Nessun doge di Venezia, così come nessun'altra carica pubblica elettiva di alto e di altissimo livello ai tempi della Serenissima, percepiva alcun compenso per i servigi che rendeva allo Stato; servire la Repubblica era un dovere e un onore, e dare il meglio di sé per Venezia era quanto di migliore si potesse fare nella vita.
Anche per questo, in genere, il doge veniva eletto tra i nobili dotati di maggior patrimonio personale: essere a capo della Serenissima era infatti senz'altro un onore grandissimo, ma anche un onere fortissimo.
Il doge versava i contributi allo Stato alla pari di ogni altro nobile e non poteva essere omaggiato con il bacio della mano o con la genuflessione. Non poteva avere alcuna statua a lui dedicata: il culto della personalità era rigorosamente vietato, e in linea generale, per ogni decisione che riteneva di dover assumere - specialmente quelle importanti - subiva le attenzioni e le ingerenze della Signoria.
Il doge era una sorta di prigioniero a Palazzo Ducale: non poteva accrescere in alcun modo i poteri che gli erano stati conferiti; non poteva ricevere di sua iniziativa nessuno, in veste ufficiale, né spedire autonomamente lettere di Stato o riceverne. Non poteva fare donazioni, se non all'interno della sua stessa famiglia, e in ogni caso non poteva riceverne.
Non poteva più curare i suoi interessi mercantili ed economici (un po' quello che succede con il cosiddetto blind trust che viene applicato ai presidenti degli Stati Uniti) e ogni suo tentativo di influenza nelle nomine delle varie magistrature sarebbe stato oggetto delle cure delle Magistrature di Stato.
(Estratto dal nuovo libro di Alberto Toso Fei: "Forse non tutti sanno che a Venezia...")
giovedì 22 dicembre 2016
giovedì 26 maggio 2016
Francesco Petrarca a Venezia e le Corderie della Tana
Nell'estate
del 1362, da Padova, Francesco Petrarca avvia trattative con la
Repubblica di Venezia, queste le condizioni: Petrarca lascia in
eredità la sua biblioteca alla Repubblica, qualora la Repubblica gli
offra una casa in città.
Senza
intralci burocratici vien presa subito la decisione (abbiamo i
verbali della seduta del Maggior Consiglio, 4 settembre 1362), e
viene offerta al Petrarca una casa che gli piace moltissimo: il
palazzo Molin.
Chi conosce
un po' Venezia sa che ancora al giorno d'oggi di palazzi Molin ce ne
sono diversi. Quello dove viene a stare il Petrarca è un altro
ancora che non c'è più. Possiamo immaginarlo sulla Riva degli
Schiavoni. Venendo dal Palazzo Ducale, dopo il ponte della Paglia
(con vista sul passaggio aereo detto “dei sospiri”), dopo il
Danieli (grondante letteratura e pettegolezzi), dopo la chiesa della
Pietà (dove non suonò
mai Vivaldi), si scavalca il rio Sant'Antonin sul ponte del Sepolcro,
subito a sinistra il palazzo Navagero, poi sede del Presidio Militare
già caserma Aristide Cornoldi, già convento del Sepolcro. La casa
del Petrarca era qui (lapide).
Il Petrarca
ci lascerà opere in latino con la descrizione di quel che vede dalle
sue finestre. Una volta vengono ad ormeggiare proprio qui due navi
grandi come la casa, i loro alberi si ergono molto più in alto dei
tetti. Poi una notte, stanco ed assonnato, ha appena cominciato a
scrivere una lettera quando sente strepiti e grida. Sale di corsa in
cima a una delle due torri che ha la casa e vede che una delle due
navi sta salpando. Le stelle sono coperte dalle nubi, il vento scuote
la casa dalle fondamenta, il bacino di San Marco è tutto un tumulto,
ma la nave prende il largo. È carica di merci pesanti, gran parte
dello scafo è immersa, eppure la nave sembra una montagna
galleggiante. La nave, gli dicono, è diretta alle foci del Don.
Mentalmente il Petrarca le augura buon viaggio, e torna a finire la
lettera che stava scrivendo.
Cosa pensate
voi quando pensate al Don? Fiume russo, uno
dei più lunghi d'Europa. Allora però si
chiamava Tanai (dal
greco
Tánaïs,
dal nome della città di “Tana”). In quel sonetto, che nel
Canzoniere come lo conosciamo noi, porta il numero 148 inaugura la
tradizione di flatus
vocis
che durerà almeno fino ad Alessandro Manzoni: “scoppiò da Scilla
al Tànai / dall'uno all'altro mar”.
I
veneziani a Tana, lungo il fiume Tanai (oggi Don), ci andavano ad
acquistare la canapa (ma non solo), che poi avrebbero usato in una
grande area coperta dell'Arsenale, per fabbricare le corde per le
navi (ma non solo).
Lungo
i muri esterni delle Corderie
(edificio
a tre navate, con 84 colonne, avente una lunghezza di 316 metri),
troviamo calle
e campo
della Tana.
Per
inciso, della biblioteca di Petrarca a Venezia rimase ben poco e di
quel poco quasi nulla è sopravvissuto all'umidità...
”Quale
città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di
pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni
dove dalla tirrannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le
navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita. Città
ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di
virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile
concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta,
dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura”
(Francesco
Petrarca)
(fonte: G. Dossena)
(fonte: G. Dossena)
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mercoledì 16 marzo 2016
Gentile Bellini alla corte dell'Impero Ottomano
Durante il Rinascimento gli europei hanno un rapporto quasi schizofrenico con l'impero ottomano, da un lato temuto come la minaccia più spaventosa e dall'altro rispettato, ammirato e da qualcuno anche desiderato come modello sociale/politico alternativo rispetto all'intollerante e guerresco Occidente.
Ma anche gli Ottomani hanno un rapporto schizofrenico nei confronti dell'Europa, dove si uniscono da un lato il fascino e il desiderio di apprendere la loro tecnologia, e dall'altro la repulsione, il senso di superiorità indotto dalla fede islamica verso quei barbari dei cristiani.
La fascinazione per l'Occidente è legata in gran parte alle tecnologie occidentali, perché molto presto ci si rende conto che, anche se l'impero è perfettamente in grado di affrontare i cristiani alla pari sul campo di battaglia e ha una cultura altrettanto complessa, tuttavia ci sono tanti aspetti in cui l'Occidente ha un margine di superiorità. Basta guardare gli acquisti dei sultani, delle loro famiglie, delle loro donne, gli acquisti dei gran visir e dei pascià: c'è tutta una serie di merci che nel Cinquecento e nel Seicento gli ottomani sono costretti a comprare in Occidente, perché nel loro impero non si producono. Sono commerci che non si interrompono mai, e proseguono con estrema disinvoltura anche in tempo di guerra. Sultani e gran visir ordinano a Venezia occhiali, carte geografiche, orologi, vetri, lampade. Le lampade per le grandi moschee di Costantinopoli sono comprate a Venezia, perché nessuno produce vetri come quelli che si fanno qui.
