lunedì 25 giugno 2012

Le tre colonne di San Marco

"Le due colonne che s'ergono alte assai in sul molo di San Marco, de le quali regge l'una l'effigie di Santo Todare co il dracone, l'altra il bronzeo lione, arebber dovuto essere tre. Noto gli è che, terminato quasi il periglioso viaggio dall'Oriente, giunse in vista del Molo, da cui festanti li veneziani s'apparecchiavano ad accoglierle, le navi che trasportavano le tre colonne consorelle, ed eran tre esse pure, furono colte da incommensurabile isbigottimento alla vista di cotanto popolo e quella d'esse ch'era di complessione più cagionevole sbandò tanto da sprofondare col carico trionfale.
Salvati li homeni de lo equipaggio, de quali nonnulla erasi in completo deliquio e galleggiava sull'acqua a mo' di cadavaro, la terza colonna non parlò neppure di trarla su, ché l'era poderosa alquanto. Pochi sanno che cosa essa avria dovuto reggere e dove la saria stata posta, e noi non siam di tra costoro. Ma sappiamo ben altro.
SI narra infatti che, guardacaso proprio all'interno di quella colonna, fussero stati celati i più audaci guerrieri dell'esercito turcomanno, acciocché nottetempo uscissero ad approntar l'offensiva di contra all'odiata Serenissima. Ma accadde che li serramenti de la porticina per la quale sarebbero usciti que' ribaldi s'arugginissero repentinamente, a cagione dell'immersione in acqua salsa, e non s'aprissero più.
Grande fu l'agitazione de li Turchi rinchiusi, già ispaventati dell'affondamento, al momento della discoverta, e li s'udì concitatamente confabulare a lungo, tanto che alcuno elucubrò si trattasse di colloqui subterranei di morti in preparazione della fine del mondo.
Come ognun sa, li Turchi aman fumare uno istrumento borbottante chiamato narghiglio, dal quale essi traggono le più complete staisfationi. Ne la gravitante cotanta del frangente, il loro comandante Mustafà Kebeli prendette parola e disse: 'Non molto tarderanno li nostri compatriotti a venirci a tra fuora da questo cottego, ovverosia trappola per pantegane, allieteremo  pertanto l'attesa co i generosi effluvi del nerghiglio'.
Ed essi stanno ancora suggendo di quel narghiglio sul fondo del Bacin de San Marco.
"

lunedì 18 giugno 2012

Cibo, vino e proverbi veneziani

"Chi varda el cartelo, no magna vedelo"
Chi guarda il cartello, non mangia vitello. Il detto si presta a diverse possibili interpretazioni, la più comune è: colui che guarda il cartello (in questo caso il menu) troppo a lungo, è solitamente persona insicura, con poca fiducia in se stessa, che esita a lungo prima di accingersi alle imprese desiderate, e nel far ciò, spesso non coglie l'occasione e si ritrova nell'impossibilità di raggiungere il risultato anelato (cioè dopo troppo lungo tentennamento, decide di ordinare al cameriere il vitello quando ormai in cucina il vitello è terminato!). Il detto quindi ci ammonisce dicendoci che colui che prende troppo tempo per decidersi ad intraprendere un'azione, alla fine non concluderà nulla.
"Strasse, ossi, de toccar bessi"
Stracci, ossa, da prendere soldi. Era questo il breve canto che per calli e campielli veneziani lanciava un vecchio venditore ambulante intorno agli anni trenta e quaranta. Un invito alle donne di casa perché uscissero alla porta e gli vendessero arnesi usati, mobili vecchi, vestiti smessi, tutta roba insomma di cui volessero disfarsi. Uno dei tanti mestieri scomparsi. Ignoriamo da dove venisse, giacché non aveva accento veneziano, forse veniva dalla campagna, forse era friulano. Peraltro è da ricordare che per i veneziani d'una volta (ma forse è un poco così ancor oggi), tutto ciò che non era Venezia, era campagna. Tutti quelli che non fossero veneziani erano campagnoli, venissero da Padova, da Udine od anche da Parigi, ad un dipresso come per gli ateniesi, tutti quelli che non erano della loro città erano semplicemente barbari.

