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domenica 26 aprile 2015

Pietro Aretino, il cortigiano letterato nella Venezia del Cinquecento

Arriva a Roma nel 1517 un uomo di venticinque anni, nato ad Arezzo. Non s'è mai saputo il nome del padre e non ci ha mai tenuto neanche lui a saperlo. L'han battezzato Pietro, e si fa chiamare Aretino dal nome della città natale. Passa l'adolescenza a Perugia, dove probabilmente fa buoni studi, ma non studi latini. Un letterato italiano che non sa il latino. Digiuno di educazione umanistica.

Fa il pittore, poi smette. Comincia a scrivere, poi smette.
A Roma non trova un protettore, cerca di farsi largo scrivendo cose varie: conquista una buona notorietà scrivendo delle pasquinate tra il 1521 e il 1522.
Le pasquinate dell'Aretino sono eccellenti, perché l'Aretino ha grandi doti di scrittore satirico; ma solo a Roma si ha questa occasione di scrivere cose da appiccicare alla statua di Pasquino.
Con il nuovo papa Adriano VI, l'Aretino non sente tirare aria buona e se ne va in giro tra Bologna, Arezzo, Firenze, Mantova, Reggio nell'Emilia; ora comincia ad avere dei protettori: il cardinale Giulio de' Medici, il capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere.
Torna a Roma nel 1523. Comincia ad essere sulla trentina e fa un passo avanti: dopo le pasquinate che gli avevano dato i primi successi, si butta sul filone erotico.
L'erotismo, nella letteratura italiana di questi anni, non è merce né rara né clandestina. Ma Pietro Aretino fa qualcosa di più, come chi faccia fumetti o fotoromanzi anziché racconti: parte da una base di erotismo figurativo. Scrive sedici sonetti a commento di sedici incisioni che Marcantonio Raimondi ha cavato da sedici figure di Giulio Romano. Suoi coetanei, suoi amici.
Questi sonetti sono noti con il titolo di Sonetti lussuriosi o Le Posizioni o I Modi. Il secondo titolo fa capire che costituiscono un piccolo Kama-sutra.
Sapete tutti che il Kama-sutra (“aforismi sull'amore”) è un trattato scritto in sanscrito fra il IV e il VII secolo dc, attribuito a Vatsyayana, e rientra nella letteratura religiosa indiana facendo del Kama, amore fisico, uno dei tre fini dell'esistenza.
Mentre del Kama-sutra tutti parlano tranquillamente, c'è ancora qualcuno che parla con qualche imbarazzo dei Modi dell'Aretino. Forse gli fa senso che siano scritti nella sua lingua materna. Alcuni libri di Storia della letteratura italiana non fanno menzione di questa opera di Pietro Aretino.
Chi vuol seguire il filone erotico nella storia della letteratura italiana trova i Modi dell'Aretino un poco freddi in confronto a certe poesie di Maffio Venier (Venezia, 1550 – 1586) o del grande Giorgio Baffo (Venezia, 1694 – 1768).
Anche nella disinvolta Roma di questi anni, i Modi fanno comunque scandalo. Un vescovo lo fa accoltellare il 28 luglio 1525. Questo vescovo si chiama Gian Matteo Giberti (certi suoi scritti avranno peso sulle decisioni del Concilio di Trento).
Dello stesso anno è la prima redazione di una commedia, La Cortigiana, che Pietro Aretino completerà e stamperà solo in seguito. E' il rovescio degli ideali del Cortegiano di Baldassar Castiglione, che circola in questi anni, manoscritto.
Dunque Pietro Aretino non vola solo nei cieli astratti dell'erotismo, ma si impiglia anche in questioni ideologiche che toccano i fondamenti della società dell'epoca. Così le coltellate si spiegano un po' meglio.