Ci sono anche consumi voluttuari che rendono i turchi dipendenti dall'Occidente: per esempio a Costantinopoli è di gran moda il formaggio parmigiano, che però a quell'epoca si chiamava "piacentino".
Quando la figlia del sultano Solimano, Mihrimah, decide di offrire un nuovo acquedotto per la Mecca, per dare da bere ai pellegrini, gli attrezzi per i lavori li deve ordinare in Occidente, perché nell'impero nessuno sa produrre acciaio di così buona qualità.
Succede perfino che quando sta per scoppiare la guerra tra Venezia e gli Ottomani (è la guerra che poi porterà alla battaglia di Lepanto), il comandante della flotta imperiale turca, il kapudan pascià, abbia la faccia tosta di andare dall'ambasciatore veneziano per comprare dei fanali dai mercanti veneziani da mettere sulla sua galera!
Del resto la flotta del sultano era fornita di cannoni fabbricati con la consulenza di tecnici occidentali.
L'impero ottomano compensava questa sua arretratezza tecnologica con altri punti di forza, culturali, sociali e politici, ma non c'è dubbio che abbiano sempre percepito il fatto che vi erano degli aspetti in cui i barbari occidentali, misteriosamente, per volere di Dio, avevano un margine di superiorità.
Un esempio straordinario di questa fascinazione contraddittoria, è rappresentato dalle arti figurative. La civiltà occidentale nel Medioevo e ancor più nel Rinascimento, punta moltissimo sulla pittura e sulle arti figurative in genere, sia sul piano comunicativo sia della conoscenza della realtà che ci circonda.
Il mondo islamico invece ha un rapporto molto più difficile con le arti figurative, perché in teoria, se si dovessero ascoltare i dettami della legge islamica, raffigurare degli esseri viventi è un atto di empietà: significa riprodurre qualcosa che Dio ha creato e di cui lui solo è il padrone. Per cui solo il miscredente cristiano può pensare di rappresentare Dio con la barba bianca e non rendersi conto che sta commettendo un atto vergognoso nei suoi confronti.
Tuttavia i turchi musulmani sanno benissimo che i barbari occidentali hanno inventato delle tecniche di pittura straordinarie, e ne sono affascinati.
Non è forse un caso che il sultano che più di tutti si è interessato alla pittura europea, sia proprio quello straordinario personaggio che è Maometto II il Conquistatore, il quale chiama a Costantinopoli (in questa città che lui sta trasformando di nuovo in una grande capitale mondiale) dei pittori rinascimentali, tra cui Gentile Bellini da Venezia, il quale esegue il suo ritratto.
Questo quadro esiste ancora oggi (o almeno la critica lo riconosce come tale) e rappresenta la fisionomia turca di Maometto II, con la sua barbetta a punta.
Alla morte del sultano, il successore Beyazit II, che è un pio musulmano, trova vergognosa la faccenda del ritratto e lo fa vendere al bazar.
Il quadro poi andrà perso e, dopo chissà quali peripezie, ritrovato (oggi si trova a Londra), ma quel che è certo è che a Costantinopoli non ne seguirà alcuna tradizione pittorica.
(fonte: A. Barbero)
Ma anche gli Ottomani hanno un rapporto schizofrenico nei confronti dell'Europa, dove si uniscono da un lato il fascino e il desiderio di apprendere la loro tecnologia, e dall'altro la repulsione, il senso di superiorità indotto dalla fede islamica verso quei barbari dei cristiani.
La fascinazione per l'Occidente è legata in gran parte alle tecnologie occidentali, perché molto presto ci si rende conto che, anche se l'impero è perfettamente in grado di affrontare i cristiani alla pari sul campo di battaglia e ha una cultura altrettanto complessa, tuttavia ci sono tanti aspetti in cui l'Occidente ha un margine di superiorità. Basta guardare gli acquisti dei sultani, delle loro famiglie, delle loro donne, gli acquisti dei gran visir e dei pascià: c'è tutta una serie di merci che nel Cinquecento e nel Seicento gli ottomani sono costretti a comprare in Occidente, perché nel loro impero non si producono. Sono commerci che non si interrompono mai, e proseguono con estrema disinvoltura anche in tempo di guerra. Sultani e gran visir ordinano a Venezia occhiali, carte geografiche, orologi, vetri, lampade. Le lampade per le grandi moschee di Costantinopoli sono comprate a Venezia, perché nessuno produce vetri come quelli che si fanno qui.
Ci sono anche consumi voluttuari che rendono i turchi dipendenti dall'Occidente: per esempio a Costantinopoli è di gran moda il formaggio parmigiano, che però a quell'epoca si chiamava "piacentino".
Quando la figlia del sultano Solimano, Mihrimah, decide di offrire un nuovo acquedotto per la Mecca, per dare da bere ai pellegrini, gli attrezzi per i lavori li deve ordinare in Occidente, perché nell'impero nessuno sa produrre acciaio di così buona qualità.
Succede perfino che quando sta per scoppiare la guerra tra Venezia e gli Ottomani (è la guerra che poi porterà alla battaglia di Lepanto), il comandante della flotta imperiale turca, il kapudan pascià, abbia la faccia tosta di andare dall'ambasciatore veneziano per comprare dei fanali dai mercanti veneziani da mettere sulla sua galera!
Del resto la flotta del sultano era fornita di cannoni fabbricati con la consulenza di tecnici occidentali.
L'impero ottomano compensava questa sua arretratezza tecnologica con altri punti di forza, culturali, sociali e politici, ma non c'è dubbio che abbiano sempre percepito il fatto che vi erano degli aspetti in cui i barbari occidentali, misteriosamente, per volere di Dio, avevano un margine di superiorità.
Un esempio straordinario di questa fascinazione contraddittoria, è rappresentato dalle arti figurative. La civiltà occidentale nel Medioevo e ancor più nel Rinascimento, punta moltissimo sulla pittura e sulle arti figurative in genere, sia sul piano comunicativo sia della conoscenza della realtà che ci circonda.
Il mondo islamico invece ha un rapporto molto più difficile con le arti figurative, perché in teoria, se si dovessero ascoltare i dettami della legge islamica, raffigurare degli esseri viventi è un atto di empietà: significa riprodurre qualcosa che Dio ha creato e di cui lui solo è il padrone. Per cui solo il miscredente cristiano può pensare di rappresentare Dio con la barba bianca e non rendersi conto che sta commettendo un atto vergognoso nei suoi confronti.
Tuttavia i turchi musulmani sanno benissimo che i barbari occidentali hanno inventato delle tecniche di pittura straordinarie, e ne sono affascinati.
Non è forse un caso che il sultano che più di tutti si è interessato alla pittura europea, sia proprio quello straordinario personaggio che è Maometto II il Conquistatore, il quale chiama a Costantinopoli (in questa città che lui sta trasformando di nuovo in una grande capitale mondiale) dei pittori rinascimentali, tra cui Gentile Bellini da Venezia, il quale esegue il suo ritratto.
