Se prendiamo alla lettera le lamentele dei passeggeri delle navi veneziane, ci facciamo l'idea che le cose commestibili a bordo fossero ben poche, in realtà non si mangia così male, ma tutto dipende, come si direbbe oggi, dal "pacchetto" che si sceglie!
I pellegrini che nel Medioevo vanno in Terrasanta, se sono poveri, provvedono al vitto per proprio conto, gli altri si accordano con la formula "all inclusive", che comprende anche i pasti a bordo. I più ricchi mangiano alla tavola del capitano, di solito ben rifornita.
Il nobiluomo veneziano Alessandro Magno, imbarcatosi nel 1557 alla volta di Cipro, parla di tre tavole: tra la prima (quella del capitano) e la seconda (frequentata dall'equipaggio specializzato), non c'è molta differenza, si mangia egualmente bene, Nella terza tavola la qualità scende e, ad esempio, il vino è allungato con l'acqua, anche perché è difficile conservarlo a bordo. Il rituale delle tre tavole che rompe la monotonia del mare e offre occasioni di contatti sociali, colpisce il francese Carlier de Pinon, che ci lascia una descrizione vivissima del suo viaggio verso Levante su una nave Veneziana. Ma qual è la lista delle vivande descritta da Carlier de Pinon? Formaggi, carni e pesci salati, olio, vino e acqua di base, ma poi nei porti le navi si riforniscono anche di frutta, uova e verdure. E' diffusa comunque l'abitudine di tenere a bordo animali vivi: pollame, pecore e vitelli che vengono macellati all'occorrenza.
Anche se l'alimentazione da mar, risponde innanzitutto all'esigenza di consumare derrate a lunga conservazione, è innegabile che ci sia anche una certa attenzione verso la salubrità dei cibi. Prevenire disturbi fisici legati al consumo dei cibi è considerato fondamentale soprattutto per gli uomini dell'equipaggio che devono mantenersi in forze per condurre la nave a destinazione. Una malattia piuttosto diffusa è lo scorbuto e per combatterla sulle navi veneziane si consumano rametti carnosi e gonfi di succo salato di una pianta spontanea della laguna veneta: la salicornia. Ad alto contenuto di acido ascorbico, si può mangiare fresca in insalata, o bollita come i fagiolini, ma sottaceto è una vera prelibatezza.
L'altra derrata marittima di cui i veneziani vanno fieri è il panbiscotto, una galletta di alta qualità e lunga durata, confezionata con farina di grano e burro, ma di cui la ricetta completa era ed è tutt'oggi segreta. Durante degli scavi eseguiti sull'isola di Creta, a metà Ottocento, vennero ritrovate delle scorte di panbiscotto risalenti alla guerra con i Turchi nel Seicento, ed erano ancora commestibili!
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(Fonte: C.Coco)
mercoledì 1 dicembre 2010
venerdì 26 novembre 2010
Il pranzo di Enrico III
Niente è lasciato al caso durante la visita del sovrano Enrico III re di Francia, nel 1574, all'Arsenale di Venezia: l'entrata attraverso il portale trionfale, l'ispezione ai reparti tecnici, le prodezze di uno sforzo organizzativo che consente di armare in un sol giorno - sotto lo sguardo sbalordito del sovrano - una galera di tutto punto. E per finire, la sosta nelle tre sale d'armi prospicienti il bacino dell'Arsenale Nuovo, una delle quali destinata al banchetto in onore del re di Francia.
Nella rustica cornice di legnami e ferramenta le sorprese devono però ancora iniziare. Accomodatosi col suo seguito per consumare un pranzo che si immagina senza fronzoli, Enrico resta meravigliato quando "prendendo egli il tovagliolo in mano, questi si ruppe in due pezzi, di cui uno cadde a terra: infatti tovaglie, piatti, posate, tutto sulla tavola era di zucchero! così simili al vero da ingannare chicchessia", come raccontano de Nolhac e Solerti.
Per impressionare il raffinato re francese, la Serenissima ricorre ad un'arma micidiale, protagonista di una storia speciale nella quale Venezia ha una larga parte: lo zucchero. Questa polvere dolcissima è allora una vera rarità. Si vende in farmacia come medicamento contro lo scorbuto e le malattie degli occhi ed entra in cucina, mescolata alle spezie, essenzialmente per fare status symbol.
Originaria dell'India, la canna si è acclimatata nel Mediterraneo orientale, ma sono gli arabi ad inventare lo zucchero sviluppandone il metodo di raffinazione e diffondendolo in Sicilia e Spagna. Nel mondo cristiano Cipro detiene il monopolio della coltivazione della canna, e la Repubblica di Venezia quello della vendita in tutta Europa. Gli spezieri veneziani si specializzano nella raffinazione dello zucchero grezzo e diventano abilissimi nel confezionare una gran quantità di ghiottissimi prodotti: sciroppi, confetture, cannellini, pignocade, diavolini, persegade, violette candite, nonché l'"acqua celesta di gioventù", una sorta di elisir di lunga vita.
La "polvere di Cipro" - come allora si chiamava lo zucchero - è d'obbligo anche nei matrimoni che contano. E' usanza regalare alla sposa una scatola di dolci, nel mezzo della quale si trova il bambin de zucaro (una statuetta di zucchero raffigurante un bambino), che la donna deve conservare e guardare spesso per fare un figlio bello come la statuetta.