Come nel 1517 aveva dovuto lasciare Roma per colpa delle pasquinate, così per colpa dei Modi e della Cortigiana e forse di qualcos'altro che non sappiamo, Pietro Aretino deve nuovamente lasciare Roma.
Arriva a Venezia nel marzo del 1527. Ha trentacinque anni. Si sistema bene, con la protezione di potenti patrizi e impianta una dinamica attività editoriale con vari stampatori, tra cui Francesco Marcolini (della cui moglie diventerà amante).
Questo Marcolini stampa anche libri musicali con tipi mobili secondo un sistema di sua invenzione.
Pietro Aretino per primo riconosce nella stampa uno strumento economico e politico, E' il primo manager dell'industria culturale.
Fa stampare opere proprie, scrive opere proprie in funzione della loro pubblicazione a stampa, e scrive cose diverse a seconda dei momenti, cercando di indovinare i gusti del pubblico e tenendo conto dell'aria che tira a livello politico.
Le cose che scrive Pietro Aretino vanno dalla letteratura erotica a quella religiosa o agiografica. Tocca tutte le forme: sonetti e versi vari, commedie, tragedie, poemi cavallereschi, dialoghi, lettere.
Per le lettere, inventa qualcosa di nuovo: raccoglie in volumi lettere che scrive e lettere che riceve, come un editorialista d'oggi. E' una corrispondenza che coinvolge tutti i personaggi illustri del suo tempo, papi, imperatori e re. Pietro Aretino definisce se stesso “segretario del mondo”. Ludovico Ariosto lo definisce “flagello dei principi”, perché sa adulare ma anche minacciare e ricattare personaggi come Francesco I e Carlo V.
Nel campo delle arti conosce tutti e intrattiene rapporti eccellenti con Tiziano, che gli fa un ritratto spettacoloso (agli Uffizi di Firenze). Pietro Aretino ha gusti precisi ed è bravissimo a descrivere opere d'arte. Bisognerà arrivare a Giovan Battista Marino (nel Seicento) per trovare cose simili, ma l'Aretino è più bravo.
La casa di Pietro Aretino a Venezia è un centro di potere. E' una casa bella, luminosa, allegra, piena di donne e di figli di Pietro Aretino e di amici fidati, che entrano ed escono, come entra ed esce, a fiumi, il denaro.
La casa sta sul Canal Grande, fra rio di San Grisostomo e rio dei Santi Apostoli; dalle finestre si vede il ponte di Rialto, non quello che vediamo noi oggi, che sarà costruito tra il 1588 e il 1592; ma quello in legno che si vede nel celebre dipinto di Vittore Carpaccio (alle Gallerie dell'Accademia).
Pietro Aretino, vede, quando si affaccia alla finestra:
mille persone e altrettante gondole su l'hora dei mercati. Le piazze del mio occhio dritto sono le beccarie e la pescaria, e il campo del mancino, il ponte e il fondaco dei Tedeschi, a l'incontro di tutti e due ho il Rialto, calcato d'huomini da faccende. Sonvi le vigne ne i burchi, le caccie e l'uccellagioni nelle botteghe, gli orti nello spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a l'alba miro l'acqua coperta d'ogni ragion di cosa, che si trova nelle sue stagioni.
Nel 1551 trasloca a Palazzo Dandolo, sempre sul Canal Grande (poco lontano da Palazzo Bembo, dove abita Pietro Bembo).
Il rio che bagna un lato della sua casa, vien detto “rio de l'Aretino” e le donne che transitano a casa sua, per piacere o per dovere, si fan chiamare “le Aretine”.
Secondo una leggenda a palazzo Dandolo Pietro Aretino tanto ride per una storia che gli son venuti a raccontare sulle sue sorelle, ospiti di un bordello di Arezzo, tanto e tanto ride che casca dalla seggiola e muore.



