quella Latina, spinse le potenze d'Europa ad armarsi per la gran causa della religione e della civiltà.
I soli ad inscriversi per quella crociata furono Giovanni II re di Francia, Pietro di Lusignano re di Cipro ed Amedeo VI di Savoia, detto “Il Conte Verde”.
Ma entro breve sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe sconvolto la messa in opera della crociata stessa…
Il re francese morì, il re di Cipro che aveva preso Alessandria d'Egitto, ne è respinto dai Turchi, e “il Conte Verde”, cugino dell’Imperatore stesso, resosi conto delle condizioni agonizzanti dell’Impero e - soprattutto – dalla corruzione e decadenza della società bizantina stessa, così diversa dalla schiettezza a volte anche un po’ rude, ma onesta e sincera, dei savoiani e piemontesi, e, nonostante si trovasse solo nel rischio, non esita a prepararsi e ad invitare i suoi parenti ed alleati a condividere con lui le guerriere fatiche e la gloria.
A sue spese noleggiò galee Veneziane per il trasporto del suo esercito di cavalieri e fanti.
Le milizie lombarde presenti erano guidate da Cesare Visconti (nipote del “Conte Verde”), mentre le galee veneziane erano comandate da Federico Corner.
Il risultato fu veramente degno di un’abile condottiero alla guida di un’esercito ben organizzato ed addestrato:
riprendono Gallipoli con un eroico assalto (estate del 1366), liberano i Dardanelli dai Turchi, riconquistano il tratto di costa europea del Mar Nero strappando varie città ai Bulgari (fra cui Sozopoli, Anchialo, Mesembria e Varna) e riconsegnandole all’Impero.
Finalmente, il 23 gennaio del 1367, la spedizione termina con la liberazione dell’Imperatore Giovanni Paleologo che era stato fatto prigioniero dallo Zar dei Bulgari, Giovanni Shishman.
Il ritorno in patria è trionfale: grandi accoglienze vengono riservate in tutte le città veneziane toccate (da Corone a Durazzo, a Zara), nella stessa Venezia, a Milano e a Pavia.
Nel 1350 fonda l'Ordine del Cigno Nero (in occasione delle nozze della sorella Bianca con Galeazzo II Visconti), e la Compagnia del Collare,a capo della quale partecipa a molti tornei: il gruppo era formato da 15 cavalieri, che oltre all'abito verde portavano un collare d'argento dorato con il motto “FERT” (Fortitudo Eius Rhodum Tenuit ) chiuso da un anello con tre lacci d'amore a doppio intreccio, dono del Conte e prezioso segno di riconoscimento.
La compagnia del Collare divenne in seguito Ordine Cavalleresco, e fu dotato successivamente dallo stesso fondatore di carattere religioso-militare.
La Compagnia diverrà nel 1518 successivamente l’Ordine dell'Annunziata con Carlo II, che portò il numero dei cavalieri da 15 a 20 e ne modificò il collare, che risultò composto da lacci d'amore intrecciati con il motto "FERT" ma con l’aggiunta di 15 rose bianche e vermiglie, alternate, in onore della Vergine, e un medaglione con raffigurata l'Annunciazione.
In seguito diverrà la suprema ricompensa concessa per alti servigi resi allo Stato: gl'insigniti dell'Ordine erano considerati “cugini” del re.
Il “Conte Verde” muore di peste a Santo Stefano presso Castropignano (Campobasso) il 1° Marzo 1383, durante una spedizione dov’è accorso con 1000 lance per sostenere i diritti di Luigi D’Angiò, sul Regno di Napoli.
Fu sepolto a Hautecombe, in Savoia.
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domenica 25 luglio 2010
Baccalà in turbante
Tracce della presenza di una prima comunità giudaica a Venezia risalgono al 1396, quando la Serenissima dispone loro un terreno confinante col convento di San Nicolò al Lido per seppellire i loro morti.
“Gli ebrei sono più necessari dei panificatori” dice lo storiografo Marin Sanudo, che nel 1519 parla di circa 700 persone tra uomini e donne. La Repubblica infatti li accoglie anche per la loro utilità, visto che l’usura è proibita ai cristiani.
