venerdì 9 luglio 2010
Magia a Venezia
“Ma veniamo all’inizio della mia esistenza di essere pensante. Al principio d’agosto del 1733 mi si sviluppò la facoltà della memoria. Avevo dunque otto anni e quattro mesi. Di ciò che può essermi accaduto prima di quella data, non serbo alcun ricordo. Ecco come andò la cosa.
Me ne stavo in piedi nell’angolo di una stanza, a ridosso del muro, con il capo e gli occhi fissi sul sangue che mi usciva in gran copia dal naso e scorreva a terra. Mia nonna Marzia, della quale ero il beniamino, mi si accostò, mi lavò il viso con acqua fredda e, all’insaputa di tutti i famigliari, mi fece salire con lei su una gondola e mi condusse a Murano.
Scendemmo dalla gondola ed entrammo in una catapecchia dove trovammo una vecchia seduta su un misero giaciglio, con un gatto nero in braccio e altre cinque o sei di queste bestie intorno. Era una fattucchiera. Le due vecchie tennero tra loro un lungo conciliabolo di cui io dovevo essere il soggetto. Alla fine del dialogo, che si svolse in dialetto friulano, la strega, ricevuto che ebbe da mia nonna un ducato d’argento, aprì una cassa, mi prese tra le braccia, mi ci mise dentro e mi ci chiuse, raccomandandomi di non aver paura. In verità era proprio il modo di farmela venire, se solo avessi avuto un barlume di coscienza, ma ero come inebetito. Così me ne stetti cheto, con il fazzoletto pigiato sul naso perché perdevo sangue, del tutto indifferente al baccano che mi giungeva da fuori. Sentivo alternativamente ridere e piangere, gridare, cantare e picchiare sulla cassa.
Mi tirarono finalmente fuori e il mio sangue ristagnò. Allora, quella donna straordinaria, dopo avermi fatto una quantità di carezze, mi spoglia, mi adagia sul letto, brucia degli aromi, ne raccoglie il fumo in un lenzuolo, mi ci avviluppa strettamente, mi recita scongiuri, poi mi libera e mi dà da mangiare cinque confetti di gusto molto gradevole. Subito dopo mi sfrega le tempie e la nuca con un unguento che esala un soave profumo e mi riveste. Mi dice che la mia emorragia sarebbe andate sempre diminuendo, a patto che non raccontassi ad anima viva ciò che aveva fatto per guarirmi, e mi minaccia invece della perdita di tutto il sangue e della conseguente morte nel caso osassi svelare a qualcuno i suoi segreti.
Dopo avermi così catechizzato, mi predice per la notte la visita di un’incantevole dama, dalla quale sarebbe dipesa la mia felicità, se fossi stato capace di non dire a nessuno di averla ricevuta. Quindi, io e la nonna partimmo e facemmo ritorno a casa.
Appena a letto, mi addormentai senza neanche ricordarmi della dolce visita che dovevo ricevere; ma quando mi sveglia qualche ora dopo, vidi o credetti di veder scendere dal camino una splendida donna in crinolina, tutta elegante e con in testa una corona costellata di pietre preziose che mi pareva mandassero faville infuocate. A passi lenti e con un’aria dolce e maestosa, venne a sedersi sul mio letto. Trasse di tasca alcune scatolette e me ne rovesciò il contenuto sul capo, mormorando alcune parole. Quindi, dopo avermi rivolto un lungo discorso, di cui non compresi una parola, e dopo avermi baciato sulla testa, se ne andò per dove era venuta, e io mi riaddormentai.”
(Memorie di Giacomo Casanova)
lunedì 5 luglio 2010
Indiani in Laguna
Da sempre i veneziani sono considerati dei validi navigatori. Sembra che alcuni di essi facessero parte dell'equipaggio della piccola flotta di Erik il Rosso quando, all'inizio del XI secolo, superati l'Islanda e i banchi di Terranova raggiunse l'attuale Maine per fondare la mitica Vinland, "terra del vino e del miele", la prima comunità bianca del Mondo Nuovo.
Tutto questo molto prima di Colombo e dei Caboto...
Quella piccola colonia seppe convivere con gli indigeni per parecchi anni, finché, sembra per una storia di donne, i rapporti con gli indiani si guastarono e i bianchi dovettero fuggire.
Si racconta che uno di questi marinai di origine veneziana ritornò a Mazzorbo, completamente tatuato, accompagnato da una donna dai grandi orecchini e dai lunghi capelli nerissimi. La si vedeva spesso avvolta nella sua colorata coperta guardare lontano oltre le barene...
I due ebbero molti figli, che non tatuarono. Sembra inoltre che la donna fosse bravissima a conciare le pelli. Quell'inverno quasi tutti a Mazzorbo circolavano con dei vistosi berretti di pelle di coniglio...
Fonte: Fuga e Vianello
Tutto questo molto prima di Colombo e dei Caboto...
Quella piccola colonia seppe convivere con gli indigeni per parecchi anni, finché, sembra per una storia di donne, i rapporti con gli indiani si guastarono e i bianchi dovettero fuggire.