sabato 17 gennaio 2015

Ermolao Barbaro e la cultura pragmatica veneziana

Nel 1484, Ermolao Barbaro crea a Padova il primo orto botanico d'Italia.
Questo è solo un episodio nell'attività di un personaggio multiforme, attorno al quale di possono accennare i tratti salienti di una nuova cultura, con tendenze più scientifiche che letterarie, anzi, proprio pragmatiche e tecniche.
Il patriziato colto a Venezia non è un circolo accademico come nella Firenze medicea; o accademico-curiale come nella Roma pontificia; o cancelleresco-cortigiano come nella Milano viscontea-sforzesca o nella Napoli aragonese. E' invece un gruppo, attraverso le generazioni, di persone autorevoli, indipendenti moralmente e materialmente, che subordinano la loro attività di lettori e scrittori al servizio dello Stato, dedicando ai libri il tempo che risparmiano nell'attività politico-amministrativa e nelle missioni diplomatiche.
Ermolao Barbaro, figlio e nipote di personaggi di questo tipo, nasce a Venezia nel 1453, e fin da ragazzo intreccia ottimi studi a viaggi col padre, ambasciatore di Venezia a Napoli, a Milano e a Roma.
Entrato ben presto nelle massime magistrature di Venezia, è anche professore a Padova.
Coetaneo del Poliziano, ha con lui rapporti amichevoli e distesi, un poco più polemici ma di stima con Giovanni Pico della Mirandola.
Se a spanne, la cultura della Firenze medicea è “platonizzante”, Ermolao Barbaro studia piuttosto Aristotele e Plinio il Vecchio, e può considerarsi uno scienziato, un precursore del metodo sperimentale (almeno, tale lo considereranno Linneo e Leibniz).
Se si considera Ermolao Barbaro come un “umanista esclusivo” e si sfogliano certe sue opere piuttosto che altre, è impossibile rendersi conto della sua importanza; l'importanza stessa dell'intera cultura veneziana è difficile da cogliere in una prospettiva fiorentino-centrica come quella che la storia italiana ha ancora in gran parte al giorno d'oggi.
E' giusto sapere che sarà allievo di Ermolao Barbaro un certo Pietro Bembo.
Gli anni del Barbaro sono gli anni dei Bellini, di Carpaccio, di Giorgione,
Il quadro del Giorgione, I tre filosofi, mostra un giovane che dà le spalle a due gravi personaggi con barba e turbante (rappresentanti del pensiero greco ed arabo) e volge lo sguardo verso una grotta. Quel giovane è Ermolao Barbaro.



sabato 23 agosto 2014

Francesco Guardi, non solo vedutismo

Francesco Guardi (Venezia, 1712 - 1793) si formò artisticamente nella bottega di famiglia, condotta dal fratello maggiore Giovanni Antonio fino al 1760, anno della morte di quest'ultimo.
Gran parte delle opere di quel periodo sono di difficile attribuzione, in quanto frutto della collaborazione fra i due.
Le opere di Francesco rivelano tuttavia una maggiore propensione al paesaggio e ai suoi valori atmosferici. Le sue opere di vedutista risentono inizialmente sia dei capricci di Marco Ricci, sia delle luminose prospettive del Canaletto, ma ben presto Francesco si libererà dell'influenza dei due grandi maestri per un vedutismo dal tocco rapido e guizzante, spesso indicato come anticipatore di metriche impressioniste, e che rivela una costruzione distorta e a volte allucinata delle figure, di un espressionismo accentuato e con una struttura anticonvenzionale del dipinto stesso.
La sua fase tarda conosce diverse ma coerenti esperienze: nel gennaio 1782 gli arciduchi russi Paolo Petrovic e Maria Teodorovna, chiamati Conti del Nord, visitano Venezia, onorati con festeggiamenti pubblici e Guardi ottiene dal governo veneziano di ricordare l'avvenimento in sei tele. Il processo di costruzione della forma per via puramente cromatica è evidente in tutte le opere tarde, come nell'Incendio degli olii a San Marcuola, che rievoca un dramma realmente avvenuto il 29 dicembre 1789 attraverso animati accenti di cromatismo magico.
Pittore prolifico continua a realizzare capolavori anche in età estrema come la Regata sul Canal Grande davanti Palazzo Mocenigo della Trezza vibrante e luminosa ripresa del passaggio delle gondole in gara davanti all'Ambasciata di Francia, datata 1791.
Francesco Guardi muore il primo gennaio 1793 nella sua casa veneziana di Cannaregio, in campiello de la Madonna.
"Nel gelo dei primi giorni del 1793 un corteo funebre attraversa il campo della Madonna delle Grazie a San Cancian. Dalle Fondamente Nuove, nell'atmosfera umida e opaca, le isole della laguna, i campanili, le cupole, sono contorni appena accennati; il limite tra acqua e cielo si perde in un orizzonte grigio. I lugubri rintocchi del requiem sono per Francesco Guardi, il pittore ottantenne divenuto celebre per le sue vedute della città, spesso appena abbozzate, accennate. proprio come accade nella luce malcerta e triste di questa mattina d'inverno. Sotto i mantelli neri, coloro che partecipano alla modesta cerimonia rabbrividiscono, ma non solo per il freddo di gennaio. Molti sanno che è morto l'ultimo grande pittore della Serenissima; forse qualcuno intuisce che anche l'antica Repubblica sta ormai agonizzando".
(Stefano Zuffi)