A dispetto della marginalità spaziale, Venezia privilegia ed è a sua volta privilegiata dalla diaspora ebraica.
Gli stranieri che durante il loro Grand Tour fanno tappa nella città lagunare vengono immancabilmente catturati dal ghetto, luogo di studio e di cultura cosmopolita. Un’andata (con biglietto di ritorno) verso al cultura ebraica è rappresentata dall’arte culinaria: un seducente viaggio attraverso la gola, pericoloso ma momentaneo, una sorta di traghetto dalla chiesa alla sinagoga che ogni cristiano può intraprendere varcando semplicemente il cancello del ghetto.
La cucina del ghetto veneziano è una fusione di elementi arabi, importati dei sefarditi attraverso la Spagna, e di piatti di origine tedesca arrivati con gli ashkenaziti. Ai primi si devono fantasiosi piatti di uova rosti nella brase, conciati con acqua di rose, zucchero e cannella, il bollo confettato, chiamato boyos de pan, buccellato o bussolà, un pane allungato o una treccia composta di farina, zucchero, uova, uva passa, anicini e olio d’oliva. Ai secondi si è debitori di una vasta gamma di piatti che vanno del gefilte fish o ‘pesce dolce alla todesca’, al kelbere krous, budella di vitello ripiene di grasso e farina, al mandel reis, un delicato riso alle mandorle.
Non mancano, malgrado le restrizioni, le carni: “Ciò che Dio proibisce, Dio permette in altre forme”, e l’oca diventa per l’ebreo l’equivalente del maiale per il cristiano. Nel trattare le sue carni i beccai hebrei si dimostrano insuperabili. Il suo grasso diventa valido sostituto dello strutto e anche del più costoso olio d’oliva, ma soprattutto vi si ricavano, salsicce, luganeghe, prosciutti, salami, insomma vere prelibatezze definite con termini volutamente ammiccanti ed equivoci, che viaggiano nella stessa direzione del maiale negato, con il quale l’oca condivide il calendario della vita e della morte.
Inevitabili anche le contaminazioni con la cucina veneta e se è impossibile non rilevare l’intreccio intrigante tra ‘galani’ e ‘orecchie di Amman’, meno problematico è l’accostamento di spinaci e baccalà (alias stoccafisso), giudaici i primi, fortemente veneziano il secondo (per essere arrivato dalle Isole Lofoten con capitano Pietro Quercini): è il Baccalà in turbante.
Ecco la ricetta.
Si porta lo stoccafisso a bollore, lasciandolo riposare per alcuni minuti; si dilisca, si trita a pezzettini e si mescola con tre cucchiai di farina. Si rosola nel burro, aggiungendo latte fino ad avere una crema densa. Si incorporano gli spinaci lessati. Si lega il composto con le uova, sale e un pizzico di noce moscata. Si mette il tutto in uno stampo rotondo col buco in mezzo e si cuoce in forno a bagnomaria. L’effetto del turbante è assicurato.
“Gli ebrei sono più necessari dei panificatori” dice lo storiografo Marin Sanudo, che nel 1519 parla di circa 700 persone tra uomini e donne. La Repubblica infatti li accoglie anche per la loro utilità, visto che l’usura è proibita ai cristiani.
A dispetto della marginalità spaziale, Venezia privilegia ed è a sua volta privilegiata dalla diaspora ebraica.
Gli stranieri che durante il loro Grand Tour fanno tappa nella città lagunare vengono immancabilmente catturati dal ghetto, luogo di studio e di cultura cosmopolita. Un’andata (con biglietto di ritorno) verso al cultura ebraica è rappresentata dall’arte culinaria: un seducente viaggio attraverso la gola, pericoloso ma momentaneo, una sorta di traghetto dalla chiesa alla sinagoga che ogni cristiano può intraprendere varcando semplicemente il cancello del ghetto.
La cucina del ghetto veneziano è una fusione di elementi arabi, importati dei sefarditi attraverso la Spagna, e di piatti di origine tedesca arrivati con gli ashkenaziti. Ai primi si devono fantasiosi piatti di uova rosti nella brase, conciati con acqua di rose, zucchero e cannella, il bollo confettato, chiamato boyos de pan, buccellato o bussolà, un pane allungato o una treccia composta di farina, zucchero, uova, uva passa, anicini e olio d’oliva. Ai secondi si è debitori di una vasta gamma di piatti che vanno del gefilte fish o ‘pesce dolce alla todesca’, al kelbere krous, budella di vitello ripiene di grasso e farina, al mandel reis, un delicato riso alle mandorle.