Si racconta che uno di questi marinai di origine veneziana ritornò a Mazzorbo, completamente tatuato, accompagnato da una donna dai grandi orecchini e dai lunghi capelli nerissimi. La si vedeva spesso avvolta nella sua colorata coperta guardare lontano oltre le barene...
I due ebbero molti figli, che non tatuarono. Sembra inoltre che la donna fosse bravissima a conciare le pelli. Quell'inverno quasi tutti a Mazzorbo circolavano con dei vistosi berretti di pelle di coniglio...
Fonte: Fuga e Vianello
venerdì 2 luglio 2010
Visitare Venezia in barca
La mia attività a Venezia si è arricchita di un nuovo servizio:
Percorsi in barca
Si tratta di due (per adesso) percorsi in barche a remi, su imbarcazioni tipiche della laguna veneta, con uno o due vogatori ed un accompagnatore (che sarei io), grazie ai quali è possibile ammirare Venezia dai suoi rii e rivivere al contempo l'antica consuetudine veneziana di muoversi via acqua.
Per maggiori info:
http://www.laltravenezia.it/ percorsi-in-barca.php
E' una possibilità quasi unica dato che l'alternativa ad oggi è data solo dalle costosissime gondole. Con in più, rispetto a queste ultime, la possibilità di avere un profondo conoscitore della città che spiega cosa si sta vedendo (con la stessa logica dei miei già avviati percorsi a piedi).
Non da ultimo il fine di far rivivere, usandole, delle tipiche barche a remi che altrimenti resterebbero abbandonate, soppiantate dalle inquinanti e rumorose barche a motore.
Una magia, quella di Venezia via acqua, che meritava tutto l'impegno che abbiamo profuso al fine di proporre questo nuovo servizio.
Percorsi in barca
Si tratta di due (per adesso) percorsi in barche a remi, su imbarcazioni tipiche della laguna veneta, con uno o due vogatori ed un accompagnatore (che sarei io), grazie ai quali è possibile ammirare Venezia dai suoi rii e rivivere al contempo l'antica consuetudine veneziana di muoversi via acqua.
Per maggiori info:
http://www.laltravenezia.it/
E' una possibilità quasi unica dato che l'alternativa ad oggi è data solo dalle costosissime gondole. Con in più, rispetto a queste ultime, la possibilità di avere un profondo conoscitore della città che spiega cosa si sta vedendo (con la stessa logica dei miei già avviati percorsi a piedi).
Non da ultimo il fine di far rivivere, usandole, delle tipiche barche a remi che altrimenti resterebbero abbandonate, soppiantate dalle inquinanti e rumorose barche a motore.
Una magia, quella di Venezia via acqua, che meritava tutto l'impegno che abbiamo profuso al fine di proporre questo nuovo servizio.
giovedì 1 luglio 2010
L'anello del pescatore
Il 15 febbraio 1340 a Venezia si ebbe una gravissima inondazione.
La tradizione narra che quella notte, durante l'infuriare della tempesta, un anziano pescatore che con la sua barca si era riparato sotto il Ponte della Paglia, venne avvicinato da un elegante vegliardo che lo invitò a portarlo prima sull'isola di San Giorgio, dove salì un guerriero in armi e poi al Lido, a San Nicolò, dove, davanti all'abbazia, li attendeva un anziano prelato in abiti vescovili.
I tre chiesero quindi al pescatore di portarli fuori dalla bocca di porto di San Nicolò, in mare aperto, senza dare nessuna spiegazione. Seppur impaurito, il pescatore condusse con la propria imbarcazione i tre sconosciuti verso il mare, dove, tra flutti, spruzzi, venti impetuosi e lampi accecanti era comparsa una galea armata completamente nera, perfino le vele e il fasciame erano neri, piena di diavoli urlanti e guidata da Belzebù in persona, con l'intento di entrare in Venezia.
Avvicinatisi alla nave che, minacciosa, attentava alla città, il primo dei tre sconosciuti, che altri non era se non San Marco in persona, con un semplice segno della mano la fece naufragare con gran folgore di vento, inghiottita in un vortice d'acqua.
Rientrati, il pescatore fece sbarcare il primo dei tre personaggi a San Nicolò del Lido, il secondo nell'isola di San Giorgio e l'ultimo dinanzi al Palazzo Ducale. Quest'ultimo, l'evangelista, rivolgendosi al pescatore, spiegò che il primo a scendere era San Nicola, il protettore dei marinai, e il secondo San Giorgio, l'uccisore del drago. E perché tutti potessero credere al miracolo, consegnò al pescatore un anello col compito di portarlo ai procuratori della Basilica di San Marco e di spiegare l'accaduto.
L'uomo vi si recò e, come prova del miracolo, mostrò l'anello che essi subito riconobbero come quello celato nella Chiesa, conservato nel Tesoro di San Marco, e che mai nessuno avrebbe potuto prendere.
Accompagnarono quindi il vecchio pescatore dinanzi al Doge, il quale riconosciuto l'anello ordinò una pubblica processione di ringraziamento. Il pescatore, devoto e coraggioso, venne ricompensato con una ricca pensione.