giovedì 19 giugno 2014

Francesco Hayez, un romantico veneziano

Francesco Hayez nacque a Venezia, nella parrocchia di Santa Maria Mater Domini il 10 febbraio 1791. La sua famiglia era molto povera e venne allevato da uno zio, che lo avviò alla pittura (avendone manifestata una forte propensione fin da fanciullo).
Nel 1806 venne accettato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo insegnante era Teodoro Matteini, pittore preromantico, famoso come ritrattista, parzialmente influenzato dalla pittura inglese contemporanea.
Nel 1809 partecipa ad un concorso e vince una borsa di studio a Roma, dove viene accolto da Canova. il quale lo indirizza allo studio dei classici del passato. Francesco Hayez a Roma vive come in un bosco incantato.
Stringe amicizia anche con Ingres, che all'epoca era già piuttosto celebrato, ma lo batterà qualche anno più tardi alla competizione dell'Accademia di San Luca. dove vincerà il suo primo premio.
Nel 1820 il suo dipinto Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, presentato a Brera, diventerà una sorta di manifesto del nuovo stile Romantico italiano. Grazie a questa e alle seguenti opere, Hayez entra a far parte dei più importanti pittori che cercavano di liberarsi dai classicismi per illustrare temi storici e letterali legati al movimento contemporaneo del Risorgimento. 
All'età di quarantanni Hayez è pittore affermato e riconosciuto. 
Si stabilisce stabilmente a Milano dove apre un grande studio e diventa amico di Manzoni e Rossini.
Oltre alle opere di carattere storico, Hayez diventa famoso per alcuni dipinti più intimistici, a volte tendenti alla retorica, come il celebre Bacio del 1859. Ma ci lascia anche alcune lucide introspettive e rigorosi e perfetti ritratti, come quello di Gioacchino Rossini del 1870.  
I suoi ritratti femminili sono tra le più alte espressioni della pittura del diciannovesimo secolo.
Muore a Milano nel 1882.
A Venezia una targa ricorda la sua casa natia in Corte Rota, nel sestiere di Santa Croce.

(fonte: Aldo Andreolo)
 

lunedì 23 luglio 2012

Palazzo Barbaro e Palazzo Loredan

Su Campo Santo Stefano s'affacciano due interessanti palazzi.
Al civico 2947 troviamo Palazzo Barbaro, cinquecentesco, la cui facciata era ornata di affreschi attribuiti a Sante Zago, che assieme a Tintoretto fu uno dei più ferventi frescanti d'esterni veneziani. La famiglia Barbaro era originaria di Roma e prima di arrivare a Venezia, passo per l'Istria e Trieste. Fu così chiamata perché si narra che un certo Marco, mentre combatteva in Terra Santa nel 1221 a fianco del Doge Domenico Michiel strappò ai barbari il vessillo di San Marco.
Adiacente a Palazzo Barbaro si trova Palazzo Loredan. Originariamente era di proprietà dei Mocenigo e verso il rio esistono ancora resti della primitiva struttura gotica. Nel 1536 fu acquistato dai Loredan che lo ricostruirono secondo la moda del tempo, affidandone l'esecuzione allo Scarpagnino. La facciata sul Campo, semplice nella sua struttura architettonica, era stata affrescata da Giuseppe Salviati e dallo stesso Sante Zago che aveva operato a Palazzo Barbaro. Le dipinture rappresentavano virtù, grottesche, festoni e storie di Lucrezia, Clelia e Muzio Scevola.
In un secondo tempo il Palazzo fu ampliato sulla destra, con l'aggiunta di una sala da ballo; essa ebbe una propria facciata che rievoca, nel suo aspetto, lo stile del Palladio.
Nel 1809 Palazzo Loredan fu alloggio del generale d'Illiers, primo governatore francese di Venezia. Con la dominazione austriaca divenne il Comando di Città e un posto di guarda stazionava perennemente all'esterno. Sulla casa di fronte è stata posta una lapide in onore di Felice Cavallotti (Milano, 1842). Eletto deputato nel 1873, divenne portavoce di Garibaldi in Parlamento. Oltre che politico, fu anche poeta, drammaturgo, giornalista e audace spadaccino. Morì infatti a Roma nel 1898, in un duello con il deputato Ferruccio Macola, direttore della "Gazzetta di Venezia".