Da questa tradizione deriva l'espressione "ti xe beo come un bambin de zucaro", che capita ancor oggi di sentire.
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Nella rustica cornice di legnami e ferramenta le sorprese devono però ancora iniziare. Accomodatosi col suo seguito per consumare un pranzo che si immagina senza fronzoli, Enrico resta meravigliato quando "prendendo egli il tovagliolo in mano, questi si ruppe in due pezzi, di cui uno cadde a terra: infatti tovaglie, piatti, posate, tutto sulla tavola era di zucchero! così simili al vero da ingannare chicchessia", come raccontano de Nolhac e Solerti.
Per impressionare il raffinato re francese, la Serenissima ricorre ad un'arma micidiale, protagonista di una storia speciale nella quale Venezia ha una larga parte: lo zucchero. Questa polvere dolcissima è allora una vera rarità. Si vende in farmacia come medicamento contro lo scorbuto e le malattie degli occhi ed entra in cucina, mescolata alle spezie, essenzialmente per fare status symbol.
Originaria dell'India, la canna si è acclimatata nel Mediterraneo orientale, ma sono gli arabi ad inventare lo zucchero sviluppandone il metodo di raffinazione e diffondendolo in Sicilia e Spagna. Nel mondo cristiano Cipro detiene il monopolio della coltivazione della canna, e la Repubblica di Venezia quello della vendita in tutta Europa. Gli spezieri veneziani si specializzano nella raffinazione dello zucchero grezzo e diventano abilissimi nel confezionare una gran quantità di ghiottissimi prodotti: sciroppi, confetture, cannellini, pignocade, diavolini, persegade, violette candite, nonché l'"acqua celesta di gioventù", una sorta di elisir di lunga vita.
La "polvere di Cipro" - come allora si chiamava lo zucchero - è d'obbligo anche nei matrimoni che contano. E' usanza regalare alla sposa una scatola di dolci, nel mezzo della quale si trova il bambin de zucaro (una statuetta di zucchero raffigurante un bambino), che la donna deve conservare e guardare spesso per fare un figlio bello come la statuetta.
Da questa tradizione deriva l'espressione "ti xe beo come un bambin de zucaro", che capita ancor oggi di sentire.
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lunedì 22 novembre 2010
Prova di coraggio
Non era dell'umore adatto per partecipare ad una chiassosa festa di piazza il giovane patrizio Almorò Morosini, ma ugualmente decise di lasciare il palazzo di famiglia e dirigersi verso il Campo Santa Maria Formosa. "E' davvero una bella giornata" pensò tra sé "che sarebbe un peccato sprecarla ad oziare a palazzo. Andrò dunque a godermi lo spettacolo della caccia al toro".
La caccia al toro era tra le manifestazioni più seguite a Venezia, e diventava un vero e proprio spettacolo considerato da non perdere nel momento in cui, all'ora prefissata, uscivano nel campo fino a sei tori che portavano appesi alle corna dei fuochi artificiali allo scopo di rendere più scenografica la caccia e aumentare il nervosismo degli animali. Tra le grida degli astanti, venivano aizzati contro i tori dei cani che dovevano in un certo modo dimostrarne la forza. Nell'impari lotta, il cane cercava di azzannare l'orecchio del toro, ma non di rado accadeva che qualche bovino, scrollando la testa, scaraventasse in aria il piccolo avversario per poi infilzarlo con le corna tra gli applausi degli spettatori.
In mezzo alla folla festante, il Morosini osservava pacatamente lo svolgersi della caccia ormai prossima alle fasi conclusive e attendeva il momento finale in cui il più abile componente della confraternita dei beccai si cimentava nello staccare la testa al toro con un sol colpo di spada. Mentre era assorto nei suoi pensieri, improvvisamente dalla folla sbucarono quattro sgherri armati che gli aizzarono contro un feroce mastino. Colto di sorpresa il Morosini non perse però d'animo e sguainata prontamente la spada uccise con un abile colpo il cane inferocito. Poi, senza nessun timore, affrontò e mise in fuga anche i quattro sicari, che erano stati inviati da una famiglia rivale per sistemare antiche ruggini.
L'episodio aveva avuto un occasionale spettatore: il principe Eugenio di Savoia, che dalle finestre di Palazzo Priuli aveva assistito, in compagnia di altri nobili veneziani, alla caccia al toro. Colpito dal valore dimostrato dal Morosini, chiese immediatamente ai presenti: "Chi è costui? Conducetelo da me", "La persona di cui parlate, Eccellenza" spiegò un anziano senatore "altri non è che il patrizio Almorò Morosini, considerato tra gli eroi di questa Repubblica per aver dimostrato un grandissimo valore nella recente guerra contro i Turchi". "Ebbene" rispose il principe "se le cose stanno così, andrò io da lui!" e lasciato il balcone, scese rapidamente le scale portandosi sul campo.
Dopo essersi presentato e congratulato con l'intrepido patrizio veneziano, Eugenio di Savoia volle regalargli un quadro del Correggio rappresentante la Vergine. Dipinto che la famiglia Morosini, in ricordo del proprio avo, conservò poi nei secoli, raccontando con orgoglio l'episodio accaduto durante la caccia al toro a quanti si soffermavano ad ammirare il delicato dipinto alle pareti del salone nel grande palazzo di famiglia.