Si sa che in laguna il pesce non è mai mancato, e qualora sia abbia l'opportunità di gustarne di appena pescato e cucina ad arte, si dice che: "xe da licarse i barboni" (è da leccarsi le dita). Sia per bontà, sia perché taluni pesci non possono esser mangiati altro che con le dita.
Poter mangiare quindi del pesce fresco e cucinato a dovere, è una cosa deliziosa e quindi "el xe un balar de Carneval", cosa piacevole, che non impegna e dona allegrezza.
Se lo si mangia al ristorante, il pesce è piuttosto costoso, ma talvolta può capitare di doverlo "pagar sora la broca", cioè di pagarlo più del suo valore. Il detto ha tratto motivo dal vino che era versato dalla brocca, "pagarlo sopra la brocca" voleva quindi dire pagare più vino di quanto ne potesse contenere la caraffa.
Per fortuna ci sono anche cibi che costano poco. Ove costassero pochissimo, si direbbe: "costar come 'na cantada de imbriago" (costare come un canto di ubriaco), cioè quasi nulla, appena quello che costa un bicchiere di vino, che alcuni bontemponi sono soliti offrire agli ubriachi per indurli a proseguire nei loro canti.
A questo proposito non sarà inutile ricordare come il vino venga bevuto a Venezia a singolo bicchiere, che un tempo corrispondeva esattamente ad un decimo di litro. Tale bicchiere viene chiamato "un'ombra de vin".
L'ombra di vino si degusta normalmente prima in un'osteria e subito dopo un un'altra e così via. Questo pellegrinaggio si chiama "andar per bacari". Sport assai praticato dai veneziani!
Non manca certo chi accompagna l'ombra di vino con cicchetti ed altri gustosi bocconi, per poi finire la serata "co i pie soto la tola" (con i piedi sotto la tavola), ricordando sempre che "quelo che no strangola, ingrassa" (quello che non strozza, ingrassa), per converso è opportuno non dimenticare che "dove sta Piero no sta Paolo" (dove sta Pietro non sta Paolo), cioè quando la pancia è piena è inutile aggiungere altro (il proverbio però si adatta a diverse situazioni).
in ogni caso si tornerà a casa esclamando: "Gnanca per ancuo no morimo de fame" (neanche oggi si muore di fame).

(Fonte: Federico Fontanella)

lunedì 11 giugno 2012

L'Arte dei pescatori a Venezia

In un luogo così strettamente connesso con l'elemento liquido, le confraternite dei pescatori sono, naturalmente, tra le prime a formarsi. I pescatori di Chioggia fondano una prima associazione di mestiere già nel 792, nell'836 è la volta dei nicolotti, raccolti intorno alla Chiesa di San Niccolò dei Mendicoli.
Il governo pratica una severa politica ambientale per la conservazione e la difesa del patrimonio ittico, e dà voce all'esperienza acquisita dai pescatori, tanto è vero che i più anziani partecipano alle sedute del Consiglio quando vengono discussi problemi relativi alla laguna.
Nel 1227 l'Arte viene divisa in pescatori e compravendipesce. I pescatori, al ritorno dal lavoro con le loro tipiche imbarcazioni lagunari come il bragozzo o la togna, confluiscono nel punto ufficialmente deputato per la vendita all'ingrosso: il palo di Rialto, dove i compravendi fanno la stima del pescato per qualità e prezzo. L'offerta viene sussurrata segretamente alla rechia (cioè, all'orecchio), e la vendita al pubblico si farà nelle due grandi pescherie di Rialto e di San Marco. La prima dove si trova tutt'oggi, la seconda nei pressi dell'edificio della Zecca.
Quello del compravendi pesce è un mestiere lucroso e ambito che viene concesso solo a chi ha compiuto almeno cinquant'anni, e dopo esser stato pescatore per almeno venti anni. Una legge del 1433 stabilisce inoltre che bisogna essere originari di Venezia e avervi domicilio.
Nelle due grandi pescherie, una magistratura apposita controlla che il pesce marcio venga buttato e che siano rispettate le misure minime per la rivendita. Trucchi vecchi e nuovi connotano i venditori disonesti che insanguinano le branchie del pesce per farlo apparire morto da poco, o lo guarniscono con troppe alghe per nasconderne la cattiva qualità. Pene molto severe colpiscono i truffatori, che qui infatti non hanno vita facile.
Durante la giornata di vendita il pesce viene mantenuto in tinozze di acqua salata.
Una volta venduto, il pesce viene conservato con diversi metodi: la carpionatura, la salamoia, la conservazione sottolio, l'essiccazione e l'affumicatura.
Fonti documentaristiche medievali registrano che nelle case "ad ogni finestra, in ogni corte, sono stese collane di pesce che insieme ai panni sbiancano al sole". Pratica, questa, utilizzata ancora fino agli inizi del Novecento. Il pesce essiccato veniva poi ammorbidito con olio e condito con erbette di laguna, sale e pepe.
Si praticava anche la salagione casalinga, in questo caso il pesce veniva poi cotto su una base di cipolla e aceto, metodo che è alla base delle ricette di pesce dette "al saor", che qualche osteria propone ancora oggi.

