"Noi voghiamo colla testa, il resto del mondo voga col culo"
(detto veneziano)
La Voga alla Veneta: Il Cuore della Venezianità on Vimeo.
giovedì 17 marzo 2011
mercoledì 16 marzo 2011
“L’emozione che ti dà questa città non è paragonabile a nessun’altra, è talmente poetica e originale che ti viene da piangere, ci si rifà di tutte le perdite e le disgrazie. Anche solo la Basilica di San Marco vale il viaggio, ah, com’è toccante vedere questo divino vecchietto bizantino”
(Viktor M. Vasnetsov , 1885)
(Viktor M. Vasnetsov , 1885)
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lunedì 14 marzo 2011
Sviluppo urbano nell'antica Venezia
Lo sviluppo urbano di Venezia è stato fortemente condizionato dall'ambiente naturale così insolito: la disposizione dei suoi spazi è stata dettata infatti dal continuo rapporto terra-acqua.
Per potersi sviluppare, la città ha dovuto strappare all'acqua il terreno su cui sorgere, rassodando con palafitte di legno o con strati di pietra gli isolotti situati nei luoghi maggiormente difendibili, tanto che il suo tessuto urbano ha assunto caratteristiche apparentemente casuali.
La laguna ha condizionato anche il gusto dei suoi abitanti, perché i rapporti spazio-colore e architettura-luce divennero fondamentali. L'architettura è misura e costruzione dello spazio, ma a Venezia lo spazio si trasformò in luce e colore.
E' facilmente intuibile come ambiente, clima e costume degli abitanti furono gli elementi che maggiormente condizionarono la realizzazione degli edifici pubblici e privati.
La prima accurata descrizione dell'ambiente lagunare è quella del prefetto romano Cassiodoro (VI secolo): "abitanti liberi e autonomi le cui risorse di vita sono la pesca e il sale, e le loro abitazioni sono per lo più di legno con tetto di paglia, materiali adatti ad un terreno fragile e fangoso".
Già nel IX secolo, in alcune zone dal terreno più compatto, si incominciò a costruire anche con la pietra, materiali provenienti per lo più dagli edifici romani distrutti dalle orde barbariche nelle zone di Aquileia e Altino.
Le case erano a due piani: quello inferiore in argilla, più umido, destinato a deposito e quello superiore in legno, più asciutto, ad uso abitativo. Le finestre erano strette, con inferriate, e non era ancora evidente, nella struttura, la distinzione tra i vari ceti sociali.
Nei quattro secoli seguenti si delineò (seguendo un principio policentrico, per cui intorno ad un campo e ad una chiesa si sviluppava il tessuto urbano) l'intera struttura della città, e a fine Trecento Venezia aveva già pienamente raggiunto la sua conformazione e dimensione, non molto diversa da quella che vediamo oggi.
Per potersi sviluppare, la città ha dovuto strappare all'acqua il terreno su cui sorgere, rassodando con palafitte di legno o con strati di pietra gli isolotti situati nei luoghi maggiormente difendibili, tanto che il suo tessuto urbano ha assunto caratteristiche apparentemente casuali.
La laguna ha condizionato anche il gusto dei suoi abitanti, perché i rapporti spazio-colore e architettura-luce divennero fondamentali. L'architettura è misura e costruzione dello spazio, ma a Venezia lo spazio si trasformò in luce e colore.
E' facilmente intuibile come ambiente, clima e costume degli abitanti furono gli elementi che maggiormente condizionarono la realizzazione degli edifici pubblici e privati.
La prima accurata descrizione dell'ambiente lagunare è quella del prefetto romano Cassiodoro (VI secolo): "abitanti liberi e autonomi le cui risorse di vita sono la pesca e il sale, e le loro abitazioni sono per lo più di legno con tetto di paglia, materiali adatti ad un terreno fragile e fangoso".
Già nel IX secolo, in alcune zone dal terreno più compatto, si incominciò a costruire anche con la pietra, materiali provenienti per lo più dagli edifici romani distrutti dalle orde barbariche nelle zone di Aquileia e Altino.
Le case erano a due piani: quello inferiore in argilla, più umido, destinato a deposito e quello superiore in legno, più asciutto, ad uso abitativo. Le finestre erano strette, con inferriate, e non era ancora evidente, nella struttura, la distinzione tra i vari ceti sociali.