Questo quadro esiste ancora oggi (o almeno la critica lo riconosce come tale) e rappresenta la fisionomia turca di Maometto II, con la sua barbetta a punta.
Alla morte del sultano, il successore Beyazit II, che è un pio musulmano, trova vergognosa la faccenda del ritratto e lo fa vendere al bazar.
Il quadro poi andrà perso e, dopo chissà quali peripezie, ritrovato (oggi si trova a Londra), ma quel che è certo è che a Costantinopoli non ne seguirà alcuna tradizione pittorica.
(fonte: A. Barbero)
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lunedì 7 marzo 2016
Il Doge Andrea Gritti e il rinnovamento politico culturale veneziano.
Nel
1523 viene eletto doge Andrea Gritti. Questa data segna l’inizio di
un breve, ma estremamente significativo periodo di riforme per la
città di Venezia ed il suo territorio.
Il
nuovo Doge, l’eroe di Padova e della riconquista dei territori
veneziani ai tempi della lega di Cambrai, apre un’importante stagione di cambiamenti nell’amministrazione della Serenissima, che
investe moltissimi settori dello stato.
Dal
punto di vista economico, si registra una serie di riforme mirate
alla razionalizzazione amministrativa ed affiancate da un’innovativa
riorganizzazione del credito bancario. Nel 1526, con il divieto agli
uffici pubblici di accettare qualsiasi divisa straniera, si attua
un’unificazione monetaria all’interno dei territori veneti, dove
precedentemente, le città soggette alla Serenissima utilizzavano
ancora conii locali.
Due
le importanti novità in campo economico introdotte nel 1528: la
prima consiste nell’utilizzo, per la prima volta nella storia,
della partita doppia nell’amministrazione pubblica: efficacissimo
contributo di natura pratica suggerito dal grande matematico italiano
amico di Leonardo da Vinci, Luca Pacioli.
Il
secondo, innovativo provvedimento del 1528 vede la Zecca dello stato
veneziano cambiare intimamente la sua natura e funzione. Da cassa di
deposito dei prestiti obbligatori allo stato, legati alla decima e al
catasto, è trasformata in banca di stato nella quale chiunque, anche
forestiero, può effettuare depositi ad interesse, in cambio di
ricevute trasferibili.
Un
altro settore statale, oggetto di tentativi riformistici interessanti
per quanto destinati all’insuccesso, è quello del diritto, nella
cosiddetta “renovatio
legis”
Già all’inizio
del suo dogado il Gritti è fortemente orientato alla riforma del
sistema giuridico veneziano; di antica fondazione e basato per lo più
sull’arbitrio dei magistrati, la cui libertà interpretativa delle
leggi è estremamente ampia. L’idea è quella di una riforma
radicale dello Statuto, per una maggior razionalizzazione del sistema
giudiziario, ad un tempo troppo poco rigoroso e mal codificato. È
significativo che, nonostante la revisione giudiziaria sia tentata
dal Gritti per l’intero corso del suo dogado, essa non vedrà mai
una realizzazione. La resistenza della nobiltà veneziana a questa,
come ad altre riforme è di natura conservatrice.
Da una parte infatti
la nuova codificazione avrebbe reso il giudice un “tecnico del
diritto”: si sarebbe in qualche modo negata la peculiarità del
patriziato veneziano, che tradizionalmente ricopriva, per brevi
periodi, le più diverse cariche pubbliche. Dall’altra, è
ipotizzabile che la riforma del diritto mirasse a un rafforzamento
dell’oligarchia, in linea con l’orientamento del Gritti, cosa
anch’essa temuta dalla media e piccola nobiltà.
Questa opposizione
era immagine di quel conflitto sotterraneo tra “Vecchio Mondo” e
“Nuovo Mondo” che sarà elemento costante di tutto il dogado
grittiano.
Un
altro aspetto cruciale, per quanto riguarda le novità introdotte
nell’‘era grittiana’, è la ‘renovatio
rei militaris’,
affidata dal Gritti al Capitano generale della Serenissima, Francesco
Maria della Rovere, amico personale del Doge.
A
pochi anni dalle ombre di Cambrai, quando Gritti stesso, prima di
essere investito della carica di Doge, aveva dovuto misurare sul
campo i limiti dell’organizzazione militare veneziana sulla
terraferma, era impossibile non rendersi conto della debolezza della
Serenissima sui campi di battaglia. E anche in questo settore la
ricetta dell’entourage
grittiano è la stessa: rinnovamento, razionalità e innovazione
tecnica volte ad una maggiore efficienza.
Il territorio della
Serenissima viene allora interamente coinvolto in un progetto che lo
trasforma in un unico organismo difensivo, nel quale ogni roccaforte,
ogni città, ogni collina sono sfruttate o ripensate secondo le loro
potenzialità strategiche intrinseche e in relazione con gli altri
elementi della unificante “macchina difensiva”. Venezia, in modo
machiavellico, trovatasi scoperta dalla “pelle del leone”, ormai
troppo ristretta, sceglie di proteggere le parti più fortemente
esposte cucendoci sopra la “pelle della volpe” dell’ingegno
tecnologico.
Un’altro
episodio estremamente interessante, per cogliere il clima culturale,
oserei dire rivoluzionario, di questa breve ma significativa stagione
veneziana, è la famosa vicenda di Vettor Fausto. Letterato umanista,
il Fausto è il promotore di un progetto, presentato al Doge Gritti
nel 1525, che mira a “...introdurre nell’Arsenale [...] scientia
fondata
su methodus
e litterae”.
In pratica egli propone al Doge un progetto di una quinquereme,
ricostruita attraverso la compenetrazione tra lo studio filologico
dei testi latini e la conoscenza dell’architettura navale. E anche
in questo campo i sogni di innovazione tecnologica dei “grittiani”
si scontrano con le resistenze di ampie porzioni del patriziato
veneto, sempre spaventato dalla minaccia che degli “specialisti del
settore” lo possano scalzare dal suo tradizionale controllo sulle
istituzioni veneziane.
Tuttavia,
diversamente da quello che sarà l’esito negativo delle riforme
legislative, in questo caso il progetto di Vettor Fausto registra una
serie di successi. In primo luogo, già nel 1526, nonostante le forti
opposizioni, Vettor Fausto ottiene uno
squero nell’Arsenale,
dove costruire la quinquereme romana, che sarà varata nel 1529.
Il 23 maggio dello
stesso anno ha luogo, di fronte alle rive di San Francesco della
Vigna, il collaudo dell’imponente nave, che gareggia contro una più
esile galera, vincendo la gara a dispetto del suo maggior
dislocamento. Il Bembo, entusiasta, scrive che, grazie all’impresa
di Vettor Fausto “non si potrà più dire a niun di loro [gli
umanisti] come per addietro si solea: va e statti nello scrittoio e
nelle tue lettere”.
Il Doge, vedendo la
vittoria del “nuovo-antico” sul vecchio, scoppia addirittura in
lacrime di gioia.