martedì 5 giugno 2012

Il Caffè Menegazzo e l'Accademia dei Granelleschi

L'edificio d'angolo con le Mercerie San Zulian, un tempo ospitava il Caffè di Menegazzo. Il locale era così chiamato per l'aspetto fisico del suo proprietario, Menico, uomo tarchiato e corpulento ma simpatico e ospitale. Questo luogo di ritrovo fu particolarmente famoso nel Settecento perché frequentato da noti personaggi della vita veneziana: Daniele Farsetti, Carlo Goldoni, Giacomo Casanova e L'Abate Chiari.
Nelle sale di questo caffè venne fondata l'Accademia dei Granelleschi. L'origine dell'Accademia fu piuttosto originale. Daniele Farsetti ed altri amici avevano ascoltato nel convento di S. Domenico un ridicolo sermone in onore di S.Vincenzo Ferreri, recitato da un prete, Giuseppe Sacchellari, considerato da loro non troppo sveglio né intelligente. La compagnia di amici, per burla, invitò il sacerdote a far parte dell'Accademia che essi stavano fondando e gli proposero di diventarne massimo esponente col titolo di "Arcigranellone"! Ma al di là dello scherzo nei confronti del povero parroco, Farsetti e i suoi amici decisero comunque di fondare l'Accademia in questione, che fu detta dei Granelleschi in ricordo del falso titolo di Sacchellari. Si scelse pertanto come insegna un gufo che con una zampa sollevava dei granelli.
Dell'Accademia fecero parte anche i fratelli Carlo e Gasparo Gozzi.
Narra il Molmenti che l'Accademia "aveva sotto la celia il nobile intento di guarire l'enfasi oratoria che guastava l'arte e il pensiero, e di opporsi al crescente imbarbarimento della lingua, sebbene con affettata imitazione degli antichi scrittori toscani fosse ben lontana dal conseguirne l'intento".
La bottega di Menegazzo continuò la sua attività anche nell'Ottocento, ma priva ormai della sua funzione di caffè letterario; cambio infine nome in "Trovatore", come ci ricorda il Cicogna nei suoi "Diarii" in data 21 luglio 1861.

venerdì 1 giugno 2012

"...chi non va a Venezia è uno stupido! la vita qui costa cosi poco. Il vitto e l'alloggio per una settimana costano 18 franchi a persona, vale a dire 6 rubli, e per un mese 25 rubli: un gondoliere prende un franco all'ora, cioè 30 copechi. Nei musei, all'Accademia e negli altri, si entra gratis. E' dieci volte più conveniente della Crimea, e la Crimea rispetto Venezia è come una seppia vicino a una balena."

(A.P. Cechov, Venezia, aprile 1891)