La leggenda dell'anello del pescatore è illustrata in un quadro del pittore cinquecentesco Paris Bordon, oggi conservato alle Gallerie dell'Accademia. Anche nel Tesoro Marciano della Basilica vi è una rappresentazione artistica di questa leggenda, si tratta di un magnifico arazzo eseguito dal fiammingo Giovanni Rost.
La tradizione narra che quella notte, durante l'infuriare della tempesta, un anziano pescatore che con la sua barca si era riparato sotto il Ponte della Paglia, venne avvicinato da un elegante vegliardo che lo invitò a portarlo prima sull'isola di San Giorgio, dove salì un guerriero in armi e poi al Lido, a San Nicolò, dove, davanti all'abbazia, li attendeva un anziano prelato in abiti vescovili.
I tre chiesero quindi al pescatore di portarli fuori dalla bocca di porto di San Nicolò, in mare aperto, senza dare nessuna spiegazione. Seppur impaurito, il pescatore condusse con la propria imbarcazione i tre sconosciuti verso il mare, dove, tra flutti, spruzzi, venti impetuosi e lampi accecanti era comparsa una galea armata completamente nera, perfino le vele e il fasciame erano neri, piena di diavoli urlanti e guidata da Belzebù in persona, con l'intento di entrare in Venezia.
Avvicinatisi alla nave che, minacciosa, attentava alla città, il primo dei tre sconosciuti, che altri non era se non San Marco in persona, con un semplice segno della mano la fece naufragare con gran folgore di vento, inghiottita in un vortice d'acqua.
Rientrati, il pescatore fece sbarcare il primo dei tre personaggi a San Nicolò del Lido, il secondo nell'isola di San Giorgio e l'ultimo dinanzi al Palazzo Ducale. Quest'ultimo, l'evangelista, rivolgendosi al pescatore, spiegò che il primo a scendere era San Nicola, il protettore dei marinai, e il secondo San Giorgio, l'uccisore del drago. E perché tutti potessero credere al miracolo, consegnò al pescatore un anello col compito di portarlo ai procuratori della Basilica di San Marco e di spiegare l'accaduto.
L'uomo vi si recò e, come prova del miracolo, mostrò l'anello che essi subito riconobbero come quello celato nella Chiesa, conservato nel Tesoro di San Marco, e che mai nessuno avrebbe potuto prendere.
Accompagnarono quindi il vecchio pescatore dinanzi al Doge, il quale riconosciuto l'anello ordinò una pubblica processione di ringraziamento. Il pescatore, devoto e coraggioso, venne ricompensato con una ricca pensione.
La leggenda dell'anello del pescatore è illustrata in un quadro del pittore cinquecentesco Paris Bordon, oggi conservato alle Gallerie dell'Accademia. Anche nel Tesoro Marciano della Basilica vi è una rappresentazione artistica di questa leggenda, si tratta di un magnifico arazzo eseguito dal fiammingo Giovanni Rost.
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martedì 29 giugno 2010
Quiz veneziano
Quiz per veri esperti di Venezia:
su quale edificio si trova la patera qua a fianco?
(la risposta giusta, se nessuno indovina prima, sarà data domani)
su quale edificio si trova la patera qua a fianco?
(la risposta giusta, se nessuno indovina prima, sarà data domani)
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lunedì 28 giugno 2010
Qualcuno dice che Venezia sta morendo...
L'altra sera ero a cena da una cugina di mia mamma che abita vicino a San Pietro in Castello.
Nata e cresciuta in campagna si trasferì a Venezia una ventina d'anni fa. All'inizio era preoccupata, temeva di non riuscire, abituata com'era alla campagna, ad adattarsi alla città.
Oggi dice che non andrebbe via da Venezia per nessun motivo al mondo.
Le ho chiesto perché, e lei mi ha risposto così:
"Perche qui non mi sento mai sola. Quando esco trovo sempre qualcuno che conosco e anche se incontro persone sconosciute ci si saluta e si scambiano due parole. C'è solidarietà tra vicini di casa, ci si aiuta. Nel campo sotto casa ci sono sempre i bambini che giocano (tra di loro, non con i videogame... nda), senza pericoli di sorta, e ogni tanto si organizzano feste alle quali partecipano anche tanti giovani"
Vi sembra la descrizione di una città che sta morendo??
Nata e cresciuta in campagna si trasferì a Venezia una ventina d'anni fa. All'inizio era preoccupata, temeva di non riuscire, abituata com'era alla campagna, ad adattarsi alla città.
Oggi dice che non andrebbe via da Venezia per nessun motivo al mondo.