Non mancano, malgrado le restrizioni, le carni: “Ciò che Dio proibisce, Dio permette in altre forme”, e l’oca diventa per l’ebreo l’equivalente del maiale per il cristiano. Nel trattare le sue carni i beccai hebrei si dimostrano insuperabili. Il suo grasso diventa valido sostituto dello strutto e anche del più costoso olio d’oliva, ma soprattutto vi si ricavano, salsicce, luganeghe, prosciutti, salami, insomma vere prelibatezze definite con termini volutamente ammiccanti ed equivoci, che viaggiano nella stessa direzione del maiale negato, con il quale l’oca condivide il calendario della vita e della morte.
Inevitabili anche le contaminazioni con la cucina veneta e se è impossibile non rilevare l’intreccio intrigante tra ‘galani’ e ‘orecchie di Amman’, meno problematico è l’accostamento di spinaci e baccalà (alias stoccafisso), giudaici i primi, fortemente veneziano il secondo (per essere arrivato dalle Isole Lofoten con capitano Pietro Quercini): è il Baccalà in turbante.
Ecco la ricetta.
Si porta lo stoccafisso a bollore, lasciandolo riposare per alcuni minuti; si dilisca, si trita a pezzettini e si mescola con tre cucchiai di farina. Si rosola nel burro, aggiungendo latte fino ad avere una crema densa. Si incorporano gli spinaci lessati. Si lega il composto con le uova, sale e un pizzico di noce moscata. Si mette il tutto in uno stampo rotondo col buco in mezzo e si cuoce in forno a bagnomaria. L’effetto del turbante è assicurato.
venerdì 23 luglio 2010
Tobia Ravà in mostra a Venezia
Si inaugura domani, 24 luglio 2010, “Vele d’infinito”, la personale di Tobia Ravà organizzata dalla Venezia Terminal Passeggeri, società che dal 1997 gestisce il traffico passeggeri nel Porto di Venezia.
Dodici tele ed una scultura, che hanno come filo conduttore il viaggio ed il mar Mediterraneo. I lavori saranno in esposizione all’interno del Terminal 107, primo piano, fino al 15 ottobre 2010.
Ravà, artista veneziano laureatosi in semiologia delle arti a Bologna, dove è stato allievo tra gli altri di Umberto Eco, fin dagli anni ’70 ha partecipato a mostre personali e collettive in Italia, Belgio, Croazia, Francia, Germania, Spagna, Brasile, Argentina, Giappone e Stati Uniti.
Tra i fondatori dei collettivi AlcArte e Concetto d’Arte Contemporanea, dal 1988 si occupa di iconografia ebraica svolgendo un lavoro di ricerca e schedatura nell’ambito dell’epigrafia ebraica nel Triveneto.
Il suo nome è di recente salito agli onori della cronaca in occasione della visita alla Sinagoga di Roma da parte di Benedetto XVI, in quanto il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma ha scelto una sua opera, La direzione spirituale, quale dono al Pontefice.
Nella mostra alla stazione passeggeri, attraverso dodici grandi vele realizzate in raso, Tobia Ravà, rende omaggio alla cultura ebraica europea ed italiana in particolare, utilizzandone la lingua, soprattutto nella sua specificità iconografica, come elemento strutturale e cognitivo per disegnare paesaggi legati al Mediterraneo e all’entroterra veneto dal grande valore simbolico. Elementi chiave per la sua opera, la kabbalah e la ghematria che lega ogni lettera ad un numero ed unisce parole dello stesso valore numerico tra loro.
Cifra stilistica che ritorna nell’unica scultura in mostra, il Leviatano Infinito che prende l’immagine di uno squalo tigre in scala 1:1. Ogni elemento del pesce è costruito con una logica cabalistica diversificata: la coda è formata dai valori numerici e dai concetti relativi ai diversi livelli dell’anima umana; le branchie dai quadrati magici, mentre il resto del corpo sviluppato da equazioni relative ai valori numerici dei concetti principali della mistica ebraica.