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(Fonte: D. Mazzetto)
La caccia al toro era tra le manifestazioni più seguite a Venezia, e diventava un vero e proprio spettacolo considerato da non perdere nel momento in cui, all'ora prefissata, uscivano nel campo fino a sei tori che portavano appesi alle corna dei fuochi artificiali allo scopo di rendere più scenografica la caccia e aumentare il nervosismo degli animali. Tra le grida degli astanti, venivano aizzati contro i tori dei cani che dovevano in un certo modo dimostrarne la forza. Nell'impari lotta, il cane cercava di azzannare l'orecchio del toro, ma non di rado accadeva che qualche bovino, scrollando la testa, scaraventasse in aria il piccolo avversario per poi infilzarlo con le corna tra gli applausi degli spettatori.
In mezzo alla folla festante, il Morosini osservava pacatamente lo svolgersi della caccia ormai prossima alle fasi conclusive e attendeva il momento finale in cui il più abile componente della confraternita dei beccai si cimentava nello staccare la testa al toro con un sol colpo di spada. Mentre era assorto nei suoi pensieri, improvvisamente dalla folla sbucarono quattro sgherri armati che gli aizzarono contro un feroce mastino. Colto di sorpresa il Morosini non perse però d'animo e sguainata prontamente la spada uccise con un abile colpo il cane inferocito. Poi, senza nessun timore, affrontò e mise in fuga anche i quattro sicari, che erano stati inviati da una famiglia rivale per sistemare antiche ruggini.
L'episodio aveva avuto un occasionale spettatore: il principe Eugenio di Savoia, che dalle finestre di Palazzo Priuli aveva assistito, in compagnia di altri nobili veneziani, alla caccia al toro. Colpito dal valore dimostrato dal Morosini, chiese immediatamente ai presenti: "Chi è costui? Conducetelo da me", "La persona di cui parlate, Eccellenza" spiegò un anziano senatore "altri non è che il patrizio Almorò Morosini, considerato tra gli eroi di questa Repubblica per aver dimostrato un grandissimo valore nella recente guerra contro i Turchi". "Ebbene" rispose il principe "se le cose stanno così, andrò io da lui!" e lasciato il balcone, scese rapidamente le scale portandosi sul campo.
Dopo essersi presentato e congratulato con l'intrepido patrizio veneziano, Eugenio di Savoia volle regalargli un quadro del Correggio rappresentante la Vergine. Dipinto che la famiglia Morosini, in ricordo del proprio avo, conservò poi nei secoli, raccontando con orgoglio l'episodio accaduto durante la caccia al toro a quanti si soffermavano ad ammirare il delicato dipinto alle pareti del salone nel grande palazzo di famiglia.
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(Fonte: D. Mazzetto)
martedì 16 novembre 2010
L'intimità del felze
Molto meno si sarebbe scritto sulla gondola se non fosse stata ricoperta da quella sovrastruttura barocca detta "felze"
Il felze era una struttura mobile creata per riparare i passeggeri delle gondole. Composta dapprima di un semplice drappo poggiato su un arcuato telaio in legno, nel Cinquecento la struttura si abbassa e assume la forma di un vero e proprio riparo. A partire dal Seicento, la struttura viene ricoperta con la "rascia", un tessuto di lana nera venduto in calle delle Rasse.
La struttura in legno di noce veniva realizzata negli squeri, mentre i tappezzieri eseguivano le finiture interne, spesso in raso e in costosa passamaneria. Le decorazioni esterne erano realizzate da esperti intagliatori, e riproducevano divinità marine, teste di grifoni, fiori stilizzati. L'interno veniva arredato con tappeti, bracieri speciali, specchi e persiane che consentivano un completo isolamento. Sulla porticina d'ingresso, sotto allo stemma della casa patrizia, era appeso il "feral de codega" che dava una tenue luce all'interno del felze.
"Barca xe casa" si dice a Venezia, e il felze creava l'intimità di un rifugio personale. Nobili e cortigiane trovavano in questo minuscolo salotto uno spazio dove trascorrere il tempo conversando, cenando o giocando a carte. Ma il felze diventava anche un'alcova galleggiante, un talamo largamente utilizzato, una forma di mascheramento che concedeva tresche e comportamenti licenziosi a veneziani e foresti.
Il felze contribuì a creare il mito di una Venezia libertina e misteriosa, della gondola come cigno nero che scivola silenziosa sull'acqua nascondendo intrighi, misfatti e amori.
I romantici di tutto il mondo hanno cantato l'atmosfera "sotto l'intimità del felze, col vivido quadro veneziano incorniciato dal finestrino mobile", come scrisse Henry James.
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(Fonte: C. Coco)
Il felze era una struttura mobile creata per riparare i passeggeri delle gondole. Composta dapprima di un semplice drappo poggiato su un arcuato telaio in legno, nel Cinquecento la struttura si abbassa e assume la forma di un vero e proprio riparo. A partire dal Seicento, la struttura viene ricoperta con la "rascia", un tessuto di lana nera venduto in calle delle Rasse.