Le ho chiesto perché, e lei mi ha risposto così:
"Perche qui non mi sento mai sola. Quando esco trovo sempre qualcuno che conosco e anche se incontro persone sconosciute ci si saluta e si scambiano due parole. C'è solidarietà tra vicini di casa, ci si aiuta. Nel campo sotto casa ci sono sempre i bambini che giocano (tra di loro, non con i videogame... nda), senza pericoli di sorta, e ogni tanto si organizzano feste alle quali partecipano anche tanti giovani"
Vi sembra la descrizione di una città che sta morendo??
giovedì 24 giugno 2010
Venezia e il suo mito
"Nobilissima" qualifica Venezia, nel titolo della sua celebre guida uscita nel 1581, Francesco Sansovino (figlio del più noto architetto Jacopo), volendo, nell'aggettivo, fondere l'idea di bellezza eletta con quella di gestione politica socialmente selezionata. Non solo: Venezia è anche "singolare". In effetti la singolarità sembra il connotato principe della città. Spiccatissima la sua individualità, percepita via via come unica, irripetibile, strana, turbante.
Un ambiente insomma non omologabile. Persino i suoi abitanti paiono una sorta d'anomalia antropologica: essi non arano, non seminano, non vendemmiano. I suoi nobili non hanno niente in comune coi tratti costitutivi dei ceti nobiliari: questi suppongono possesso di terre e castelli con prerogative feudali, quelli invece navigano e mercanteggiano. Già la lettera di Cassiodoro evoca la stranezza di un popolo le cui case hanno legata fuori dall'uscio un'imbarcazione al posto del cavallo.
Nel secolo XIV Frà Nicolò da Poggibonsi si emoziona alla vista di "Vinegia, fatta in altro modo, con le strade che sono canali d'acqua". Sempre l'acqua campeggia, quasi confondendosi e confrontandosi col cielo, attorno e dentro, cornice e sostanza, habitat biofisico. Diaframma e sutura le pietre tra specchio liquido e volta celeste. In questo sta la sua diversità di facies urbana reale e irreale, in certo qual modo alternativa e perciò sempre più caricabile di significati, sempre più satura di stimoli, sempre più dislocabile sul versante dell'immaginazione. Si dilata, nel definirsi modellarsi e complicarsi della sua forma, a dimensioni esistenziali estreme, da quelle dell'amore a quella della morte.
Venezia è se stessa e, nel contempo, è sempre qualcos'altro, è sempre ulteriorità possibile.
I dotti fuggiti da Costantinopoli caduta, nel 1453, in mano turca v'approdano come ad una seconda Bisanzio, gli umanisti la salutano come un' Atene rediviva.
S'attivano altresì, in sintonia col concreto esercizio del potere, i due meccanismi ideologici più efficaci: quello della presupposizione della sua legittimità e bontà e quello, conseguente, della sua valorizzazione: mitizzabile e perciò mitizzata.
C'è la convinzione del superiore destino della città: essa si sente una seconda Roma, anzi di Roma migliore perché senza le agitazioni sociali del periodo repubblicano, senza le dispotiche degenerazioni di quello imperiale.
L'aristocrazia lagunare non ha remore in fatto di autogratificazione: il suo governo non è soltanto il migliore tra gli esistenti, ma anche tra i concepibili. Essa è la "città felice", la "vera forma di perfetto governo", sintetizza Paolo Paruta.
Ma se il mito del perfetto reggimento politico finisce con lo sfaldarsi nell'età dei lumi, resiste quello della città di sogno appagante e anticipante le fantasie dei poeti. Rimane lo scenario urbano con tutta la sua carica di suggestioni psichiche.
La storia, si può obiettare, bada ai fatti, non s'attarda con ideologismi mitizzatori, né con fantasticherie esistenziali. Ma sarebbe ingiusto applicare a Venezia un'ottica così riduttiva: sfuggirebbero persino i meri fatti. Anzi, mito e realtà, verità e deformazione, si confondono e si compenetrano inscindibilmente.
Le trine marmoree degli edifici specchiantisi nei canali e inquadrati dai campi, i labirintici andirivieni del tessuto viario, l'inarcarsi dei ponti, il rimbalzare delle voci tra pietre ed acque, il subitaneo subentrare del silenzio all'eccitato brusio, i colori movimentati nel cangiare della luce, sono anch'essi storia.
La città è anche quello che significa e che ha significato. Si monca la traccia della sua vicenda se si dimentica la trasformazione in mito della propria civiltà.
Di bellissime città è piena l'Italia, ma Venezia è anche paesaggio mentale, luogo dell'anima, referente attivo e passivo dell'immaginazione, involucro e contenuto per il desiderio.
Tutto ciò s'incorpora nella sua storia.
Proprio perché unica al mondo è la città di cui il mondo ha bisogno.
Senza di lei il mondo sarebbe più povero.
Un ambiente insomma non omologabile. Persino i suoi abitanti paiono una sorta d'anomalia antropologica: essi non arano, non seminano, non vendemmiano. I suoi nobili non hanno niente in comune coi tratti costitutivi dei ceti nobiliari: questi suppongono possesso di terre e castelli con prerogative feudali, quelli invece navigano e mercanteggiano. Già la lettera di Cassiodoro evoca la stranezza di un popolo le cui case hanno legata fuori dall'uscio un'imbarcazione al posto del cavallo.