“Il mio lavoro ha uno sviluppo intimamente legato alla lingua ebraica antica, - sottolinea Tobia Ravà - , ha un debito profondo con un idioma che era quella dei mercanti del Medioevo e del Rinascimento. Uomini che viaggiavano soprattutto per mare. La scelta di questa sede espositiva, la Stazione Marittima di Venezia, città in simbiosi da sempre con l’elemento acquatico, non può che rafforzarne la capacità evocativa”.
Entusiasta della mostra, l’amministratore delegato della Venezia Terminal Passeggeri, Roberto Perocchio: “ Il Terminal Crociere è ormai una vetrina qualificata per far conoscere ad un pubblico internazionale l’arte e le bellezze della nostra città. Quasi un milione e 600 mila crocieristi potranno, già dal momento dello sbarco, familiarizzare con uno degli artisti veneziani più rappresentativi di oggi, Tobia Ravà, la cui personale si inserisce nell’ambito di “Summer of Arts – The Art exhibition of the cruising season”. Rassegna espositiva promossa da VTP che, attraverso un ciclo di mostre, ogni anno accende i riflettori sui protagonisti dell’arte contemporanea”.
Dodici tele ed una scultura, che hanno come filo conduttore il viaggio ed il mar Mediterraneo. I lavori saranno in esposizione all’interno del Terminal 107, primo piano, fino al 15 ottobre 2010.
Ravà, artista veneziano laureatosi in semiologia delle arti a Bologna, dove è stato allievo tra gli altri di Umberto Eco, fin dagli anni ’70 ha partecipato a mostre personali e collettive in Italia, Belgio, Croazia, Francia, Germania, Spagna, Brasile, Argentina, Giappone e Stati Uniti.
Tra i fondatori dei collettivi AlcArte e Concetto d’Arte Contemporanea, dal 1988 si occupa di iconografia ebraica svolgendo un lavoro di ricerca e schedatura nell’ambito dell’epigrafia ebraica nel Triveneto.
Il suo nome è di recente salito agli onori della cronaca in occasione della visita alla Sinagoga di Roma da parte di Benedetto XVI, in quanto il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma ha scelto una sua opera, La direzione spirituale, quale dono al Pontefice.
Nella mostra alla stazione passeggeri, attraverso dodici grandi vele realizzate in raso, Tobia Ravà, rende omaggio alla cultura ebraica europea ed italiana in particolare, utilizzandone la lingua, soprattutto nella sua specificità iconografica, come elemento strutturale e cognitivo per disegnare paesaggi legati al Mediterraneo e all’entroterra veneto dal grande valore simbolico. Elementi chiave per la sua opera, la kabbalah e la ghematria che lega ogni lettera ad un numero ed unisce parole dello stesso valore numerico tra loro.
Cifra stilistica che ritorna nell’unica scultura in mostra, il Leviatano Infinito che prende l’immagine di uno squalo tigre in scala 1:1. Ogni elemento del pesce è costruito con una logica cabalistica diversificata: la coda è formata dai valori numerici e dai concetti relativi ai diversi livelli dell’anima umana; le branchie dai quadrati magici, mentre il resto del corpo sviluppato da equazioni relative ai valori numerici dei concetti principali della mistica ebraica.
“Il mio lavoro ha uno sviluppo intimamente legato alla lingua ebraica antica, - sottolinea Tobia Ravà - , ha un debito profondo con un idioma che era quella dei mercanti del Medioevo e del Rinascimento. Uomini che viaggiavano soprattutto per mare. La scelta di questa sede espositiva, la Stazione Marittima di Venezia, città in simbiosi da sempre con l’elemento acquatico, non può che rafforzarne la capacità evocativa”.
Entusiasta della mostra, l’amministratore delegato della Venezia Terminal Passeggeri, Roberto Perocchio: “ Il Terminal Crociere è ormai una vetrina qualificata per far conoscere ad un pubblico internazionale l’arte e le bellezze della nostra città. Quasi un milione e 600 mila crocieristi potranno, già dal momento dello sbarco, familiarizzare con uno degli artisti veneziani più rappresentativi di oggi, Tobia Ravà, la cui personale si inserisce nell’ambito di “Summer of Arts – The Art exhibition of the cruising season”. Rassegna espositiva promossa da VTP che, attraverso un ciclo di mostre, ogni anno accende i riflettori sui protagonisti dell’arte contemporanea”.