L’età grittiana è
quindi estremamente carica di fermenti culturali. Nel contesto
veneziano degli anni 20-30 del Cinquecento, il Rinascimento sembra
così fare un salto di qualità significativo. Se prima infatti gli
umanisti rinascimentali erano inclini ad un rapporto stretto con il
potere, ma sempre da una posizione esterna ad esso, ora nella
Serenissima comincia a delinearsi un diverso ruolo per l’uomo di
scienza e di lettere. Egli sembra chiamato ad entrare all’interno
del meccanismo del potere istituzionale, per poterlo razionalizzare,
per rendere più rapidi ed efficaci i suoi meccanismi, per
aggiungergliene di nuovi.
Persa la partita sul
piano della forza, Venezia cerca di gettare le basi di una sua
vittoria futura, attraverso la celebrazione del matrimonio tra sapere
e potere, chiamando gli umanisti alla cura della cosa pubblica.
E poiché i
matrimoni, per generare figli legittimi, devono essere pubblici,
viene affidato al Sansovino il compito di tracciare il segno
eloquente di questa unione. E nel 1537 iniziano quindi i lavori di
costruzione della Biblioteca Marciana. Nella zona della città
deputata alla gestione del potere, da esibire alle rappresentanze
diplomatiche, in cui sono organizzati e si svolgono i riti civili e
della patria. Per la prima volta una biblioteca di stato entra, e in
una posizione di estremo rilievo, all’interno dell’autocelebrazione
del potere. L’edificio, che custodirà i testi del Petrarca e la
biblioteca platonica del Bessarione, è posto di fronte al Palazzo
Ducale, nel cuore politico della città.
(fonte: F. Merlo)
(fonte: F. Merlo)
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martedì 5 gennaio 2016
Venezia e la letteratura italiana
A Venezia nel marzo 1505 Aldo Manuzio stampa Gli Asolani di Pietro Bembo. Sono dialoghi in prosa, in tre giornate, nel giardino della ex regina di Cipro, Caterina Corner, a Asolo.
I dialoghi di Asolo si svolgono fra tre giovani e tre donne. Parlano dell'amore da tre punti di vista. L'amore fa soffrire ("amore senza amaro, non si puote"). L'amore è fonte di gioia. L'amore è desiderio di vera bellezza, e la bellezza "non è altro che una grazia che di proporzione e di convenienza nasce e d'armonia delle cose"; anzi la vera bellezza è quella divina.
Siamo così ad una manifestazione di amor "platonico". Chi si interessa a queste cose ritroverà un personaggio chiamato Pietro Bembo che parla di amor platonico nel Cortegiano di Baldassar Castiglione.
Qui negli Asolani c'è qualcosa di più dei discorsi sull'amore; i dialoganti citano o recitano volta per volta poesie composte da loro stessi (cioè da Pietro Bembo).
Gli Asolani sono il manifesto del bembismo, o meglio del "petrarchismo bembesco". Fissato col Canzoniere aldino del 1501 il criterio linguistico e stilistico, Gli Asolani fissano i criteri di gusto, ideologici, antropologici della poesia. Il Bembo indica nel Petrarca (che aveva soggiornato a Venezia dal 1362 al 1367) un ideale di vita e di amori, oltre che di poesia e di lingua. Tale vita, tali amori, vanno imitati.
Questa operazione 1501-1505 di Manuzio-Bembo ha un successo immediato, ampio, profondo. Il modo di poetare, la lingua, gli ideali di vita e di amori così propugnati resteranno più o meno validi in tutt'Italia per tre secoli almeno, con gli opportuni adattamenti regionali.
Dopo Petrarca pochi han potuto scrivere senza subirne l'influsso. La lingua, lo stile, la vita, gli amori del Petrarca mettono rami lunghi che arrivano per esempio a Giusto dei Conti e a Matteo Maria Boiardo.
Con il Canzoniere aldino nasce una certa unità d'Italia, con gli Asolani l'unità si consolida.
I seguaci del petrarchismo bembesco sono uguali in tutt'Italia. Può avere senso raggrupparli in area veneta e lombarda, area tosco-romana, area meridionale: ma quello che conta è proprio il fatto inverso, unitario, per cui si scrive nello stesso modo dalla valle del Sinni a Casale Monferrato.
Nell'uniformità del mucchio, ovviamente, se qualcosa si distingue sono i particolari biografici. Massimo interesse suscitano i particolari biografici delle poetesse (nessuna stagione della letteratura italiana ha tante poetesse come questa).
Vittoria Colonna è una gran dama (ritratta da Sebastiano del Piombo e da Michelangelo, con cui intrecciò un lungo rapporto di amicizia); è una vera signora anche Veronica Gambara (scrive della bellezza di Brescia, poi sale un po' nella nostra considerazione perché va a Correggio). La padovana Gaspara Stampa è di famiglia nobile ma fa la cantante e la cortigiana. L'altra padovana, Isabella Adreini, fa l'attrice. La romana Tullia d'Aragona è cortigiana ma viene dispensata dal portare il velo giallo per meriti poetici. La veneziana Veronica Franco è cortigiana senza dispense, e sulla sua professionalità sappiamo tante cose...
Tra questi poeti e poetesse nessuno è esente da un certo petrarchismo bembesco. Nei casi più estremi questi poeti non scrivono ma trascrivono. Prendono pari pari parole e frasi, emistichi e versi del Petrarca. Chi studia queste cose vi dirà, per esempio, che in due canzoni di Pietro Bembo (totale 136 versi) ci sono solo 8 parole che non hanno riscontro nel Petrarca. E andava a memoria...
Il petrarchismo bembesco è un movimento sociale serio. Guai a chi non riesce ad inserirsi.
Il veneziano Antonio Brocardo è amico di Pietro Bembo, e scrive come Pietro Bembo comanda. Poi entra in polemica col maestro, e tutti gli danno addosso con una tale ferocia che Antonio Brocardo muore di crepacuore.
C'è chi per lealtà vuole strafare: il veneziano Celio Magno scrive una canzone petrarchesca bembesca intitolata Deus che sembra sia la più lunga della letteratura italiana.
Asolo (sdrucciolo, àsolo) è al giorno d'oggi un comune in provincia di Treviso. Il castello di Asolo, in gran parte demolito nel 1820, era il palazzo pretorio, riservato ai podestà veneziani. Venuto a morte nel 1473 Giacomo II di Lusignano, re di Cipro, la Serenissima costringe la vedova, Caterina Cornaro, ad abdicare a suo (della Serenissima) favore (1479), pagandole una pensione e dandole la signoria di Asolo. La vedova vive in questo castello.
Caterina è un donnone tizianesco (il ritratto agli Uffizi è di Tiziano e bottega), e sta qui con dodici damigelle, un nano nero chiamato Zavir con funzioni di giullare, e ottanta giovanotti con funzioni varie. Morirà nel 1510.
Alcuni dicono che nel castello di Asolo si fanno feste meravigliose, ma è dubbio, aggiungono, che vi si accolgano letterati e artisti a dialogare sull'amor platonico. Pietro Bembo può essere tra gli ospiti perché è parente della padrona di casa e ha fama di uomo di mondo.