Nel secolo XIV Frà Nicolò da Poggibonsi si emoziona alla vista di "Vinegia, fatta in altro modo, con le strade che sono canali d'acqua". Sempre l'acqua campeggia, quasi confondendosi e confrontandosi col cielo, attorno e dentro, cornice e sostanza, habitat biofisico. Diaframma e sutura le pietre tra specchio liquido e volta celeste. In questo sta la sua diversità di facies urbana reale e irreale, in certo qual modo alternativa e perciò sempre più caricabile di significati, sempre più satura di stimoli, sempre più dislocabile sul versante dell'immaginazione. Si dilata, nel definirsi modellarsi e complicarsi della sua forma, a dimensioni esistenziali estreme, da quelle dell'amore a quella della morte.
Venezia è se stessa e, nel contempo, è sempre qualcos'altro, è sempre ulteriorità possibile.
I dotti fuggiti da Costantinopoli caduta, nel 1453, in mano turca v'approdano come ad una seconda Bisanzio, gli umanisti la salutano come un' Atene rediviva.
S'attivano altresì, in sintonia col concreto esercizio del potere, i due meccanismi ideologici più efficaci: quello della presupposizione della sua legittimità e bontà e quello, conseguente, della sua valorizzazione: mitizzabile e perciò mitizzata.
C'è la convinzione del superiore destino della città: essa si sente una seconda Roma, anzi di Roma migliore perché senza le agitazioni sociali del periodo repubblicano, senza le dispotiche degenerazioni di quello imperiale.
L'aristocrazia lagunare non ha remore in fatto di autogratificazione: il suo governo non è soltanto il migliore tra gli esistenti, ma anche tra i concepibili. Essa è la "città felice", la "vera forma di perfetto governo", sintetizza Paolo Paruta.
Ma se il mito del perfetto reggimento politico finisce con lo sfaldarsi nell'età dei lumi, resiste quello della città di sogno appagante e anticipante le fantasie dei poeti. Rimane lo scenario urbano con tutta la sua carica di suggestioni psichiche.
La storia, si può obiettare, bada ai fatti, non s'attarda con ideologismi mitizzatori, né con fantasticherie esistenziali. Ma sarebbe ingiusto applicare a Venezia un'ottica così riduttiva: sfuggirebbero persino i meri fatti. Anzi, mito e realtà, verità e deformazione, si confondono e si compenetrano inscindibilmente.
Le trine marmoree degli edifici specchiantisi nei canali e inquadrati dai campi, i labirintici andirivieni del tessuto viario, l'inarcarsi dei ponti, il rimbalzare delle voci tra pietre ed acque, il subitaneo subentrare del silenzio all'eccitato brusio, i colori movimentati nel cangiare della luce, sono anch'essi storia.
La città è anche quello che significa e che ha significato. Si monca la traccia della sua vicenda se si dimentica la trasformazione in mito della propria civiltà.
Di bellissime città è piena l'Italia, ma Venezia è anche paesaggio mentale, luogo dell'anima, referente attivo e passivo dell'immaginazione, involucro e contenuto per il desiderio.
Tutto ciò s'incorpora nella sua storia.
Proprio perché unica al mondo è la città di cui il mondo ha bisogno.
Senza di lei il mondo sarebbe più povero.
giovedì 17 giugno 2010
Il Mose e i problemi della Laguna di Venezia
Venezia ha dovuto combattere una millenaria battaglia contro le azioni esterne, assai più difficile di quella di qualunque altra città, e fino a tutto il Settecento la Repubblica Serenissima seppe mantenere il precario equilibrio per la sopravvivenza della città e della laguna. Oggi questa lotta si fa più complicata per l'azione di fenomeni nuovi, che ne intaccano fisicamente la struttura, per lo più di origine umana:
- il moto ondoso prodotto dai natanti a motore che corrode le fondazioni degli edifici e gli argini dei canali;
- l'inquinamento dovuto soprattutto (ma non solo) dagli scarichi degli insediamenti in terraferma;
- l'abbassamento del suolo derivante dall'emungimento intensivo del sottosuolo nell'area industriale di Porto Marghera (è stato calcolato un abbassamento reale, in quest'ultimo secolo, del fondo della laguna di circa 30cm!);
- l'innalzamento del livello del mare.
Di tutti questi e di tanti altri problemi, quello delle acque alte è sicuramente il più drammatico. Si tratta di un fenomeno sempre esistito a Venezia, ma che nell'ultimo secolo ha raggiunto frequenze e altezze davvero preoccupanti.
A questo proposito bisogna ricordare quali sono le caratteristiche della laguna stessa: si tratta di uno spazio acqueo (circa 500 Kmq) separato dal mare dalle isole del litorale (Lido e Pellestrina), e ad esso collegata da tre aperture (dette bocche): del Lido, di Malamocco e di Chioggia. Attraverso queste bocche l'acqua del mare entra ed esce seguendo il ritmo delle maree (e cioè due volte al giorno) assicurando l'indispensabile ricambio per la sopravvivenza della Laguna.