Nei quattro secoli seguenti si delineò (seguendo un principio policentrico, per cui intorno ad un campo e ad una chiesa si sviluppava il tessuto urbano) l'intera struttura della città, e a fine Trecento Venezia aveva già pienamente raggiunto la sua conformazione e dimensione, non molto diversa da quella che vediamo oggi.
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venerdì 11 marzo 2011
“Una cosa posso dirla: nella mia vita non ho visto una città più straordinaria di Venezia. È un vero incanto, uno splendore, una gioia della vita. Al posto delle strade e dei vicoli ci sono i canali, al posto dei postiglioni le gondole, l’architettura è fantastica, e non esistono posti che non suscitino un qualche interesse storico o artistico. Ti muovi in gondola e vedi Palazzo Ducale, la casa dove visse Desdemona, le abitazioni di pittori famosi, le chiese… E nelle chiese sculture e pitture che non ci siamo nemmeno mai sognati. Per farla breve, un incanto… L’uomo russo, povero e umile, qui, nel regno della bellezza, della ricchezza e della libertà, potrebbe impazzire. Si desidera restare qui per sempre, e quando in una chiesa ascolti l’organo vorresti farti cattolico, I sepolcri di Canova e Tiziano sono grandiosi. Qui i grandi artisti vengono seppelliti come i re, nelle chiese, qui non si disprezza l’arte, come da noi, le chiese danno rifugio alle statue e ai quadri, per quanto nudi siano”.
(Anton P. Čechov, 1891)
(Anton P. Čechov, 1891)
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lunedì 7 marzo 2011
Gastronomia veneto-bizantina (2° parte)
Oltre ai calici, i prodotti greci colmano anche i piatti di Venezia. Dall'Epiro arriva una pregiata bottarga che, macerata nell'olio e tagliata a fettine sottili, viene servita come antipasto. S'importa anche un salatissimo formaggio chiamato zimotò, di cui si ha memoria fino all'inizio del Novecento.
Si rifanno a Bisanzio altri due elementi doc della pratica culinaria lagunare: l'abitudine di irrorare i piatti d'olio (mentre le cucine europee si devono accontentare di burro e strutto) e l'uso dell'uvetta passa: quella di Corinto, piccola e scura, adatta per le preparazioni salate, e quella Sultanina, più dolce e adatta per i dessert. Entrambe utilizzate nelle torte nicolotte, nelle sarde e negli sfogeti in saor.
Secoli di rapporti conviviali possono essere riassunti nella figura di un teatrante gastronomo, Antonio Papadopoli, mezzo veneto e mezzo greco. Cordiale e disordinato, nonché ottima forchetta, l'attore-gourmet pubblica nel 1866 un libretto intitolato Gastronomia sperimentale, nel quale propone 12 piatti "aristocratici" e 12 piatti "democratici", tra questi la coda di bove alla greca, un melange di sapori veneto-grecheschi!
Quello che oggi rimane di secoli di scambi culinari sono: i sardoni ala greca, cotti in un delicato sughetto di limone aglio e prezzemolo; e una deliziosa torta secca di pasta sfoglia chiamata appunto la grega, ricoperta di un abbondante strato di mandorle
Si rifanno a Bisanzio altri due elementi doc della pratica culinaria lagunare: l'abitudine di irrorare i piatti d'olio (mentre le cucine europee si devono accontentare di burro e strutto) e l'uso dell'uvetta passa: quella di Corinto, piccola e scura, adatta per le preparazioni salate, e quella Sultanina, più dolce e adatta per i dessert. Entrambe utilizzate nelle torte nicolotte, nelle sarde e negli sfogeti in saor.
Secoli di rapporti conviviali possono essere riassunti nella figura di un teatrante gastronomo, Antonio Papadopoli, mezzo veneto e mezzo greco. Cordiale e disordinato, nonché ottima forchetta, l'attore-gourmet pubblica nel 1866 un libretto intitolato Gastronomia sperimentale, nel quale propone 12 piatti "aristocratici" e 12 piatti "democratici", tra questi la coda di bove alla greca, un melange di sapori veneto-grecheschi!