venerdì 18 novembre 2011

Breve riassunto della storia artistica a Venezia

Venezia tende ad essere in ritardo di circa mezzo secolo rispetto al resto dell'Europa nel passare da uno stile artistico all'altro.
Ecco una classificazione molto semplificata:
- Lo stile Bizantino (maggior monumento la Basilica di San Marco) predomina fino a tutto il Duecento; fatto comprensibile in una città fortemente legata a Costantinopoli. Il Romanico vi si affianca piuttosto timidamente.
- Nel Trecento si passa al Gotico (maggior monumento il Palazzo Ducale) che predomina per tutto il Quattrocento, con sviluppi particolarmente felici
- Il Cinquecento è il secolo del Rinascimento, le cui prime opere (la Chiesa dei Miracoli e la statua equestre di Colleoni), nonché quelle del maggior architetto, Mauro Codussi, hanno un vero carattere rinascimentale, ma rapidamente sopravviene il Manierismo delle opere di Sansovino e di Palladio. Egualmente ispirati al Manierismo i tre maggiori pittori del secolo: Tiziano, Tintoretto e Veronese.
- Venezia sembra lieta nel Seicento di ritrovare nel Barocco uno stile più conforme al proprio gusto del teatrale (Chiesa della Salute di Longhena), e poi indulgere nel Rococò del Settecento (massimo esponente: Tiepolo)
- Nei suoi ultimi decenni la Serenissima si specchia nei dipinti eleganti di Canaletto, Guardi e Longhi.
- Il Seicento fu anche il grande secolo della musica a Venezia, con i Gabrieli, Monteverdi, Albinoni, Vivaldi e Benedetto Marcello, mentre nel Settecento emerge il genio di Carlo Goldoni.
- Alla fine del Settecento viene completato il Teatro della Fenice. I teatri privati veneziani, fra i primi teatri coperti d'Europa, ebbero enorme successo anche nel secolo seguente. Maggior artista figurativo: Antonio Canova.

domenica 9 ottobre 2011

Tiepolo Giambattista, ragazzo di Castello

Una targa nell'appartata calle che costeggia l'alberato Viale Garibaldi ricorda i natali di un figlio prediletto di Castello, che chiuse i suoi giorni nel 1770 presso la corte di Spagna, tra le dorature e gli stucchi del Palazzo Reale che, ormai ultrasettantenne, era stato chiamato ad affrescare.
La venezianità a tutto tondo di Tiepolo è attestata tuttavia da una presenza costante, paragonabile solo a quella di Tintoretto, presso le chiese della città.
Un percorso sulle tracce di Tiepolo a Venezia non può prescindere da questi luoghi:
- Chiesa degli Scalzi: ospitava un affresco sul tema della Casa di Loreto, perduto in seguito ad un bombardamento austriaco nel 1915; nella Cappella del Redentore si può invece ancora apprezzare la monocromia del Cristo nell'orto degli ulivi (1732); di un Tiepolo meno maturo sopravvive la volta della cappella dedicata a Santa Teresa d'Avila, che è rappresentata con gli occhi bassi, in preghiera, non in estasi dunque
- Chiesa di San Stae: Martirio di San Bartolomeo (1722), opera di formazione, sotto l'influenza del Piazzetta, chiaroscuro drammatico
- Chiesa di San Polo: Apparizione della Vergine a San Giovanni Nepomuceno (1754), martire boemo del Trecento, canonizzato nel 1729; la pala venne commissionata all'artista dal re di Polonia Augusto III che aveva donato alla chiesa le reliquie del santo
- Chiesa della Fava: Educazione della Vergine (1732)
- Basilica di San Marco, sacrestia: Adorazione del Bambino (1732), intima e calda come la precedente; la pala però viene esposta solo a Natale
- Chiesa della Pietà: affresco al centro della navata Incoronazione della Vergine e Celebrazione della Musica (1755) e le Virtù teologali e David
- Chiesa di San Francesco della Vigna: decorazione della Cappella Sagredo
- Chiesa di Santa Maria dei Derelitti (Ospedaletto): ciclo degli Apostoli e il Sacrificio di Isacco (1724), ancora un violento chiaroscuro alla maniera del Piazzetta
- Chiesa dei Santi Apostoli: Comunione di Santa Lucia, con in primo piano i macabri segni del martirio, in forte contrasto con la luminosità dell'ambiente e la bellezza della santa
- Chiesa di Sant'Alvise: Incoronazione, Flagellazione e Salita al Calvario (1740), caratterizzati da una religiosità tragica concentrata sulla Passione di Gesù, che strapperà alla Enciclopedia Cattolica un raro riconoscimento: "In queste tele il Tiepolo lascia ogni ricerca di bellezza formale per attingere unicamente al senso drammatico dell'epopea di Cristo"
- Chiesa dei Gesuati (che sarebbe più corretto però chiamare dei Domenicani): nella quale Tiepolo lavorò nel 1737 affrescandone il soffitto e l'abside.