Leggere su un'enciclopedia le voci dedicate ai Cornaro dà poco sugo. Di palazzi Corner, Venezia è piena. Il più famoso è progettato dal Sansovino per uno Jacopo Corner nipote di Caterina.
Affascinanti invece le voci che le enciclopedie dedicano ai Lusignano. Il castello di Lusignan nel Poitou risale al principio del IX secolo. Si sono proprio estinti con Giacomo II nel 1473. Quando Marcel Proust fa dire a uno dei suoi Guermantes "noi discendiamo in linea diretta dai Lusignano", scherza.
Insoddisfacente, generica la descrizione del giardino che dà il Bembo negli Asolani. Ad ogni buon conto il poeta inglese Robert Browning distruggerà il giardino per farcisi costruire una villa.
Pochi sono i ricordi di Caterina Cornaro che può scovare in Asolo il turista al giorno d'oggi. Al fantasma della regina di Cipro si è sovraimpresso quello dell'attrice Eleonora Duse, qui sepolta. Ma era morta a Pittsburgh (Pennsylvania), nel 1924. Era nata nel 1858 a Vigevano.
I dialoghi di Asolo si svolgono fra tre giovani e tre donne. Parlano dell'amore da tre punti di vista. L'amore fa soffrire ("amore senza amaro, non si puote"). L'amore è fonte di gioia. L'amore è desiderio di vera bellezza, e la bellezza "non è altro che una grazia che di proporzione e di convenienza nasce e d'armonia delle cose"; anzi la vera bellezza è quella divina.
Siamo così ad una manifestazione di amor "platonico". Chi si interessa a queste cose ritroverà un personaggio chiamato Pietro Bembo che parla di amor platonico nel Cortegiano di Baldassar Castiglione.
Qui negli Asolani c'è qualcosa di più dei discorsi sull'amore; i dialoganti citano o recitano volta per volta poesie composte da loro stessi (cioè da Pietro Bembo).
Gli Asolani sono il manifesto del bembismo, o meglio del "petrarchismo bembesco". Fissato col Canzoniere aldino del 1501 il criterio linguistico e stilistico, Gli Asolani fissano i criteri di gusto, ideologici, antropologici della poesia. Il Bembo indica nel Petrarca (che aveva soggiornato a Venezia dal 1362 al 1367) un ideale di vita e di amori, oltre che di poesia e di lingua. Tale vita, tali amori, vanno imitati.
Questa operazione 1501-1505 di Manuzio-Bembo ha un successo immediato, ampio, profondo. Il modo di poetare, la lingua, gli ideali di vita e di amori così propugnati resteranno più o meno validi in tutt'Italia per tre secoli almeno, con gli opportuni adattamenti regionali.
Dopo Petrarca pochi han potuto scrivere senza subirne l'influsso. La lingua, lo stile, la vita, gli amori del Petrarca mettono rami lunghi che arrivano per esempio a Giusto dei Conti e a Matteo Maria Boiardo.
Con il Canzoniere aldino nasce una certa unità d'Italia, con gli Asolani l'unità si consolida.
I seguaci del petrarchismo bembesco sono uguali in tutt'Italia. Può avere senso raggrupparli in area veneta e lombarda, area tosco-romana, area meridionale: ma quello che conta è proprio il fatto inverso, unitario, per cui si scrive nello stesso modo dalla valle del Sinni a Casale Monferrato.
Nell'uniformità del mucchio, ovviamente, se qualcosa si distingue sono i particolari biografici. Massimo interesse suscitano i particolari biografici delle poetesse (nessuna stagione della letteratura italiana ha tante poetesse come questa).
Vittoria Colonna è una gran dama (ritratta da Sebastiano del Piombo e da Michelangelo, con cui intrecciò un lungo rapporto di amicizia); è una vera signora anche Veronica Gambara (scrive della bellezza di Brescia, poi sale un po' nella nostra considerazione perché va a Correggio). La padovana Gaspara Stampa è di famiglia nobile ma fa la cantante e la cortigiana. L'altra padovana, Isabella Adreini, fa l'attrice. La romana Tullia d'Aragona è cortigiana ma viene dispensata dal portare il velo giallo per meriti poetici. La veneziana Veronica Franco è cortigiana senza dispense, e sulla sua professionalità sappiamo tante cose...
Tra questi poeti e poetesse nessuno è esente da un certo petrarchismo bembesco. Nei casi più estremi questi poeti non scrivono ma trascrivono. Prendono pari pari parole e frasi, emistichi e versi del Petrarca. Chi studia queste cose vi dirà, per esempio, che in due canzoni di Pietro Bembo (totale 136 versi) ci sono solo 8 parole che non hanno riscontro nel Petrarca. E andava a memoria...
Il petrarchismo bembesco è un movimento sociale serio. Guai a chi non riesce ad inserirsi.
Il veneziano Antonio Brocardo è amico di Pietro Bembo, e scrive come Pietro Bembo comanda. Poi entra in polemica col maestro, e tutti gli danno addosso con una tale ferocia che Antonio Brocardo muore di crepacuore.
C'è chi per lealtà vuole strafare: il veneziano Celio Magno scrive una canzone petrarchesca bembesca intitolata Deus che sembra sia la più lunga della letteratura italiana.
Asolo (sdrucciolo, àsolo) è al giorno d'oggi un comune in provincia di Treviso. Il castello di Asolo, in gran parte demolito nel 1820, era il palazzo pretorio, riservato ai podestà veneziani. Venuto a morte nel 1473 Giacomo II di Lusignano, re di Cipro, la Serenissima costringe la vedova, Caterina Cornaro, ad abdicare a suo (della Serenissima) favore (1479), pagandole una pensione e dandole la signoria di Asolo. La vedova vive in questo castello.
Caterina è un donnone tizianesco (il ritratto agli Uffizi è di Tiziano e bottega), e sta qui con dodici damigelle, un nano nero chiamato Zavir con funzioni di giullare, e ottanta giovanotti con funzioni varie. Morirà nel 1510.
Alcuni dicono che nel castello di Asolo si fanno feste meravigliose, ma è dubbio, aggiungono, che vi si accolgano letterati e artisti a dialogare sull'amor platonico. Pietro Bembo può essere tra gli ospiti perché è parente della padrona di casa e ha fama di uomo di mondo.
Leggere su un'enciclopedia le voci dedicate ai Cornaro dà poco sugo. Di palazzi Corner, Venezia è piena. Il più famoso è progettato dal Sansovino per uno Jacopo Corner nipote di Caterina.
Affascinanti invece le voci che le enciclopedie dedicano ai Lusignano. Il castello di Lusignan nel Poitou risale al principio del IX secolo. Si sono proprio estinti con Giacomo II nel 1473. Quando Marcel Proust fa dire a uno dei suoi Guermantes "noi discendiamo in linea diretta dai Lusignano", scherza.
Insoddisfacente, generica la descrizione del giardino che dà il Bembo negli Asolani. Ad ogni buon conto il poeta inglese Robert Browning distruggerà il giardino per farcisi costruire una villa.