Si tratta quindi di un sistema precario da sempre assicurato dalle vigili attenzioni della Repubblica. Equilibrio che negli ultimi tempi è venuto meno per una serie di ragioni concomitanti:
- l'abbassamento del suolo di cui si è detto poc'anzi;
- il maggior volume di acqua che entra dal mare dovuto allo scavo dei canali per il passaggio delle petroliere (...);
- la difficoltà per l'acqua che entra in laguna di espandersi liberamente per il fatto che molte aree barenose sono state convertite ad altri usi (zone industriali di Marghera, il nuovo aeroporto Marco Polo, ecc.) o trasformate in valli da pesca impedendo comunque la libera circolazione delle maree;
- il mancato dragaggio dei canali effettuato dalla Repubblica per mille anni e interrotto a partire dal 1800.
Una situazione grave quindi che avrebbe richiesto una soluzione agente su piani diversi:
- puntando al recupero altimetrico del fondo della laguna (uno dei progetti presentati prevedeva l'iniezione di una schiuma espandente nelle cavità del sottosuolo svuotate dalle industrie di Porto Marghera per recuperare quei 30 cm persi);
- riducendo i volumi d'acqua scambiati tra mare e laguna, ottenibile attraverso un ridimensionamento delle sezioni delle tre bocche di porto;
- migliorando la penetrabilità acquea con la riapertura delle casse di colmata della zona industriale;
- il ripristino della pratica di dragaggio dei canali.
Ma alla fine si è scelta una soluzione diversa. Si stanno costruendo delle enormi paratie mobili sul fondo delle tre bocche di porto, che normalmente staranno sul fondo e che in caso di notevoli alte maree (oltre 110cm) si sollevano e separano il mare dalla laguna. Stiamo parlando del "Mose" (acronimo di MOdulo Sperimentale Elettromeccanico)
In pratica stiamo spendendomilioni miliardi di euro per costruire un opera immensa che servirà solo poche volte all'anno (cioè quando le previsoni dell'acqua alta in città supereranno i 110cm) e che nel caso in cui davvero il livello del mare (come sembra ormai confermato) dovesse continuare ad alzarsi, dovrà separare in maniera definitiva la laguna dal mare facendola morire.
E' come se per aprire la porta di casa, di cui abbiamo accidentalmente dimenticato le chiavi, invece di chiamare un fabbro utilizzassimo un carro armato, con tutte le conseguenze del caso, da quelle economiche al risultato ottenibile.
Per approfondire: nomose
- il moto ondoso prodotto dai natanti a motore che corrode le fondazioni degli edifici e gli argini dei canali;
- l'inquinamento dovuto soprattutto (ma non solo) dagli scarichi degli insediamenti in terraferma;
- l'abbassamento del suolo derivante dall'emungimento intensivo del sottosuolo nell'area industriale di Porto Marghera (è stato calcolato un abbassamento reale, in quest'ultimo secolo, del fondo della laguna di circa 30cm!);
- l'innalzamento del livello del mare.
Di tutti questi e di tanti altri problemi, quello delle acque alte è sicuramente il più drammatico. Si tratta di un fenomeno sempre esistito a Venezia, ma che nell'ultimo secolo ha raggiunto frequenze e altezze davvero preoccupanti.
A questo proposito bisogna ricordare quali sono le caratteristiche della laguna stessa: si tratta di uno spazio acqueo (circa 500 Kmq) separato dal mare dalle isole del litorale (Lido e Pellestrina), e ad esso collegata da tre aperture (dette bocche): del Lido, di Malamocco e di Chioggia. Attraverso queste bocche l'acqua del mare entra ed esce seguendo il ritmo delle maree (e cioè due volte al giorno) assicurando l'indispensabile ricambio per la sopravvivenza della Laguna.
Si tratta quindi di un sistema precario da sempre assicurato dalle vigili attenzioni della Repubblica. Equilibrio che negli ultimi tempi è venuto meno per una serie di ragioni concomitanti:
- l'abbassamento del suolo di cui si è detto poc'anzi;
- il maggior volume di acqua che entra dal mare dovuto allo scavo dei canali per il passaggio delle petroliere (...);
- la difficoltà per l'acqua che entra in laguna di espandersi liberamente per il fatto che molte aree barenose sono state convertite ad altri usi (zone industriali di Marghera, il nuovo aeroporto Marco Polo, ecc.) o trasformate in valli da pesca impedendo comunque la libera circolazione delle maree;
- il mancato dragaggio dei canali effettuato dalla Repubblica per mille anni e interrotto a partire dal 1800.
Una situazione grave quindi che avrebbe richiesto una soluzione agente su piani diversi:
- puntando al recupero altimetrico del fondo della laguna (uno dei progetti presentati prevedeva l'iniezione di una schiuma espandente nelle cavità del sottosuolo svuotate dalle industrie di Porto Marghera per recuperare quei 30 cm persi);
- riducendo i volumi d'acqua scambiati tra mare e laguna, ottenibile attraverso un ridimensionamento delle sezioni delle tre bocche di porto;
- migliorando la penetrabilità acquea con la riapertura delle casse di colmata della zona industriale;
- il ripristino della pratica di dragaggio dei canali.