venerdì 1 aprile 2011

L'Ultima Cena giudicata dall'Inquisizione

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L'allarme dell'incendio si sparse nella notte del 14 febbraio 1571 in campo San Zanipolo, ma nonostante il rapido intervento degli uomini della Serenissima, non si riuscì a salvare il refettorio del convento di San Giovanni e Paolo. La perdita più grave fu la distruzione della tela di Tiziano che vi era contenuta: L'Ultima Cena.
Un'indagine condotta subito dopo l'incidente stabilì che la causa dell'incendio era da imputare ad alcuni soldati tedeschi che bivaccavano nei magazzini posti a fianco del refettorio. Nei giorni successivi vi fu una vera e propria gara di solidarietà nei confronti dei frati, ai quali vennero donate importanti somme di denaro per la ricostruzione della sala. Ma come sostituire la perduta tela di Tiziano? Chi avrebbe potuto eseguire un'opera degna del grande artista?
Dopo lungo dibattere, venne alla fine scelto Paolo Caliari detto il Veronese.
Paolo dovette sentirsi particolarmente libero di interpretare il tema dell'Ultima Cena, dopo aver eseguito diversi lavori su commissione della Repubblica, giacché diede vita alle più ardite soluzioni che la sua fantasia gli suggeriva. Tra i personaggi inseriti nella tela dipinse anche i due soldati tedeschi ritenuti responsabili dell'incendio, raffigurandoli con un bicchiere di vino in mano.
Ma non si limitò a questo e inserì tra gli ospiti della cena nani, buffoni, mori, pappagalli, cani e perfino un irriverente personaggio intento a pulirsi i denti con una forchetta dietro ad una colonna!
Alla vista del singolare dipinto i frati però non gradirono l'eccessiva libertà di interpretazione e dettero vita ad un aperto dissidio con il Veronese. Alla fine ne nacque addirittura una denuncia all'Ufficio Inquisitore.
Il processo è ampiamente documentato presso l'Archivio di Stato di Venezia. Il dialogo tra il pittore e gli inquisitori, e la sentenza finale, segnano un momento decisivo nella storia dell'arte. Il pittore, per primo nella storia, difese la sua libertà d'espressione artistica, rivendicando il diritto dell'artista a mostrare la realtà secondo la sua sensibilità. Queste le sue esatte parole: "Nui pittori si pigliamo licentia che si pigliano i poeti et i matti".
Alla fine il Veronese riuscì ad evitare la condanna per eresia, e il tutto si risolse con la semplice imposizione di cambiare il titolo dell'opera, che divenne così "Cena a casa Levi";
ma è un passaggio chiave nella Storia dell'Arte, perché prima di lui nessuno aveva osato difendere così apertamente e senza tanti sofismi, il diritto di espressione dell'artista, che passa quindi da semplice artigiano che esegue le direttive del committente a vero e proprio creatore di idee e concetti per il tramite della propria arte.

giovedì 24 febbraio 2011

Tintoretto è Venezia anche quando non dipinge Venezia

"C'è nelle sue opere, una forma di pesantezza, che fa sì che lo spazio del Tintoretto non sia quello del pittore, ma quello dello scultore: egli è un pittore che dipinge i rapporti spaziali che si hanno quando si scolpisce - egli stesso era particolarmente colpito da ciò. Partendo da qui comprendiamo che per il Tintoretto un quadro è un problema di pittura, ed è questo che ne rivela l'inquietudine.
Con lui le dimensioni non sono più assolute, diventano relative allo loro posizione rispetto ad un testimone. Tintoretto ha inventato lo spettatore del quadro. Perciò è moderno: è una rivoluzione rispetto alla pittura precedente, e annuncia gli impressionisti. Egli voleva ritrovare lo spazio così come è vissuto da noi, con le sue distanze insuperabili, i pericoli, le fatiche: pensava che questa fosse la realtà assoluta dello spazio, perciò ha trovato suo malgrado la soggettività. E' sempre rispetto a noi che costruisce i suoi quadri.
La condizione dell'uomo gli appare come vano rumore e furore, storia idiota raccontata da un pazzo. E nel contempo, come per la bellezza dei versi di Shakespeare, l'idiozia è velata dalla bellezza dei movimenti d'insieme. Con l'occasione sparisce il mondo dell'atto. Già il manierismo dei pittori fiorentini del Cinquecento e infine del Tiziano, l'avevano trasformato in gesto. Tintoretto lo trasforma in passione. Meraviglia, terrore, eccesso, angoscia, follia, ecco le condizioni dell'uomo di Tintoretto".
(J.P.Sartre)