Pochi sono i ricordi di Caterina Cornaro che può scovare in Asolo il turista al giorno d'oggi. Al fantasma della regina di Cipro si è sovraimpresso quello dell'attrice Eleonora Duse, qui sepolta. Ma era morta a Pittsburgh (Pennsylvania), nel 1924. Era nata nel 1858 a Vigevano.
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martedì 13 ottobre 2015
La Venexiana
A Venezia verso il 1536 in
un circolo privato si rappresenta una commedia intitolata La
Venexiana, che non vuol dire “la donna di Venezia” (i
personaggi principali sono due donne veneziane), bensì “la commedia
ambientata a Venezia” (come La
Cortigiana di Pietro Aretino non vuol dire “la meretrice
d'alto bordo” o “la donna di palazzo”, bensì “la commedia
ambientata a corte”).
Non si sa chi sia l'autore
(o l'autrice).
E' certo che è stata
scritta espressamente per la rappresentazione teatrale.
Viene rappresentata una
volta sola, per un pubblico esclusivamente maschile.
Gli attori sono tutti
uomini.
Due donne, Anzola (Angela)
e Valiera (Valeria) si contendono l'amore di un giovane soldato di
ventura lombardo, Giulio, venuto a Venezia a cercar fortuna. Anzola è
vedova da poco. Valiera, più giovane, è sposata ad un vecchio.
Entrambe hanno una serva. Parlano tutte in veneziano, Giulio parla un
italiano lezioso. Un facchino parla bergamasco.
Le due donne stanno in due
case vicine a quello che ancora oggi si chiama campo San Barnaba. Ci
sono altre precisazioni topografiche: San Marco, Rialto, calle di
Gallipoli che dà sul campo dei Frari.
Si è potuto precisare che
le due donne sono di due rami della famiglia Valier. Anzola è vedova
di un Marco Barbarigo, capo del Consiglio dei Dieci, Valiera ha
sposato un Giacomo Semitecolo, “Avogador di Comun”
(all'Avvocatura di Stato competono tra l'altro i delitti d'onore e
gli adulteri). Valiera ha una sorella, Laura, sposata ad un
Berbarigo, cognata quindi di Anzola.
Queste minuzie
contribuiscono al colore locale e ci aiutano a capire che la commedia
ha un tono diffamatorio, piccatamente libellistico, nel gusto di
Pietro Aretino (che è arrivato a Venezia nel 1527, e in questo
anno 1536 è ben vivo – morirà qui nel 1556).
La sensualità delle due
donne, che dà nel torbido, è a metà strada tra l'eleganza di
Leonardo Giustinian e gli eccessi di Maffio Venier.
E' facile dire che La
Veneixiana è la più bella commedia d'area veneta del
Cinquecento. I confronti con le commedie di Pietro Aretino e di
Angelo Beolco sono appropriati. Si può anche dire che La Veneixiana
è la più bella commedia italiana del Cinquecento, ma prima di far
graduatorie su scale di merito è opportuno sentire su scala
geografica la lontananza delle aree in cui nascono le commedie
ferraresi di Ludovico Ariosto e le commedie fiorentine di Niccolò
Macchiavelli.
La Veneixiana, dopo
la sua prima e unica rappresentazione cinquecentesca, viene poi
dimenticata, e riscoperta e pubblicata solo nel 1928.
Gli studi hanno fatto
notevoli progressi negli ultimi decenni, eppure, o forse proprio per
questo, si resta col sospetto che nell'area veneziana ci sia ancora
da scavare e da scoprire, e che sia opportuno vederla come un'area
lontana da altre, più ricca di altre, da considerare in una
prospettiva di maggior autonomia letteraria.
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domenica 30 agosto 2015
Viaggio a Venezia, 1914
Les valises dans la gondole,
qu'elle prenait la main de son mari : — Tu as eu raison, dit-elle. On en peut varier a l'infini l'occasion,
le vertige spontané qui saisit le voyageur
débarquant à Venise reste toujours de cette qualité-là. Instantanément tout a disparu.
Plus de souvenirs, plus de soucis, plus rien de la vie qui s'interpose.
L'ivresse est immédiate, totale et profonde.
On est pris, entraîné, arraché à la terre, enlevé sur des ailes — on a soi-même des ailes ; les coussins si doux de la gondole semblent des nuages sur lesquels on repose.
Demain? Nous verrons bien, il sera temps encore.
Mais soyons heureux, grisons-nous, glissons comme on court dans les rêves,
balançons-nous dans la souple barque noire comme on se berce au son des valses.
Et les palais défilent le long du canal, ainsi qu'au théâtre la toile roulée,
et qui simule un paysage traversé par un héros en marche.
Un monde irréel s'offre à nous ; pour la première fois, l'impossible est arrivé. Tendons les mains pour le saisir!
Et il ne s'enfuit pas, il ne s'évanouit pas en fumée ; notre étreinte le serre ;
nous le tenons, le touchons, le caressons, il est à nous enfin.
(André Maurel)
Le valigie in gondola, lei prese la mano del marito: - Avevi ragione, disse. Si può cambiare l'occasione all'infinito, ma la vertigine spontanea
che coglie il viaggiatore quando sbarca a Venezia, rimane di questa qualità.
Immediatamente tutto scompare. Niente ricordi, niente preoccupazioni,
nulla della vita che si interpone.
L'ubriachezza è immediata, totale e profonda.
Si è catturati, trascinati, strappati dalla terra, sollevati da ali - abbiamo in noi stessi le ali; i cuscini morbidi della gondola
sembrano nubi su cui riposare. Domani? Vedremo, ci sarà tempo.
Ma cerchiamo di essere felici, noi così grigi, scivolando
come si corre nei sogni, ondeggiando nella morbida barca nera
come cullandosi a suon di valzer.
E i palazzi che sfilano lungo il canale, come una tappezzeria teatrale
che simula un paesaggio attraversato da un eroe in cammino.
Un mondo irreale si offre a noi; per la prima volta,
l'impossibile è accaduto. Tendiamo le mani per afferrarlo! Non fugge, non svanisce come fumo, il nostro abbraccio lo trattiene; lo tocchiamo, lo accarezziamo,
finalmente è nostro.
("Quindici giorni a Venezia", André Maurel)
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venerdì 24 luglio 2015
La voga alla veneta
Ci fa obbligo soffermarci, seppur brevemente, per sottolineare la nobiltà della voga alla veneta, che si differenzia da quella praticata in tutte le altre città di mare del mondo.
Già la posizione eretta e non seduta conferisce un'immagine di fierezza sconosciuta nelle altre realtà marine.
Se poi consideriamo la gondola, imbarcazione che incarna perfettamente questo concetto, non troviamo nessun natante che le si possa solo avvicinare per sviluppo tecnologico. Tredici essenze di legno diverse concorrono alla realizzazioni di questa magnifica barca, lunga circa 11 metri e costruita con forma asimmetrica per consentire una perfetta manovrabilità anche governandola da soli.