Ma alla fine si è scelta una soluzione diversa. Si stanno costruendo delle enormi paratie mobili sul fondo delle tre bocche di porto, che normalmente staranno sul fondo e che in caso di notevoli alte maree (oltre 110cm) si sollevano e separano il mare dalla laguna. Stiamo parlando del "Mose" (acronimo di MOdulo Sperimentale Elettromeccanico)
In pratica stiamo spendendo
E' come se per aprire la porta di casa, di cui abbiamo accidentalmente dimenticato le chiavi, invece di chiamare un fabbro utilizzassimo un carro armato, con tutte le conseguenze del caso, da quelle economiche al risultato ottenibile.
Per approfondire: nomose
lunedì 14 giugno 2010
Festa di Sant'Antonio a Venezia
Giunta alla dodicesima edizione, la festa di S.Antonio a Venezia è ricordata per la suggestiva processione del Santo che si snoda per le vie della parrocchia di San Francesco della Vigna.
Il programma (dal 12 al 19 giugno) è nutrito di eventi: spettacoli, concerti, balli e tornei sportivi. Da non dimenticare lo stand gastronomico che sforna dal pesce fritto alla garne alla griglia, da succulenti primi a deliziosi dessert.
L'occasione è da annoverare tra le feste a quasi esclusiva partecipazione veneziana, giacché ben pochi turisti arrivano fin qua...
In particolare sabato sera il chiostro di San Francesco della Vigna ha ospitato un importante spettacolo di teatro di ricerca, realizzato dalla Compagnia Teatrocontinuo.
Se ancora qualcuno crede che Venezia sia una città morta dovrebbe venire a vedere quanti Veneziani partecipano a questa come ad altre feste cittadine!
Personalmente ho avuto la fortuna di assitere al bellissimo spettacolo teatrale di sabato sera, ed ho realizzato un piccolo servizio fotografico.
Riporto qui la presentazione dello spettacolo in questione:
Giganti sono coloro che cercano senza alternative, accettando la sfida della destabilizzazione che provoca l'incontro con lo sconosciuto, la trasformazione, il cambiamento; giganti sono acrobati sospesi sulla corda, il bilanciere tra le mani sudate, che passano all'altra parte con spirito leggero.
Lo spettacolo Giganti si configura come un viaggio, rilettura del passato e del presente, prendendo come pretesto la città di Venezia, immenso patrimonio di storia, cultura e umanità.
Venezia diventa nella finzione teatrale come un anziana Signora con problemi di salute e un eredità cospicua che alcuni vorrebbero dilapidare e altri si propongono di conservare: una sfida, quest'ultima, che solo dei Giganti riusciranno ad affrontare, gli stessi che al momento della sua fondazione hanno immaginato e costruito questa straordinaria città anfibia, Utopia dell'umanità.
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Il programma (dal 12 al 19 giugno) è nutrito di eventi: spettacoli, concerti, balli e tornei sportivi. Da non dimenticare lo stand gastronomico che sforna dal pesce fritto alla garne alla griglia, da succulenti primi a deliziosi dessert.
L'occasione è da annoverare tra le feste a quasi esclusiva partecipazione veneziana, giacché ben pochi turisti arrivano fin qua...
In particolare sabato sera il chiostro di San Francesco della Vigna ha ospitato un importante spettacolo di teatro di ricerca, realizzato dalla Compagnia Teatrocontinuo.
Se ancora qualcuno crede che Venezia sia una città morta dovrebbe venire a vedere quanti Veneziani partecipano a questa come ad altre feste cittadine!
Personalmente ho avuto la fortuna di assitere al bellissimo spettacolo teatrale di sabato sera, ed ho realizzato un piccolo servizio fotografico.
Riporto qui la presentazione dello spettacolo in questione:
Giganti sono coloro che cercano senza alternative, accettando la sfida della destabilizzazione che provoca l'incontro con lo sconosciuto, la trasformazione, il cambiamento; giganti sono acrobati sospesi sulla corda, il bilanciere tra le mani sudate, che passano all'altra parte con spirito leggero.
Lo spettacolo Giganti si configura come un viaggio, rilettura del passato e del presente, prendendo come pretesto la città di Venezia, immenso patrimonio di storia, cultura e umanità.
Venezia diventa nella finzione teatrale come un anziana Signora con problemi di salute e un eredità cospicua che alcuni vorrebbero dilapidare e altri si propongono di conservare: una sfida, quest'ultima, che solo dei Giganti riusciranno ad affrontare, gli stessi che al momento della sua fondazione hanno immaginato e costruito questa straordinaria città anfibia, Utopia dell'umanità.
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giovedì 10 giugno 2010
Pantalon
Uomo più che fatto, decisamente anziano, naso adunco, costume rosso, mantello nero, incarna il carattere di quei mercanti che piantarono la bandiera del Leone di Venezia in ogni angolo del Mediterraneo Orientale (da qui una delle etimologie:"pianta-leone"). In Pantalone la parsimonia può tramutarsi repentinamente in avarizia, la tenerezza senile in libidine, ma anche la severità in comprensione, soprattutto.