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martedì 20 luglio 2010
Una veneziana sul trono di Costantinopoli
Nel 1559 un certo Hasan, che si dice inviato del principe turco Selim II, arriva a Venezia con l'incarico di raccogliere notizie sul casato della moglie del suo signore.
La storia è curiosa. Una patrizia veneziana, Cecilia, rapita da Barbarossa a Paros nel 1537, è finita nel serraglio del sultano dei turchi. E' figlia di Nicolò Venier, che governa l'isola per conto della Serenissima, e di Violante Baffo.
Fatta schiava, la giovane viene condotta a Costantinopoli, impara il turco, diventa musulmana e prende il nome di Nur Banu, "Signora Luce".
Il suo splendore tramortisce Selim, Principe Ottomano, un uomo non facile e a quanto pare non proprio gradevole, smodato nel bere e tanto grasso da non poter stare neanche a cavallo.
Nur s'impone con intelligenza e nel 1546 l'unione viene cementata dalla nascita di Murat.
La personalità di Nur si delinea nitidamente con gli anni, per esprimersi a pieno durante il regno del figlio, il piccolo e tozzo Murat, non spiacente nel volto, ma debole di carattere e non incline agli affari di Stato. E' allora che la potente sultana comincia ad intervenire nella condizione dell'impero: propone ministri e gran visir, si mantiene in contatto con i governi europei (in particolare con Venezia), e corrisponde con altre signore dell'epoca, come Caterina de' Medici, reggente del regno di Francia.
Nur Banu personifica l'essenza della cultura ottomana, e se in privato coltiva abitudini e convinzioni d'altro genere non lo sapremo mai. Visita i santi musulmani, fa devozione, promuove la costruzione di opere pie, finanza fondazioni religiose.
Muore il 7 dicembre del 1538, dopo una breve ma devastante malattia, circondata dal sospetto di avvelenamento.
Secondo il suo volere viene seppellita nel complesso della Basilica di Santa Sofia, in un piccolo mausoleo decorato con splendide ceramiche di Iznik.
Un estremo desiderio, forse espresso per riannodare il filo spezzato della sua origine cristiana ed europea
.
La storia è curiosa. Una patrizia veneziana, Cecilia, rapita da Barbarossa a Paros nel 1537, è finita nel serraglio del sultano dei turchi. E' figlia di Nicolò Venier, che governa l'isola per conto della Serenissima, e di Violante Baffo.
Fatta schiava, la giovane viene condotta a Costantinopoli, impara il turco, diventa musulmana e prende il nome di Nur Banu, "Signora Luce".
Il suo splendore tramortisce Selim, Principe Ottomano, un uomo non facile e a quanto pare non proprio gradevole, smodato nel bere e tanto grasso da non poter stare neanche a cavallo.
Nur s'impone con intelligenza e nel 1546 l'unione viene cementata dalla nascita di Murat.
La personalità di Nur si delinea nitidamente con gli anni, per esprimersi a pieno durante il regno del figlio, il piccolo e tozzo Murat, non spiacente nel volto, ma debole di carattere e non incline agli affari di Stato. E' allora che la potente sultana comincia ad intervenire nella condizione dell'impero: propone ministri e gran visir, si mantiene in contatto con i governi europei (in particolare con Venezia), e corrisponde con altre signore dell'epoca, come Caterina de' Medici, reggente del regno di Francia.
Nur Banu personifica l'essenza della cultura ottomana, e se in privato coltiva abitudini e convinzioni d'altro genere non lo sapremo mai. Visita i santi musulmani, fa devozione, promuove la costruzione di opere pie, finanza fondazioni religiose.
Muore il 7 dicembre del 1538, dopo una breve ma devastante malattia, circondata dal sospetto di avvelenamento.
Secondo il suo volere viene seppellita nel complesso della Basilica di Santa Sofia, in un piccolo mausoleo decorato con splendide ceramiche di Iznik.