Prendiamo le forcole, gli scalmi dei nostri remi, sembrano meravigliose sculture che non trovano nessun paragone nelle altre culture marine.
Si può ben dire che la potenza della Serenissima si fondasse oltre che su uno spregiudicato spirito mercantile, sulle braccia delle su genti che, non bisogna dimenticarlo, fino al sedicesimo secolo vogavano nelle galee per libera scelta.
Potenti braccia avevano i nostri isolani che trasportavano le varie merci da una parte all'altra della laguna spingendo sui remi delle loro barche.
Chissà se erano giunte in città notizie circa Camus de Lorraine, geniale meccanico che costruiva automi per il re di Francia e che, nel primo Settecento, nel porto di Tolosa, sperimentò un gigantesco remo meccanico in grado di muovere grandi battelli in condizioni di acque calme. Nonostante il buon esito non fu incoraggiato dal suo sovrano e finì in miseria ramingo per l'Europa.
Non passò da Venezia, forse temeva di fare una brutta fine nella mani dei gondolieri!
Questi esosi rematori restituiscono l'incanto dell'esser trasportati per il canali della città accompagnati dallo sciabordio del remo.
Ci si domanda se, come era in uso in tutte le grandi città d'Europa per i portantini e i codega nel XVII secolo, anche i gondolieri portassero alla cintura la clessidra per valutare le proprie prestazioni.
Oggi, nella motorizzazione generale, oltre ai gondolieri, restano gruppi di appassionati che si raccolgono nelle associazioni sportive remiere, dove è anche possibile prendere lezioni di voga veneta, perpetuando quindi una tradizione millenaria.
(Fonte: Navigar in laguna. Fuga e Vianello. Edito da Mare di Carta)
Già la posizione eretta e non seduta conferisce un'immagine di fierezza sconosciuta nelle altre realtà marine.
Se poi consideriamo la gondola, imbarcazione che incarna perfettamente questo concetto, non troviamo nessun natante che le si possa solo avvicinare per sviluppo tecnologico. Tredici essenze di legno diverse concorrono alla realizzazioni di questa magnifica barca, lunga circa 11 metri e costruita con forma asimmetrica per consentire una perfetta manovrabilità anche governandola da soli.
Prendiamo le forcole, gli scalmi dei nostri remi, sembrano meravigliose sculture che non trovano nessun paragone nelle altre culture marine.
Si può ben dire che la potenza della Serenissima si fondasse oltre che su uno spregiudicato spirito mercantile, sulle braccia delle su genti che, non bisogna dimenticarlo, fino al sedicesimo secolo vogavano nelle galee per libera scelta.
Potenti braccia avevano i nostri isolani che trasportavano le varie merci da una parte all'altra della laguna spingendo sui remi delle loro barche.
Chissà se erano giunte in città notizie circa Camus de Lorraine, geniale meccanico che costruiva automi per il re di Francia e che, nel primo Settecento, nel porto di Tolosa, sperimentò un gigantesco remo meccanico in grado di muovere grandi battelli in condizioni di acque calme. Nonostante il buon esito non fu incoraggiato dal suo sovrano e finì in miseria ramingo per l'Europa.
Non passò da Venezia, forse temeva di fare una brutta fine nella mani dei gondolieri!
Questi esosi rematori restituiscono l'incanto dell'esser trasportati per il canali della città accompagnati dallo sciabordio del remo.
Ci si domanda se, come era in uso in tutte le grandi città d'Europa per i portantini e i codega nel XVII secolo, anche i gondolieri portassero alla cintura la clessidra per valutare le proprie prestazioni.
Oggi, nella motorizzazione generale, oltre ai gondolieri, restano gruppi di appassionati che si raccolgono nelle associazioni sportive remiere, dove è anche possibile prendere lezioni di voga veneta, perpetuando quindi una tradizione millenaria.
(Fonte: Navigar in laguna. Fuga e Vianello. Edito da Mare di Carta)
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venerdì 19 giugno 2015
Venezia è una regata
Ho fantasticato molto
leggendo il libro “Venezia è una regata”. Ho fantasticato in
lungo e in largo nello spazio: ho immaginato di tracciare dentro e
intorno a Venezia, tutti i percorsi delle innumerevoli regate, e li
ho immaginati simultaneamente, decine e decine di linee in movimento,
tracciati, flussi, come una specie di circolazione sanguigna che
solca l'organismo in cui la città è immersa, irrorando e
ossigenando la sua vita.
Le regate sono simboli
attivi, una pratica necessaria tanto quanto la manutenzione urbana,
il restauro degli edifici, lo scavo del fondale fangoso dei rii. Le
regate svolgono un compito di manutenzione della comunità, di tutte
le comunità sparse fra il centro e le isole della laguna.
L'esperienza della voga veneta non ha molti eguali. E' difficile da confrontare con qualcos'altro.
Apparentemente si potrebbe paragonare alla bicicletta, in fin dei
conti, anche in quel caso il pilota è allo stesso tempo il carico e
il motore del mezzo di trasporto. Ma in barca, vogando alla veneta,
si sta in piedi, si avanza da fermi a forza di braccia. Le gambe non
camminano, non pedalano, Danno anche loro una spinta, sì, ma
puntellandosi senza fare un passo. Sono le braccia a far muovere
tutto, e in avanti, non all'indietro come nella voga all'inglese. Ci
si getta in avanti con le mani e le braccia, quasi abbozzando la fase
iniziale di un tuffo.
Vogando all'inglese, la
forza motrice corporea si ottiene raccogliendo le braccia al torace,
richiamandole a sé. Nella voga alla veneziana si fa il contrario, si
allontanano le braccia, via, con tutta la forza. E' un doppio pugno
sferrato al mondo che ottiene l'effetto di attraversarlo scorrendoci
sopra.
E' un gesto fossile, che
viene da epoche lontane, ma che è ancora vivo e in buona salute.
Una necessità quotidiana
che trovava e continua a trovare nella regata la sua festa, la sua
forma assoluta, il suo fasto svincolato da scopi pratici ancora in
vigore, come traghettare passeggeri da una riva all'altra del Canal
Grande o portare in giro i turisti.
(dalla prefazione di
Tiziano Scarpa – libro edito da San Marco Press Ltd e Supernova
edizioni srl)
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domenica 26 aprile 2015
Pietro Aretino, il cortigiano letterato nella Venezia del Cinquecento
Arriva a Roma nel 1517 un
uomo di venticinque anni, nato ad Arezzo. Non s'è mai saputo il nome
del padre e non ci ha mai tenuto neanche lui a saperlo. L'han
battezzato Pietro, e si fa chiamare Aretino dal nome della città
natale. Passa l'adolescenza a Perugia, dove probabilmente fa buoni
studi, ma non studi latini. Un letterato italiano che non sa il
latino. Digiuno di educazione umanistica.
Fa il pittore, poi smette.
Comincia a scrivere, poi smette.
A Roma non trova un
protettore, cerca di farsi largo scrivendo cose varie: conquista una
buona notorietà scrivendo delle pasquinate tra il 1521 e il 1522.