martedì 29 maggio 2012

Mercerie: le botteghe di Venezia

Le Mercerie a Venezia occupano quell'area strategicamente posta tra il centro politico-religioso di San Marco e quello commerciale-mercantile di Rialto. Per la loro importanza, già nel Duecento erano pavimentate in cotto.
Lungo le Mercerie di San Salvador avevano bottega i principali editori musicali e liutai:  i Gardano all'insegna "del Leone e dell'Orso", il liutaio Sigismondo Mahler, i Tieffenbrucker all'insegna "dell'Aquila nera", Francesco Bonafin, costruttore di clavicembali, Giorgio Sellas all'insegna "alla Stella" famoso per le sue chitarre, Luigi Hoffer costruttore di fortepiani.
La vita lungo le Mercerie fu sempre molto attiva: su di esse affacciavano numerosi negozi e costantemente si svolgeva un andirivieni di prodotti d'ogni tipo, da cui il detto "far marsaria" per indicare un trasloco.
La Merceria San Salvador prende il nome dall'omonima chiesa posta all'inizio della strada, verso il Canal Grande, la cui facciata principale volge verso il campo, mentre l'ingresso laterale si trova lungo la calle, tramite un sotoportego che attraversa il blocco edilizio di proprietà del Capitolo della Chiesa. Questo giustifica l'altezza delle case in questa zona: più erano numerosi gli appartamenti e maggiori erano le entrate per il clero! Gli stessi monaci di San Salvador scrissero nel 1507: "da queste case trazemo non mediocre utilità".
Poco più avanti prospetta la Calle degli Stagneri. Gli stagneri erano artigiani che lavoravano lo stagno con una tale abilità da farlo sembrare argento. Nacque il detto "xè passà per la cale degli stagneri", usato quando si dubitava dell'autenticità di un oggetto prezioso.
Lungo le Mercerie del Capitello si trova invece la Calle de le Balote. Qui esisteva la fabbrica delle speciali palline destinate alle votazioni delle magistrature veneziane e alla elezione del doge. Inizialmente fabbricate in cera e poi in tela di lino pressata, queste "balote" sono all'origine del termine "ballottaggio" usato ancora oggi per le votazioni.

lunedì 21 maggio 2012

La chiesa di Santa Giustina a Venezia

La chiesa di Santa Giustina sarebbe stata fondata da San Magno (Altino, 580-670), ma come al solito la storia posticipa la fondazione all'anno 1106, data della prima documentazione riguardante l'edificio. Fu consacrata nel 1207 ed assegnata prima ai monaci di Santa Brigida e poi alle monache agostiniane di S. Maria degli Angeli di Murano. La chiesa fu completamente rifatta nel 1500, e subì ulteriori rimaneggiamenti nel 1600.
Nei documenti dell'epoca si ricorda un tabernacolo dell'altare maggiore "di marmo fino in due ordini di colonne corinzie e composite con nicchi di agate e corniole, il tutto in fondo di lapislazzuli".
Vi era custodito inoltre un sasso con l'impronta delle ginocchia di S. Giustina, genuflessa su di esso in preghiera.
L'interno della chiesa era ricco di opere di diversi artisti, tra cui Palma il Giovane, Marco Vecellio e Liberi. Durante le soppressioni napoleoniche la chiesa venne completamente spogliata. Nel 1844 la chiesa perse il coronamento curvilineo superiore (vedi immagine), quando fu trasformata in scuola militare.
Un tempo la chiesa di Santa Giustina era visitata solennemente dal doge il 7 di ottobre, data della vittoria navale di Lepanto avvenuta nel 1571.
Oggi è sede del Liceo Scientifico titolato a Giambattista Benedetti, matematico veneziano morto nel 1590. Fu allievo di Nicolò Tartaglia e a soli 23 anni pubblicò un'opera dove insegnava a risolvere tutti i problemi geometrici per mezzo di un compasso ad apertura fissa. Nell'opera sua più di rilievo "Il libro di diverse speculazioni fisiche e matematiche", espose la teoria della caduta dei gravi che ebbe influenza anche su Galileo Galilei.

domenica 13 maggio 2012

Il Teatro della Cavallerizza

Dietro le absidi delle Chiesa di San Zanipolo si estende la Calle Torelli detta della Cavallerizza.
Nel 1640 in questo spazio fu costruito un teatro tutto in legno su disegno di Jacopo Torelli, autore anche delle macchine sceniche. Il teatro fu inaugurato per il Carnevale del 1641 con "La finta pazza" di Giulio Strozzi, su musica di Francesco Sacrati, rappresentata ben dodici volte in sole diciassette sere; seguirono, tra le altre, il "Bellerofonte" di Sacrati e la "Deidamia" di Francesco Cavalli.
Nonostante il successo il teatro fu demolito nel 1647 e al suo posto fu costruito un maneggio, chiamato "La Cavallerizza". Cristoforo Ivanovich, un canonico che visse a Venezia a fine Seicento, ce ne ha lasciato un'interessante descrizione: "In essa c'erano più di settanta cavalli, un maestro per insegnare a cavalcare, stipendiato dai notabili responsabili e inoltre si allestivano balletti equestri, giostre e spettacoli musicali".
Agli inizi del Settecento, ogni giovedì, erano eseguiti i "Salmi" di Benedetto Marcello, che duravano più di quattro ore e lo stesso autore accompagnava i cantanti al clavicembalo.
Per i numerosi spettacoli ivi allestiti, la Cavallerizza era considerata alla stregua di un teatro, operativo fino al 1735, quando fu chiuso e trasformato in saponificio. Il teatro fu poi riaperto nel 1750 e rimase attivo fino alla caduta della Repubblica.
In fondo alla Cavallerizza c'era la Calle della Gorna, oggi inglobata nella struttura dell'Ospedale Civile, un tempo direttamente collegata alle Fondamenta Nuove. In questa calle si trovava l'appartamento occupato da Giacomo Casanova dal marzo al 25 luglio 1755, giorno del suo arresto. L'immobile apparteneva ad una vedova con due figlie e la maggiore di esse, diciottenne, era in cura da lungo tempo dal medico Righellini per una strana forma di apatia accompagnata da gran debolezza. Il medico, parlando con Casanova, suggerì che la vera medicina per guarirla sarebba stata un buon amatore... e Giacomo la guarì perfettamente!