Un estremo desiderio, forse espresso per riannodare il filo spezzato della sua origine cristiana ed europea
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giovedì 15 luglio 2010
Voga alla veneziana
Nel mio precedente post ho citato una breve poesia del Busanelli che conclude con questo verso: "Se va gridando sempre o stali o premi", che, per chi non è pratico di voga veneta, risulta incomprensibile.
Vengo allora a spiegare.
A Venezia c'è una particolare tecnica, un modo specifico di vogare, specialmente, ma non solo, in gondola, così che il vogatore ha l'aria di assecondare il movimento anziché produrlo, ma la cosa non è così facile come sembra, giacché il rematore deve combinare due operazioni, una per imprimere la spinta alla barca, l'altra per mantere la rotta, appunto perché essendo prive di timone, è sempre il remo che assolve entrambi i compiti.
Del resto la terminologia rematoria veneziana si riassume nella coniugazione di tre verbi: premare, stagare e sciare. La vogata premando è quella basilare: tuffata la pala del remo obliquamente, subito bisogna spingere sul remo che è appoggiato alla forcola, in modo da eccitare la resistenza del mezzo. Ma allora onde evitare che la barca finisca per girare su se stessa, il rematore deve leggermente ruotare il remo sulla forcola in modo che la pala, costretta sott'acqua, compia un movimento inverso al primo, così la contromanovra neutralizza le conseguenze della spinta quel tanto che basta a rettificare la direzione del natante, che fila dritto.
Il secondo tempo della vogata è quasi un riposo del remo, d'onde la voce stagare che significa stare o sostare. E di qui gli strani avvertimenti che i vogatori si lanciano alle svolte dei canali: premi o stai, che devono interpretarsi come un suggerimento di manovra al vogatore che viene incontro.
Ma se occorre arrestare la barca all'improvviso, come si fa? Sciando, cioè ponendo il remo davanti alla forcola, la quale servirà come leva per sviluppare una forza contraria.
Anche la direzione della marea è un elemento di cui tener conto: la barca che va a seconda, cioè segue la marea, è in condizione privilegiata rispetto all'imbarcazione che va a contraria, cioè che rimonta la marea, e di qui la facoltà a questa di disporre di più ampia manovra.
... "Se va gridando sempre o stali o premi"
Vengo allora a spiegare.
A Venezia c'è una particolare tecnica, un modo specifico di vogare, specialmente, ma non solo, in gondola, così che il vogatore ha l'aria di assecondare il movimento anziché produrlo, ma la cosa non è così facile come sembra, giacché il rematore deve combinare due operazioni, una per imprimere la spinta alla barca, l'altra per mantere la rotta, appunto perché essendo prive di timone, è sempre il remo che assolve entrambi i compiti.
Del resto la terminologia rematoria veneziana si riassume nella coniugazione di tre verbi: premare, stagare e sciare. La vogata premando è quella basilare: tuffata la pala del remo obliquamente, subito bisogna spingere sul remo che è appoggiato alla forcola, in modo da eccitare la resistenza del mezzo. Ma allora onde evitare che la barca finisca per girare su se stessa, il rematore deve leggermente ruotare il remo sulla forcola in modo che la pala, costretta sott'acqua, compia un movimento inverso al primo, così la contromanovra neutralizza le conseguenze della spinta quel tanto che basta a rettificare la direzione del natante, che fila dritto.
Il secondo tempo della vogata è quasi un riposo del remo, d'onde la voce stagare che significa stare o sostare. E di qui gli strani avvertimenti che i vogatori si lanciano alle svolte dei canali: premi o stai, che devono interpretarsi come un suggerimento di manovra al vogatore che viene incontro.
Ma se occorre arrestare la barca all'improvviso, come si fa? Sciando, cioè ponendo il remo davanti alla forcola, la quale servirà come leva per sviluppare una forza contraria.
Anche la direzione della marea è un elemento di cui tener conto: la barca che va a seconda, cioè segue la marea, è in condizione privilegiata rispetto all'imbarcazione che va a contraria, cioè che rimonta la marea, e di qui la facoltà a questa di disporre di più ampia manovra.
... "Se va gridando sempre o stali o premi"
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