La struttura in legno di noce veniva realizzata negli squeri, mentre i tappezzieri eseguivano le finiture interne, spesso in raso e in costosa passamaneria. Le decorazioni esterne erano realizzate da esperti intagliatori, e riproducevano divinità marine, teste di grifoni, fiori stilizzati. L'interno veniva arredato con tappeti, bracieri speciali, specchi e persiane che consentivano un completo isolamento. Sulla porticina d'ingresso, sotto allo stemma della casa patrizia, era appeso il "feral de codega" che dava una tenue luce all'interno del felze.
"Barca xe casa" si dice a Venezia, e il felze creava l'intimità di un rifugio personale. Nobili e cortigiane trovavano in questo minuscolo salotto uno spazio dove trascorrere il tempo conversando, cenando o giocando a carte. Ma il felze diventava anche un'alcova galleggiante, un talamo largamente utilizzato, una forma di mascheramento che concedeva tresche e comportamenti licenziosi a veneziani e foresti.
Il felze contribuì a creare il mito di una Venezia libertina e misteriosa, della gondola come cigno nero che scivola silenziosa sull'acqua nascondendo intrighi, misfatti e amori.
I romantici di tutto il mondo hanno cantato l'atmosfera "sotto l'intimità del felze, col vivido quadro veneziano incorniciato dal finestrino mobile", come scrisse Henry James.
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(Fonte: C. Coco)
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barca
giovedì 11 novembre 2010
San Martino
Nel 751 Ravenna viene occupata dai Longobardi, e molti ravennati in fuga trovano rifugio nella laguna di Venezia. Già nel 936 compaiono le prime notizie di una chiesa dedicata a San Martino (ricordiamo che la cattedrale di Ravenna era dedicata appunto a San Martino) nell'area che verrà poi utilizzata per la realizzazione dell'Arsenale.
La chiesa di impianto veneto-bizantino venne poi completamente riedificata nel Cinquecento ad opera del Sansovino. In quella occasione venne realizzato anche l'edificio a fianco, come sede della Scuola devozionale di S. Martino, che custodiva un pezzo di tunica, un dito ed un osso della gamba di S.Martino. La reliquia della tibia fu ceduta alla Scuola di San Giovanni Evangelista in cambio di una somma utile al restauro della Chiesa, obbligando però i confratelli a portare la preziosa reliquia in solenne processione l’11 novembre di ogni anno, la tradizione avrà fine solo con la caduta della Repubblica.
Sulla facciata si trova una Bocca di Leone per le denunce segrete (che però per poter esser prese in considerazione non potevano essere anonime). Sulla sommità della facciata abbiamo due statue: San Martino Vescovo (300 dc) e San Martino Papa (600 dc), il primo si festeggia l’11 novembre il secondo il giorno seguente. L'11 di novembre era anche il giorno per il rinnovo dei contratti d'affitto: “far samartin” significava infatti "traslocare". Ma soprattutto l’11 novembre è la festa dei bambini che girano per le calli cantando la filastrocca di San Martino e rumoreggiando con tamburi improvvisati, in cambio ricevono monetine o dolci di pastafrolla a forma di cavaliere che ricordano quello del bassorilievo sopra la Scuola di San Martino.
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La chiesa di impianto veneto-bizantino venne poi completamente riedificata nel Cinquecento ad opera del Sansovino. In quella occasione venne realizzato anche l'edificio a fianco, come sede della Scuola devozionale di S. Martino, che custodiva un pezzo di tunica, un dito ed un osso della gamba di S.Martino. La reliquia della tibia fu ceduta alla Scuola di San Giovanni Evangelista in cambio di una somma utile al restauro della Chiesa, obbligando però i confratelli a portare la preziosa reliquia in solenne processione l’11 novembre di ogni anno, la tradizione avrà fine solo con la caduta della Repubblica.
Sulla facciata si trova una Bocca di Leone per le denunce segrete (che però per poter esser prese in considerazione non potevano essere anonime). Sulla sommità della facciata abbiamo due statue: San Martino Vescovo (300 dc) e San Martino Papa (600 dc), il primo si festeggia l’11 novembre il secondo il giorno seguente. L'11 di novembre era anche il giorno per il rinnovo dei contratti d'affitto: “far samartin” significava infatti "traslocare". Ma soprattutto l’11 novembre è la festa dei bambini che girano per le calli cantando la filastrocca di San Martino e rumoreggiando con tamburi improvvisati, in cambio ricevono monetine o dolci di pastafrolla a forma di cavaliere che ricordano quello del bassorilievo sopra la Scuola di San Martino.
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martedì 9 novembre 2010
La moneta a Venezia.
Fin dai primi secoli della Repubblica, quando ancora sussisteva il sistema del baratto, era certamente in uso anche la moneta.
Si ha notizia che nel secolo IX circolavano a Venezia denari d'argento recanti sul verso la scritta "Venecie", ma la prima, sicura testimonianza di una zecca locale si ha soltanto agli inizi del secolo XI.
Nel 1112 il doge Ordelafo Falier vende un suo terreno in contrada S. Bartolomeo, a Rialto, e nel documento di vendita si parla di luogo ove "laburatur moneta". Secondo il Tassini l'edificio dell'antica Zecca sorgeva sulla fondamenta detta appunto Fondamenta della Moneta, oggi Riva del Ferro.
Nel 1224 viene creata la prima Magistratura con il compito di gestire la Zecca di Stato.