Le pasquinate dell'Aretino
sono eccellenti, perché l'Aretino ha grandi doti di scrittore
satirico; ma solo a Roma si ha questa occasione di scrivere cose da
appiccicare alla statua di Pasquino.
Con il nuovo papa Adriano
VI, l'Aretino non sente tirare aria buona e se ne va in giro tra
Bologna, Arezzo, Firenze, Mantova, Reggio nell'Emilia; ora comincia
ad avere dei protettori: il cardinale Giulio de' Medici, il capitano
di ventura Giovanni dalle Bande Nere.
Torna a Roma nel 1523.
Comincia ad essere sulla trentina e fa un passo avanti: dopo le
pasquinate che gli avevano dato i primi successi, si butta sul filone
erotico.
L'erotismo, nella
letteratura italiana di questi anni, non è merce né rara né
clandestina. Ma Pietro Aretino fa qualcosa di più, come chi faccia
fumetti o fotoromanzi anziché racconti: parte da una base di
erotismo figurativo. Scrive sedici sonetti a commento di sedici
incisioni che Marcantonio Raimondi ha cavato da sedici figure di
Giulio Romano. Suoi coetanei, suoi amici.
Questi sonetti sono noti
con il titolo di Sonetti lussuriosi
o Le Posizioni o
I Modi.
Il secondo titolo fa capire che costituiscono un piccolo Kama-sutra.
Sapete
tutti che il Kama-sutra
(“aforismi sull'amore”) è un trattato scritto in sanscrito fra il
IV e il VII secolo dc, attribuito a Vatsyayana, e rientra nella
letteratura religiosa indiana facendo del Kama,
amore fisico, uno dei tre fini dell'esistenza.
Mentre
del Kama-sutra
tutti parlano tranquillamente, c'è ancora qualcuno che parla con
qualche imbarazzo dei Modi
dell'Aretino. Forse gli fa senso che siano scritti nella sua lingua
materna. Alcuni libri di Storia della letteratura italiana non fanno
menzione di questa opera di Pietro Aretino.
Chi
vuol seguire il filone erotico nella storia della letteratura
italiana trova i Modi
dell'Aretino un poco freddi in confronto a certe poesie di Maffio
Venier (Venezia,
1550 – 1586)
o del grande Giorgio Baffo (Venezia,
1694 – 1768).
Anche
nella disinvolta Roma di questi anni, i Modi
fanno
comunque scandalo. Un vescovo lo fa accoltellare il 28 luglio 1525.
Questo vescovo si chiama Gian Matteo Giberti (certi suoi scritti
avranno peso sulle decisioni del Concilio di Trento).
Dello
stesso anno è la prima redazione di una commedia, La
Cortigiana,
che Pietro Aretino completerà e stamperà solo in seguito. E' il
rovescio degli ideali del Cortegiano
di
Baldassar Castiglione, che circola in questi anni, manoscritto.
Dunque Pietro Aretino non vola solo nei cieli astratti
dell'erotismo, ma si impiglia anche in questioni ideologiche che
toccano i fondamenti della società dell'epoca. Così le coltellate
si spiegano un po' meglio.
Come
nel 1517 aveva dovuto lasciare Roma per colpa delle pasquinate, così
per colpa dei Modi
e
della Cortigiana
e forse di qualcos'altro che non sappiamo, Pietro Aretino deve
nuovamente lasciare Roma.
Arriva
a Venezia nel marzo del 1527. Ha trentacinque anni. Si sistema bene,
con la protezione di potenti patrizi e impianta una dinamica attività
editoriale con vari stampatori, tra cui Francesco Marcolini (della
cui moglie diventerà amante).
Questo
Marcolini stampa anche libri musicali con tipi mobili secondo un
sistema di sua invenzione.
Pietro
Aretino per primo riconosce nella stampa uno strumento economico e
politico, E' il primo manager dell'industria culturale.
Fa
stampare opere proprie, scrive opere proprie in funzione della loro
pubblicazione a stampa, e scrive cose diverse a seconda dei momenti,
cercando di indovinare i gusti del pubblico e tenendo conto dell'aria
che tira a livello politico.
Le
cose che scrive Pietro Aretino vanno dalla letteratura erotica a
quella religiosa o agiografica. Tocca tutte le forme: sonetti e versi
vari, commedie, tragedie, poemi cavallereschi, dialoghi, lettere.
Per
le lettere, inventa qualcosa di nuovo: raccoglie in volumi lettere
che scrive e lettere che riceve, come un editorialista d'oggi. E' una
corrispondenza che coinvolge tutti i personaggi illustri del suo
tempo, papi, imperatori e re. Pietro Aretino definisce se stesso
“segretario del mondo”. Ludovico Ariosto lo definisce “flagello
dei principi”, perché sa adulare ma anche minacciare e ricattare
personaggi come Francesco I e Carlo V.
Nel
campo delle arti conosce tutti e intrattiene rapporti eccellenti con
Tiziano, che gli fa un ritratto spettacoloso (agli Uffizi di
Firenze). Pietro Aretino ha gusti precisi ed è bravissimo a
descrivere opere d'arte. Bisognerà arrivare a Giovan Battista Marino
(nel Seicento) per trovare cose simili, ma l'Aretino è più bravo.
La
casa di Pietro Aretino a Venezia è un centro di potere. E' una casa
bella, luminosa, allegra, piena di donne e di figli di Pietro Aretino
e di amici fidati, che entrano ed escono, come entra ed esce, a
fiumi, il denaro.
La
casa sta sul Canal Grande, fra rio di San Grisostomo e rio dei Santi
Apostoli; dalle finestre si vede il ponte di Rialto, non quello che
vediamo noi oggi, che sarà costruito tra il 1588 e il 1592; ma
quello in legno che si vede nel celebre dipinto di Vittore Carpaccio
(alle Gallerie dell'Accademia).
Pietro
Aretino, vede, quando si affaccia alla finestra:
mille
persone e altrettante gondole su l'hora dei mercati. Le piazze del
mio occhio dritto sono le beccarie e la pescaria, e il campo del
mancino, il ponte e il fondaco dei Tedeschi, a l'incontro di tutti e
due ho il Rialto, calcato d'huomini da faccende. Sonvi le vigne ne i
burchi, le caccie e l'uccellagioni nelle botteghe, gli orti nello
spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a
l'alba miro l'acqua coperta d'ogni ragion di cosa, che si trova nelle
sue stagioni.
Nel
1551 trasloca a Palazzo Dandolo, sempre sul Canal Grande (poco
lontano da Palazzo Bembo, dove abita Pietro Bembo).
Il
rio che bagna un lato della sua casa, vien detto “rio de l'Aretino”
e le donne che transitano a casa sua, per piacere o per dovere, si
fan chiamare “le Aretine”.
Secondo
una leggenda a palazzo Dandolo Pietro Aretino tanto ride per una
storia che gli son venuti a raccontare sulle sue sorelle, ospiti di
un bordello di Arezzo, tanto e tanto ride che casca dalla seggiola e
muore.
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