lunedì 17 gennaio 2011

Il diario di un grande pittore.

"Allora caro zio, verrete a vivere con noi?". All'invito del giovane nipote l'uomo rispose con un forte abbraccio. "Sarai come un figlio", esclamò. "Vi terrò come un padre" rispose il ragazzo. Queste reciproche manifestazioni d'affetto, in una splendida giornata di sole a Venezia, venivano poi annotate durante la notte in un quaderno alla fioca luce di una candela. Un quaderno che non era un diario qualunque, ma il libro dei conti e delle confidenze di Lorenzo Lotto: uno dei più grandi, e meno compresi, artisti del Cinquecento. Di carattere difficile, forse arrendevole con troppa facilità, Lorenzo Lotto si trovò a dividere la scena artistica del suo tempo con personalità del calibro di Tiziano e del Bellini. Un confronto non impari, ma nella quale la personalità fragile del Lotto non riuscì a competere.
La convivenza con il giovane nipote Mario veniva vissuta dal pittore con l'animo sulla difensiva e una meticolosità dettate da un carattere costellato di nostalgie e amarezze. Ma anche da un paterna bontà. "Voglio che mi considerino davvero come un padre" egli pensava commosso nel momento in cui, con i pochi soldi messi da parte grazie alle sempre più rade commissioni pittoriche acquistava piccoli regali alla famiglia, soprattutto per le bambine. Chissà quanta tenerezza deve aver provato Lorenzo quando sui banchi del mercato di Rialto sceglieva scarpe e vestitini per la piccola Lauretta.
Qualche volta a cena capitava qualche amico, non molti per la verità, il più assiduo era il Sansovino. Alla sera, Lorenzo annotava tutto sul proprio quaderno, silenzioso e fedele compagno delle sue confidenze. Qualche anno dopo Lorenzo decise che era ormai giunto il momento di togliere il disturbo e si trasferì prima a Treviso, presso un amico, poi partì per le Marche, la terra che più volte in passato l'aveva accolto e gli aveva fornito occasioni di lavoro. Ma neanche lì riuscì a trovare committenti interessati alla sua arte.
Stanco e provato, egli decise, nell'agosto del 1550, di stabilirsi definitivamente a Loreto e di prendere i voti. Nel suo quaderno scrisse: "Per non andarmi avolgendo più in mia vecchiaia ho voluto quetar la vita in questo Santo locho". Lì si spegnerà l'8 settembre del 1554.
Oltre alle straordinarie, e troppo tardi rivalutate, opere d'arte sparse nelle collezioni di tutto il mondo, Lorenzo Lotto ci ha lasciato il proprio quaderno: un documento che rappresenta la grande umanità di questo sfortunato e incompreso artista


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Version française
(Fonti: D. Mazzetto - P. Zampetti)

giovedì 13 gennaio 2011

Il progenitore del Cinema

Verso la fine del Settecento, in giro per Venezia e in special modo nei pressi di Campo Santa Maria Formosa, sostavano le prime "scatole magiche", che attraevano e incuriosivano i passanti. Erano dei rudimentali visori in legno, sorretti da un treppiede, nelle quali attraverso un apposito foro munito di lenti si poteva vedere, a pagamento, delle immagini panoramiche, a volte anche con effetti tridimensionali, di varie parti del mondo, in special modo dell'America, allora chiamata "Mondo Nuovo". Le immagini vennero ben presto associate all'apparecchio stesso, che prese così, nella parlata comune, questo nome.