Il sistema monetario veneziano si fondava su due diversi tipi di lira: la lira di piccoli, usata nel commercio al minuto e per i salari, e la lira di grossi, usata nella contabilità di Stato e nei commerci all'ingrosso.
La lira era divisa in 20 soldi, e ogni soldo si divideva in 12 denari. Il termine "lira" deriva da "libbra" che era l'unità di misura francese sulla quale Carlo Magno nel 779 fece regolare il taglio della moneta del nuovo sistema monetario dei Franchi.
Nel 1284, sotto il doge Giovanni Dandolo, fu istituito il primo ducato d'oro o zecchino veneziano, del peso di 3,56 gr, il cui valore rimase pressoché inalterato fino al cadere della Repubblica (1797) e che godette d'enorme favore sul mercato internazionale.
Nel 1472 si deliberò la coniazione d'una nuova moneta: la lira Tron, o lira trona, dal nome del doge in carica, Andrea Tron.
Sotto il dogato di Nicolò Da Ponte si diede inizio alla coniazione dello scudo veneto (1578), del valore di 7 lire, il cui peso era di 4,31 gr di argento.
Sul finire del Cinquecento, dopo il fallimento di alcuni banchieri, il governo istituì un Pubblico Banco Mercantile, detto banco-giro, composto da un cospicuo deposito, sotto la garanzia dello Stato. Il Banco aveva sede presso la Chiesa di San Giacometto di Rialto, e lì si sviluppò la tecnica contabile che oggi chiamiamo del “giroconto”.
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Si ha notizia che nel secolo IX circolavano a Venezia denari d'argento recanti sul verso la scritta "Venecie", ma la prima, sicura testimonianza di una zecca locale si ha soltanto agli inizi del secolo XI.
Nel 1112 il doge Ordelafo Falier vende un suo terreno in contrada S. Bartolomeo, a Rialto, e nel documento di vendita si parla di luogo ove "laburatur moneta". Secondo il Tassini l'edificio dell'antica Zecca sorgeva sulla fondamenta detta appunto Fondamenta della Moneta, oggi Riva del Ferro.
Nel 1224 viene creata la prima Magistratura con il compito di gestire la Zecca di Stato.
Il sistema monetario veneziano si fondava su due diversi tipi di lira: la lira di piccoli, usata nel commercio al minuto e per i salari, e la lira di grossi, usata nella contabilità di Stato e nei commerci all'ingrosso.
La lira era divisa in 20 soldi, e ogni soldo si divideva in 12 denari. Il termine "lira" deriva da "libbra" che era l'unità di misura francese sulla quale Carlo Magno nel 779 fece regolare il taglio della moneta del nuovo sistema monetario dei Franchi.
Nel 1284, sotto il doge Giovanni Dandolo, fu istituito il primo ducato d'oro o zecchino veneziano, del peso di 3,56 gr, il cui valore rimase pressoché inalterato fino al cadere della Repubblica (1797) e che godette d'enorme favore sul mercato internazionale.
Nel 1472 si deliberò la coniazione d'una nuova moneta: la lira Tron, o lira trona, dal nome del doge in carica, Andrea Tron.
Sotto il dogato di Nicolò Da Ponte si diede inizio alla coniazione dello scudo veneto (1578), del valore di 7 lire, il cui peso era di 4,31 gr di argento.
Sul finire del Cinquecento, dopo il fallimento di alcuni banchieri, il governo istituì un Pubblico Banco Mercantile, detto banco-giro, composto da un cospicuo deposito, sotto la garanzia dello Stato. Il Banco aveva sede presso la Chiesa di San Giacometto di Rialto, e lì si sviluppò la tecnica contabile che oggi chiamiamo del “giroconto”.
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venerdì 5 novembre 2010
I luoghi di Corto Maltese a Venezia
Hugo Pratt si è divertito ad inventare nomi poetici per i luoghi del suo personaggio preferito, eccovi svelata la toponomastica:
- "Ponte della nostalgia": Ponte Widmann, vicino alla Chiesa dei Miracoli, Cannaregio
- "Sotoportego dei cattivi pensieri": Sotoportego dell'Anzolo che dà sulla Calle Magno, Arsenale, Castello
- "Campiello de l'arabo d'oro": Corte Rotta a San Martino, nelle vicinanze di Campo Do Pozzi, Castello
- "Corte del Maltese": Corte Buello nei pressi di Corte Nova, Castello
- "Calle dei Marrani": Salizada Santa Giustina, vicino a Campo San Francesco della Vigna, Castello
- "Corte Sconta detta Arcana": Corte Botera nei pressi di San Zanipolo
L'osteria che appare nelle storie di Corto è la Trattoria da Scarso, nella piazzetta di Malamocco, dove Hugo amava ritrovarsi con gli amici.
La casa di Hipazia è Palazzo Diedo, vicino a Santa Fosca.