sabato 5 maggio 2012

I funerali dogali

I primi funerali dei dogi si svolgevano senza grande pompa, ma col tempo la cerimonia divenne sempre più complessa e solenne.
Quando un doge moriva, l'addetto alle cerimonie comunicava la notizia al Collegio e il più anziano dei Consiglieri rispondeva: "Con molto dispiacere avemo sentido la morte del Serenissimo Principe di tanta bontà e pietà. Però ne faremo un altro".
Poi la morte veniva annunciata a tutta la cittadinanza dal suono a doppio per nove volte delle campane di San Marco e delle altre chiese della città. Da quel momento erano sospese tutte le attività delle magistrature ad eccezione dei Signori della Notte, e nelle chiese si celebravano messe a suffragio per tre giorni.
Il doge, subito dopo la morte, veniva imbalsamato e avvolto nel mantello d'oro, col corno ducale in testa, gli speroni calzati alla rovescia e lo stocco del comando a lato, con l'impugnatura verso i piedi; poi veniva esposto in una sala del suo appartamento in Palazzo Ducale, sopra una tavola coperta da tappeti e la sera successiva era trasferito sopra un cataletto, da marinai scelti, nella Sala del Piovego. Passati tre giorni dalla morte, si svolgevano i funerali, verso sera.
Il corteo, formato da migliaia di persone, entrava in Palazzo Ducale, attraversava la Sala del Piovego e usciva in Piazza San Marco. In testa sfilavano le Scuole piccole, seguite dalle Scuole grandi, gli ordini monastici e religiosi, il clero secolare, i chierici e i capitoli di San Pietro in Castello e di San Marco.
Sopra il cataletto, portato da ufficiali della Marina, si alzava un baldacchino di velluto color cremisi con ricami d'oro, sorretto da quattro confratelli della Scuola alla quale apparteneva il doge. Il cataletto era seguito dai parenti del doge che sfilavano vestiti completamente di nero, avvolti in lunghi mantelli con cappuccio, mentre le varie magistrature vestivano di rosso, a significare che il lutto era privato e la Serenissima eterna.
Il lungo corteo, concluso dai bambini dei quattro Ospedali cittadini, entrava in Piazza al suono delle campane di San Marco, girava intorno al pozzo posto davanti alla chiesa di San Giminiano (oggi non più esistente) e quando il cataletto giungeva davanti alla Basilica, le campane smettevano di suonare e i marinai, in segno di lutto, lo alzavano nove volte gridando, nel silenzio generale, "misericordia".
Dopo quel gesto, chiamato salto del morto, le campane riprendevano a suonare e il corteo imboccava le Mercerie per poi dirigersi verso S.S. Giovanni e Paolo. Lungo tutto il percorso le finestre delle case erano abbellite da tappeti ed arazzi e i soldati dalmati facevano doppio cordone da Piazza San Marco al Campo S.S. Giovanni e Paolo.
Arrivati all'interno della Chiesa, la bara veniva posta sopra un alto catafalco; attorno si disponevano i soldati e i marinai, mentre i parenti sedevano nel coro. Terminata l'orazione funebre, tutti si allontanavano in barca, mentre il Patriarca dava l'assoluzione alla salma.
Alla cerimonia dentro la chiesa c'era poca affluenza di pubblico, forse a causa di una strana profezia: la Chiesa sarebbe crollata in un giorno solenne!