Tuttavia fuori del sistema di valori del Teatro dell'Arte, in cui ciascuna maschera ha una decisa connotazione regionale e sociale (per cui Pantalone è il padrone veneziano che parla in veneziano mentre lo Zanni o Arlecchino sono servitori che, provenienti dall'entroterra, si esprimono nel loro rustico dialetto), è difficile riscontrare un qualche elemento di storicità in questa maschera tranne che nell'ambito cittadino cinquecentesco. Tuttora assai apprezzata dal pubblico di tutto il mondo, la Commedia dell'Arte sembra giunta già da lungo tempo al capolinea proprio in Italia e in particolare a Venezia, dove è coltivata da poche compagnie amatoriali o semiprofessionali, laddove al contrario occorrerebbe forse un intervento pubblico per difendere quello che della tradizione ancora resiste (almeno negli archivi e nelle biblioteche). Fatto sta che, salvo rare eccezioni o presenze di grandi attori (come Dario Fo nel Festival della Biennale Teatro del 1985), gli attori che vogliono studiare le maschere dell'Arte devono riparare alle scuole transalpine, così come fecero già a lor tempo gli Arlecchini di Giorgio Strehler, Mario Moretti prima e Ferruccio Soleri dopo.
Ma per Pantalone è diverso: la mimica è ridotta ad un andamento incerto che cerca spesso sicurezza nel bastone e si guarda intorno in modo sospettoso, e quel che più conta è la parola, a volte assai tagliente soprattutto nei confronti dei giovani e delle donne.
Quella che occorre quindi per un Pantalone che sia degno erede di Cesco Baseggio e di Nico Pepe, è una formazione fortemente locale. Nato a Udine nel 1907 e scomparso all'età di ottant'anni, Pepe si considerò un vero missionario del teatro dell'Arte al quale dedicò fino alla fine grandi stage spettacolari, trascinando di città in città, come gli antichi capocomici, un baule ricolmo di maschere. Scoperto anche lui nel '47 da Strehler per la memorabile edizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Pepe coltivò senza sosta la maschera di Pantalone portandone a perfezione l'interpretazione, ma purtroppo senza creare un allievo degno del suo nome.
Singolare è invece la storia di un certo Giambattista Garelli, vissuto a Venezia nel '700, a tal punto straordinario nell'interpretare questa maschera, da diventarne infine prigioniero. Egli infatti veniva stipendiato annualmente dalla famiglia Vendramin perché non abbandonasse mai il teatro di San Salvador...
Fonti: M.Brusegan, A.Scarsella, M.Vittoria, G.Fuga, L.Vianello
Tuttavia fuori del sistema di valori del Teatro dell'Arte, in cui ciascuna maschera ha una decisa connotazione regionale e sociale (per cui Pantalone è il padrone veneziano che parla in veneziano mentre lo Zanni o Arlecchino sono servitori che, provenienti dall'entroterra, si esprimono nel loro rustico dialetto), è difficile riscontrare un qualche elemento di storicità in questa maschera tranne che nell'ambito cittadino cinquecentesco. Tuttora assai apprezzata dal pubblico di tutto il mondo, la Commedia dell'Arte sembra giunta già da lungo tempo al capolinea proprio in Italia e in particolare a Venezia, dove è coltivata da poche compagnie amatoriali o semiprofessionali, laddove al contrario occorrerebbe forse un intervento pubblico per difendere quello che della tradizione ancora resiste (almeno negli archivi e nelle biblioteche). Fatto sta che, salvo rare eccezioni o presenze di grandi attori (come Dario Fo nel Festival della Biennale Teatro del 1985), gli attori che vogliono studiare le maschere dell'Arte devono riparare alle scuole transalpine, così come fecero già a lor tempo gli Arlecchini di Giorgio Strehler, Mario Moretti prima e Ferruccio Soleri dopo.
Ma per Pantalone è diverso: la mimica è ridotta ad un andamento incerto che cerca spesso sicurezza nel bastone e si guarda intorno in modo sospettoso, e quel che più conta è la parola, a volte assai tagliente soprattutto nei confronti dei giovani e delle donne.
Quella che occorre quindi per un Pantalone che sia degno erede di Cesco Baseggio e di Nico Pepe, è una formazione fortemente locale. Nato a Udine nel 1907 e scomparso all'età di ottant'anni, Pepe si considerò un vero missionario del teatro dell'Arte al quale dedicò fino alla fine grandi stage spettacolari, trascinando di città in città, come gli antichi capocomici, un baule ricolmo di maschere. Scoperto anche lui nel '47 da Strehler per la memorabile edizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Pepe coltivò senza sosta la maschera di Pantalone portandone a perfezione l'interpretazione, ma purtroppo senza creare un allievo degno del suo nome.
Singolare è invece la storia di un certo Giambattista Garelli, vissuto a Venezia nel '700, a tal punto straordinario nell'interpretare questa maschera, da diventarne infine prigioniero. Egli infatti veniva stipendiato annualmente dalla famiglia Vendramin perché non abbandonasse mai il teatro di San Salvador...
Fonti: M.Brusegan, A.Scarsella, M.Vittoria, G.Fuga, L.Vianello
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