Pratt scelse l'abitazione di Tiziano come domicilio di Corto, la casa si trova in Corte del Tiziano, Cannaregio
Alcuni personaggi creati da Pratt sono ispirati a persone reali:
- Esmeralda: Nini Rosa, grande amica veneziana di Hugo ed esperta ballerina di tango
- Bocca Dorata: Bocca Dorata è una cartomante creola di Bahia, maga esperta in voodoo caraibico che gestiva la società "Finanziaria Atlantica dei Trasporti Marittimi". Fu uno degli amori giovanili di Pratt
- Venexiana Stevenson: Mariolina, moglie di Guido Fuga (amico, collaboratore e compagno di viaggi di Pratt, insieme a Lele Vianello)
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- "Ponte della nostalgia": Ponte Widmann, vicino alla Chiesa dei Miracoli, Cannaregio
- "Sotoportego dei cattivi pensieri": Sotoportego dell'Anzolo che dà sulla Calle Magno, Arsenale, Castello
- "Campiello de l'arabo d'oro": Corte Rotta a San Martino, nelle vicinanze di Campo Do Pozzi, Castello
- "Corte del Maltese": Corte Buello nei pressi di Corte Nova, Castello
- "Calle dei Marrani": Salizada Santa Giustina, vicino a Campo San Francesco della Vigna, Castello
- "Corte Sconta detta Arcana": Corte Botera nei pressi di San Zanipolo
L'osteria che appare nelle storie di Corto è la Trattoria da Scarso, nella piazzetta di Malamocco, dove Hugo amava ritrovarsi con gli amici.
La casa di Hipazia è Palazzo Diedo, vicino a Santa Fosca.
Pratt scelse l'abitazione di Tiziano come domicilio di Corto, la casa si trova in Corte del Tiziano, Cannaregio
Alcuni personaggi creati da Pratt sono ispirati a persone reali:
- Esmeralda: Nini Rosa, grande amica veneziana di Hugo ed esperta ballerina di tango
- Bocca Dorata: Bocca Dorata è una cartomante creola di Bahia, maga esperta in voodoo caraibico che gestiva la società "Finanziaria Atlantica dei Trasporti Marittimi". Fu uno degli amori giovanili di Pratt
- Venexiana Stevenson: Mariolina, moglie di Guido Fuga (amico, collaboratore e compagno di viaggi di Pratt, insieme a Lele Vianello)
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mercoledì 3 novembre 2010
Un'ipotesi sulle origini de "I Promessi Sposi"
Nei primi anni del 1600 un signorotto vicentino, Paolo Orgiano, protetto da un potente zio, Conte dei Fracanzan, e spalleggiato da un cugino, Tiberio, scavezzacollo e scellerato come lui, insidia Fiore Bertola, una bella contadinotta diciassettenne, orfana di padre. Fiore resiste alle lusinghe e sposa Vincenzo Galvan, un giovane contadino da lei amato. Passa qualche tempo e in una sera d' inverno il signorotto ordina il rapimento della giovane: con l' aiuto dei suoi "bravi" fa arrivare la fresca sposa nel proprio palazzotto e lì la violenta. Lucia Fiore dunque fu di Paolo Orgiano don Rodrigo.
Fiore, violata e umiliata, fuggì discinta e scalza dal palazzotto del suo tiranno e tornò avvilita dal marito. Vincenzo (Renzo) non dovette aspettare la peste giustiziera per placare la propria sete di vendetta. Grazie a fra' Lodovico, religioso impavido, difensore di ogni perseguitato, ottenne giustizia dal Tribunale di Venezia.
Nel 1607 Paolo Orgiano, difeso da un mediocre Azzeccagarbugli, venne condannato dal Consiglio dei Dieci della Serenissima Repubblica di Venezia al carcere a vita, per aver terrorizzato per anni il paese di Orgiano, con “homicidi, sforzi, violentie et tirannie”. In particolare per “far operazioni nell’impedir matrimoni”.
Duecento anni dopo, Alessandro Manzoni scrive “I Promessi Sposi”, attingendo dichiaratamente a svariate fonti storiche del ‘600. La vicenda di Paolo Orgiano presenta sorprendenti analogie con quella del Manzoni: Don Rodrigo impedisce il matrimonio di Lucia, e la perseguita fino a costringerla ad allontanarsi. Fra’ Cristoforo aiuta Lucia nelle sue traversie.
Ma sono solo alcune delle molte similitudini tra le due vicende. La questione è come Alessandro Manzoni abbia potuto avere in visione il fascicolo del processo, tuttora giacente all’Archivio di Venezia, corredato delle vivaci testimonianze di popolani e nobili.
Ecco allora spuntare la singolare figura di Agostino Carli Rubbi, archivista veneziano frequentatore e conoscitore della vita culturale lombarda, amico del Beccaria, che potrebbe essersi fatto segretamente tramite della consultazione degli atti del processo da parte dello scrittore. A questa ipotesi il professor Claudio Povolo, dell’Università di Venezia, ha dedicato approfonditi studi, e la sua ipotesi è stata accreditata dai più eminenti esperti in materia.
Da questa ipotesi la compagnia teatrale di Mestre "Fuoriposto" ha tratto una rappresentazione sceneggiata da Paola Brolati ed interpretata dalla Brolati stessa e da Augusto Charlie Gamba, col titolo: "Storia, romanzo, processi... e sposi promessi".
Fiore, violata e umiliata, fuggì discinta e scalza dal palazzotto del suo tiranno e tornò avvilita dal marito. Vincenzo (Renzo) non dovette aspettare la peste giustiziera per placare la propria sete di vendetta. Grazie a fra' Lodovico, religioso impavido, difensore di ogni perseguitato, ottenne giustizia dal Tribunale di Venezia.