La gente si accalcava per guardare quelle immagini di paesi lontani, portando  anche i bambini, proprio come in seguito al cinema (di cui il "Mondo novo" può essere considerato un progenitore). Tecnicamente consisteva in una sorta di scatola al cui interno un fascio di luce (prima una semplice candela, poi una lampada ad olio, e per questo motivo era chiamata anche "lanterna magica"), colpiva un'immagine trasparente (in genere immagini dipinte su lastre di vetro) e la proiettava ingrandita su un schermo bianco.

Oltre all'immagine (qui sopra) dell'incisore G. Zompini che documenta l'oggetto in sé, è rimasto celebre l'affresco di Giandomenico Tiepolo che raffigura una piccola folla di spalle in attesa di poter ammirare i lontani paesaggi grazie alla "scatola magica".

Alcuni esemplari ancora funzionanti sono esposti presso il Museo Nazionale del Cinema a Torino



English version
Version française
(fonti: M. Brusegan - E. Pascarella)

venerdì 7 gennaio 2011

Il Mondo Nuovo di Giandomenico Tiepolo

"Da vivo, Giandomenico Tiepolo era stato considerato soprattutto come il figlio del più celebre Giambattista Tiepolo, autore di numerosi affreschi a cui Giandomenico aveva collaborato. Ma il Mondo Nuovo, dipinto in origine nel più completo anonimato su una delle pareti della casa di campagna di famiglia, iniziato probabilmente verso il 1750 e terminato solo nel 1791, aveva sempre intrigato gli esperti per quella sua atmosfera strana, quel suo mistero irriducibile.
Tutta una folla, vista di spalle o di profilo, che assisteva ad uno spettacolo invisibile. In lontananza, il mare. Un'esecuzione sorprendente. Personaggi sorpresi in atteggiamenti famigliari durante una scena pubblica. Ma niente a che vedere con l'estro sorridente di Longhi o di Guardi. Blu lattiginosi, giacche color crema, arancio spento, abiti beige. Una sorta di morbida ieraticità nella curva delle spalle, nella posizione delle teste. La sensazione che tutta questa folla colta nell'energia dell'istante deviasse al contempo verso un altrove silenzioso, uno spazio onirico.
La delicatezza delle tonalità sembra giungere da un'Italia lontana e spirituale, quella di Piero della Francesca, ma il soggetto è incredibilmente moderno, di una stranezza funambolesca. Invitare a guardare ciò che non si vedrà. Uno spettacolo di strada. Tutte le categorie sociali mescolate, dal borghese panciuto con la parrucca al Pierrot uscito dritto dalle scene della commedia dell'arte, dalle popolane prosperose protese in avanti alla dama elegante con il cappello in testa e una mano sul fianco.
Ma il vero segreto è il personaggio arrampicato su uno sgabello e che tiene in mano una lunga bacchetta, una specie di asta, la cui estremità raggiunge il centro della scena. Che significato attribuire al suo gesto? Non è per attirare l'attenzione dei curiosi, già catturati dallo spettacolo. Interviene forse come deus ex machina, per fungere da interprete tra il pittore e gli spettatori dell'affresco, per sottolineare l'importanza di ciò che resta invisibile ai nostri occhi?"
(P. Delerm)

"L'affresco rappresenta una piccola baracca intorno alla quale si agita una folla di gente ansiosa di affacciarsi. Che cosa si vede? Che cosa ci si potrebbe vedere? Forse che un pittore di due secoli fa ha intravisto questo nostro "mondo" purtroppo "nuovo" perché inverosimile?"
(G. Francesco Malipiero)

[L'affresco in questione si trova al Museo del Settecento di Ca' Rezzonico, Venezia]

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martedì 23 marzo 2010

Mostre, Venezia rende omaggio alla pittura di Felice Carena

Capolavori esemplari, opere inedite o raramente presentate, lavori ritrovati ed esposti per la prima volta. È la grande mostra che Venezia dedica a Felice Carena (1879-1966), l’artista di origini piemontesi, protagonista del Novecento italiano, che scelse la Serenissima per trascorrere gli ultimi e fecondi anni della sua carriera. Promossa dalla Regione del Veneto, dall’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti e da Arthemisia Group, la mostra “Felice Carena e gli anni di Venezia” resterà allestita dal 27 marzo al 18 luglio a Palazzo Franchetti. A distanza di quindici anni dalla rassegna svoltasi a Torino nel 1996, l’esposizione è la prima importante occasione per riscoprire e rivalutare Carena.

Fonte: Il Velino