Quello che oggi rimane di secoli di scambi culinari sono: i sardoni ala greca, cotti in un delicato sughetto di limone aglio e prezzemolo; e una deliziosa torta secca di pasta sfoglia chiamata appunto la grega, ricoperta di un abbondante strato di mandorle
venerdì 4 marzo 2011
Gastronomia veneto-bizantina (1° parte)
Un incessante andirivieni di uomini e merci collega le sponde dell'Adriatico con quelle dell'Egeo: grano da Cipro, vino e olio da Creta, sale e uva passa da Cefalonia e Zante, sono i prodotti monopolistici trasportati con profitto dalla Serenissima.
Tranne qualche rara eccezione, nel contesto lagunare le imprese elleniche sono di dimensioni medio-piccole, tuttavia è molto ampio l'elenco delle merci trattate. Cotone, lane, tappeti, drappi fatti di pelo di capra chiamati cameloti, coperte di lana ruvida dette schiavine, sono apprezzati nelle case veneziane. Anche la cera è un prodotto importato dai greci. Quanto a grano, orzo, fave e semi di lino, riempiono i magazzini di una città che "non ara, non semina, non vendemmia" ma che trae risorse da ogni porto.
Un discorso a parte merita il vino, che a Venezia non è mai mancato. Chiuso in orci di terracotta da 30 litri, da Creta, da Cipro, dal Peloponneso, i mercanti greci trasportano i cosiddetti "vini navigati", che vengono speziati o addolciti con miele o melassa, per conservarli meglio. Di quest'antico metodo oggi rimane solo la bevanda tonificante dei freddi carnevali: il vin brulé, che si beve caldo con zucchero, cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
Ma il nettare di cui si fa più smercio è l'assai delicata malvasia (termine derivato dalla città greca Monemvassìa), che si divideva in dolce, tonda e garba, ed era tanto apprezzata da essere registrata nelle spese pubbliche. Come annotava lo storico Giuseppe Tassini: "di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi; e di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni".
Tranne qualche rara eccezione, nel contesto lagunare le imprese elleniche sono di dimensioni medio-piccole, tuttavia è molto ampio l'elenco delle merci trattate. Cotone, lane, tappeti, drappi fatti di pelo di capra chiamati cameloti, coperte di lana ruvida dette schiavine, sono apprezzati nelle case veneziane. Anche la cera è un prodotto importato dai greci. Quanto a grano, orzo, fave e semi di lino, riempiono i magazzini di una città che "non ara, non semina, non vendemmia" ma che trae risorse da ogni porto.
Un discorso a parte merita il vino, che a Venezia non è mai mancato. Chiuso in orci di terracotta da 30 litri, da Creta, da Cipro, dal Peloponneso, i mercanti greci trasportano i cosiddetti "vini navigati", che vengono speziati o addolciti con miele o melassa, per conservarli meglio. Di quest'antico metodo oggi rimane solo la bevanda tonificante dei freddi carnevali: il vin brulé, che si beve caldo con zucchero, cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
Ma il nettare di cui si fa più smercio è l'assai delicata malvasia (termine derivato dalla città greca Monemvassìa), che si divideva in dolce, tonda e garba, ed era tanto apprezzata da essere registrata nelle spese pubbliche. Come annotava lo storico Giuseppe Tassini: "di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi; e di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni".
mercoledì 2 marzo 2011
"No gh'è a sto mondo, no, cità più bela,
Venezia mia, de ti, per far l'amor.
No gh'è dona, né tosa, né putela
che resista al to incanto traditor.
Co' un fià de luna e un fià de bavesela
ti sa sfantar i scrupoli dal cuor.
Deventa ogni morosa in ti una stela
e par che i basi gabia più saor.
Venezia mia, ti xe la gran rufiana,
che ti ga tuto per far far pecai:
el mar, le cale sconte, i rii, l'altana,
la Piazza e i so colombi inamorai,
la gondola che fa la nina-nana...
fin i mussati che ve tien svegiai!"
(Riccardo Selvatico)
Venezia mia, de ti, per far l'amor.
No gh'è dona, né tosa, né putela
che resista al to incanto traditor.
Co' un fià de luna e un fià de bavesela
ti sa sfantar i scrupoli dal cuor.
Deventa ogni morosa in ti una stela
e par che i basi gabia più saor.