Nel 1607 Paolo Orgiano, difeso da un mediocre Azzeccagarbugli, venne condannato dal Consiglio dei Dieci della Serenissima Repubblica di Venezia al carcere a vita, per aver terrorizzato per anni il paese di Orgiano, con “homicidi, sforzi, violentie et tirannie”. In particolare per “far operazioni nell’impedir matrimoni”.
Duecento anni dopo, Alessandro Manzoni scrive “I Promessi Sposi”, attingendo dichiaratamente a svariate fonti storiche del ‘600. La vicenda di Paolo Orgiano presenta sorprendenti analogie con quella del Manzoni: Don Rodrigo impedisce il matrimonio di Lucia, e la perseguita fino a costringerla ad allontanarsi. Fra’ Cristoforo aiuta Lucia nelle sue traversie.
Ma sono solo alcune delle molte similitudini tra le due vicende. La questione è come Alessandro Manzoni abbia potuto avere in visione il fascicolo del processo, tuttora giacente all’Archivio di Venezia, corredato delle vivaci testimonianze di popolani e nobili.
Ecco allora spuntare la singolare figura di Agostino Carli Rubbi, archivista veneziano frequentatore e conoscitore della vita culturale lombarda, amico del Beccaria, che potrebbe essersi fatto segretamente tramite della consultazione degli atti del processo da parte dello scrittore. A questa ipotesi il professor Claudio Povolo, dell’Università di Venezia, ha dedicato approfonditi studi, e la sua ipotesi è stata accreditata dai più eminenti esperti in materia.
Da questa ipotesi la compagnia teatrale di Mestre "Fuoriposto" ha tratto una rappresentazione sceneggiata da Paola Brolati ed interpretata dalla Brolati stessa e da Augusto Charlie Gamba, col titolo: "Storia, romanzo, processi... e sposi promessi".
martedì 26 ottobre 2010
Elena Lucrezia Corner Piscopia
Certo non è una prova definitiva della condizione femminile a Venezia all'epoca della Serenissima, il fatto che una nobildonna veneziana, Elena Lucrezia, Corner Piscopia, sia stata la prima donna al mondo a conseguire una laurea, però possiamo considerarlo un indice significativo del fatto che a Venezia le donne avevano una libertà superiore a quella del resto d'Europa.
Il padre di Elena si chiamava Giovanni Battista, era Procuratore di San Marco (la più alta carica dignitaria dopo il Doge) ed era un uomo di grande cultura: disponeva di una biblioteca personale di circa 4.000 volumi. Elena crebbe in questo ambiente e trovò nel padre incoraggiamento e aiuto al conseguimento dei suoi obiettivi culturali.
Elena nacque nel 1646 nel palazzo sul Canal Grande che diventerà di proprietà della famiglia Loredan e che oggi ospita il Municipio di Venezia. A sette anni il padre la affida ad insegnanti privati e a 15 anni parlava correntemente greco, latino, ebraico, spagnolo, francese e arabo. Ma lei studia anche matematica, astronomia e filosofia sotto la guida di uno dei maggiori scienziati del momento, Carlo Rinaldini.
Il padre consapevole del suo talento la iscrive all'Università di Padova, dove Elena vorrebbe studiare teologia, ma non le viene consentito. Sceglie quindi di dedicarsi alla filosofia, e nel 1677, in presenza dell'intero collegio di Padova, di gran parte del Senato e di un folto pubblico, sostenne la tesi sull'Analitica e Fisica di Aristotele. Il 25 giugno del 1678 viene insignita, prima donna al mondo, del titolo di "doctor". Data la grande affluenza di pubblico, la cerimonia si svolse in una chiesa!
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò, all'assistenza dei poveri. Morì a Padova il 26 luglio del 1684 malata di tubercolosi. Le sue spoglie riposano nella chiesa di Santa Giustina.
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Il padre di Elena si chiamava Giovanni Battista, era Procuratore di San Marco (la più alta carica dignitaria dopo il Doge) ed era un uomo di grande cultura: disponeva di una biblioteca personale di circa 4.000 volumi. Elena crebbe in questo ambiente e trovò nel padre incoraggiamento e aiuto al conseguimento dei suoi obiettivi culturali.
Elena nacque nel 1646 nel palazzo sul Canal Grande che diventerà di proprietà della famiglia Loredan e che oggi ospita il Municipio di Venezia. A sette anni il padre la affida ad insegnanti privati e a 15 anni parlava correntemente greco, latino, ebraico, spagnolo, francese e arabo. Ma lei studia anche matematica, astronomia e filosofia sotto la guida di uno dei maggiori scienziati del momento, Carlo Rinaldini.
Il padre consapevole del suo talento la iscrive all'Università di Padova, dove Elena vorrebbe studiare teologia, ma non le viene consentito. Sceglie quindi di dedicarsi alla filosofia, e nel 1677, in presenza dell'intero collegio di Padova, di gran parte del Senato e di un folto pubblico, sostenne la tesi sull'Analitica e Fisica di Aristotele. Il 25 giugno del 1678 viene insignita, prima donna al mondo, del titolo di "doctor". Data la grande affluenza di pubblico, la cerimonia si svolse in una chiesa!
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò, all'assistenza dei poveri. Morì a Padova il 26 luglio del 1684 malata di tubercolosi. Le sue spoglie riposano nella chiesa di Santa Giustina.
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giovedì 21 ottobre 2010
Acqua dolce a Venezia
"Venezia è in acqua ma non ha acqua" (M. Sanudo)
L'approvvigionamento di acqua potabile fu problema di primaria importanza per Venezia fin dai primi momenti della sua vita, e si può dire si protrasse lungo tutto l'arco della sua millenaria storia.
Quando le popolazioni della terraferma, sotto la pressione delle invasioni barbariche, trovarono rifugio nelle isole della laguna, è molto probabile che abbiano dapprima approfittato delle acque dei fiumi che entravano in laguna. Si sa per certo che si procuravano l'acqua anche da pozzi naturali di acqua piovana.
Con il trasferimento della sede del governo a Rialto, per evitare la spesa del trasporto dell'acqua dolce dai pozzi del litorale, si cominciarono a realizzare una o più cisterne d'uso pubblico nei cortili delle case, cisterne che raccoglievano l'acqua piovana dopo essere stata filtrata da uno strato di sabbia . All'inizio del 1300 in città erano presenti già un centinaio di pozzi.
Allo scopo di incrementare sempre più il numero di pozzi furono presi provvedimenti di varia natura, ad esempio le corporazioni religiose che ne avessero costruiti all'interno dei conventi venivano largamente sovvenzionate dallo Stato purché i pozzi fossero lasciati in libero uso a tutti i cittadini.
Furono adottate misure di vigilanza per evitare sprechi nel consumo: i parroci (detti appunto "piovani") custodivano le chiavi dei pozzi con l'incarico di aprirli due sole volte al giorno, al suono della "campana dei pozzi". Esistevano anche pozzi dedicati al solo uso dei poveri, come quello di San Marcuola.
Ma il continuo aumento della popolazione e dei commerci determinò un consumo di acqua tale che le cisterne non erano più sufficienti. Pertanto nel 1540 il Senato decretò la realizzazione dello scavo del canale Seriola allo scopo di portare le acque del fiume Brenta fino ai margini della laguna, presso Fusina, in modo da rendere più agevole il trasporto dell'acqua a Venezia. Il trasporto veniva effettuato tramite barche apposite chiamate "burchi". Addetti a questo trasporto erano gli "acquaroli", associazione costituitasi fin dal secolo XIV, con sede in un modesto edificio nel pressi della Chiesa di San Basegio.
L'acqua poteva essere venduta in piccole quantità, per le strade, dai "bigolanti", al grido "acqua mo!". Questi venditori ambulanti portavano l'acqua dolce direttamente alle case o ai negozi che ne facevano richiesta.
Nel Settecento i "bigolanti" erano circa un centinaio (per lo più donne) e acquisivano il diritto di vendita con un contributo annuo di 20 soldi pagato agli "acquaroli".
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L'approvvigionamento di acqua potabile fu problema di primaria importanza per Venezia fin dai primi momenti della sua vita, e si può dire si protrasse lungo tutto l'arco della sua millenaria storia.
Quando le popolazioni della terraferma, sotto la pressione delle invasioni barbariche, trovarono rifugio nelle isole della laguna, è molto probabile che abbiano dapprima approfittato delle acque dei fiumi che entravano in laguna. Si sa per certo che si procuravano l'acqua anche da pozzi naturali di acqua piovana.
Con il trasferimento della sede del governo a Rialto, per evitare la spesa del trasporto dell'acqua dolce dai pozzi del litorale, si cominciarono a realizzare una o più cisterne d'uso pubblico nei cortili delle case, cisterne che raccoglievano l'acqua piovana dopo essere stata filtrata da uno strato di sabbia . All'inizio del 1300 in città erano presenti già un centinaio di pozzi.
Allo scopo di incrementare sempre più il numero di pozzi furono presi provvedimenti di varia natura, ad esempio le corporazioni religiose che ne avessero costruiti all'interno dei conventi venivano largamente sovvenzionate dallo Stato purché i pozzi fossero lasciati in libero uso a tutti i cittadini.
Furono adottate misure di vigilanza per evitare sprechi nel consumo: i parroci (detti appunto "piovani") custodivano le chiavi dei pozzi con l'incarico di aprirli due sole volte al giorno, al suono della "campana dei pozzi". Esistevano anche pozzi dedicati al solo uso dei poveri, come quello di San Marcuola.
Ma il continuo aumento della popolazione e dei commerci determinò un consumo di acqua tale che le cisterne non erano più sufficienti. Pertanto nel 1540 il Senato decretò la realizzazione dello scavo del canale Seriola allo scopo di portare le acque del fiume Brenta fino ai margini della laguna, presso Fusina, in modo da rendere più agevole il trasporto dell'acqua a Venezia. Il trasporto veniva effettuato tramite barche apposite chiamate "burchi". Addetti a questo trasporto erano gli "acquaroli", associazione costituitasi fin dal secolo XIV, con sede in un modesto edificio nel pressi della Chiesa di San Basegio.
L'acqua poteva essere venduta in piccole quantità, per le strade, dai "bigolanti", al grido "acqua mo!". Questi venditori ambulanti portavano l'acqua dolce direttamente alle case o ai negozi che ne facevano richiesta.
Nel Settecento i "bigolanti" erano circa un centinaio (per lo più donne) e acquisivano il diritto di vendita con un contributo annuo di 20 soldi pagato agli "acquaroli".
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