Venezia mia, ti xe la gran rufiana,
che ti ga tuto per far far pecai:
el mar, le cale sconte, i rii, l'altana,
la Piazza e i so colombi inamorai,
la gondola che fa la nina-nana...
fin i mussati che ve tien svegiai!"
(Riccardo Selvatico)
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martedì 1 marzo 2011
Scuola dei Tiraoro e Battioro
Addossata alla Chiesa di San Stae si trova la sede della Scuola (o Scoletta) dei Tiraoro e Battioro. La Scuola venne fondata nel 1420 ed aveva inizialmente sede ai Santi Filippo e Giacomo, poi nella Chiesa di San Lio, dove rimase fino al 1710 quando si trasferì a San Stae. L'edificio, in stile tardo barocco, è attribuito all'architetto Giacomo Gaspari, che aveva partecipato senza successo al concorso per la facciata della Chiesa di San Stae.
I tiraoro fabbricavano fili d'oro per la manifattura tessile, per l'abbigliamento e per l'oreficeria, mentre i battioro riducevano l'oro in lamine sottili per la decorazione di opere d'arte (ad esempio per la facciata della Ca' d'Oro sul Canal Grande, oggi sede del Museo Franchetti).
Anche se la materia trattata era preziosa, la Scuola non fu mai ricca e anzi contrasse molti debiti per la costruzione dell'edificio. Quando la Scuola fu soppressa nel periodo napoleonico portò poche entrate alle casse del governo francese, essendo in forte passivo.
Sotto il governo austriaco l'edificio fu venduto alla nobildonna Angela Barbarigo, la quale per volere testamentario desiderò che l'immobile divenisse luogo di culto, ma gli eredi provvidero diversamente: divenne infatti deposito di carbone!
Nel 1876, in condizioni più che precarie, l'edificio fu acquistato dall'antiquario Antonio Correr che lo restaurò per destinarlo a galleria espositiva, uso mantenuto ancora oggi.
I tiraoro fabbricavano fili d'oro per la manifattura tessile, per l'abbigliamento e per l'oreficeria, mentre i battioro riducevano l'oro in lamine sottili per la decorazione di opere d'arte (ad esempio per la facciata della Ca' d'Oro sul Canal Grande, oggi sede del Museo Franchetti).
Anche se la materia trattata era preziosa, la Scuola non fu mai ricca e anzi contrasse molti debiti per la costruzione dell'edificio. Quando la Scuola fu soppressa nel periodo napoleonico portò poche entrate alle casse del governo francese, essendo in forte passivo.
Sotto il governo austriaco l'edificio fu venduto alla nobildonna Angela Barbarigo, la quale per volere testamentario desiderò che l'immobile divenisse luogo di culto, ma gli eredi provvidero diversamente: divenne infatti deposito di carbone!
Nel 1876, in condizioni più che precarie, l'edificio fu acquistato dall'antiquario Antonio Correr che lo restaurò per destinarlo a galleria espositiva, uso mantenuto ancora oggi.
lunedì 28 febbraio 2011
Compleanno
Oggi è il mio compleanno, ne approfitto quindi per prendermi un giorno di riposo ;-)
Colgo l'occasione per ringraziare di cuore tutti i miei lettori, che lentamente ma costantemente crescono di giorno in giorno dandomi la forza di continuare a curare questo blog attraverso il quale cerco di trasmettere il mio amore per Venezia.
Grazie!
Colgo l'occasione per ringraziare di cuore tutti i miei lettori, che lentamente ma costantemente crescono di giorno in giorno dandomi la forza di continuare a curare questo blog attraverso il quale cerco di trasmettere il mio amore per Venezia.
Grazie!
venerdì 25 febbraio 2011
"Il carnevale ha assunto dimensioni grandiose. Una sciocchezza piccola è stupida, ma una grande sciocchezza può diventare meravigliosa, grandiosa. La ‘febbre’ delle maschere da normale è diventata altissima. Immagina le due piazze, un lungomare (il nostro, riva degli Schiavoni) e tutti gli annessi vicoli pieni di gente e di maschere, non si riesce a passare, nessuno si può muovere, ovunque grida, risate, ma niente di indecente, come a Parigi. Quest’ultimo particolare mi ha affascinato. Sono gente allegra, non il personale vestito in maschera di un bordello”
(Aleksandr I. Herzen, 1867)
(Aleksandr I. Herzen, 1867)
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