"Allora caro zio, verrete a vivere con noi?". All'invito del giovane nipote l'uomo rispose con un forte abbraccio. "Sarai come un figlio", esclamò. "Vi terrò come un padre" rispose il ragazzo. Queste reciproche manifestazioni d'affetto, in una splendida giornata di sole a Venezia, venivano poi annotate durante la notte in un quaderno alla fioca luce di una candela. Un quaderno che non era un diario qualunque, ma il libro dei conti e delle confidenze di Lorenzo Lotto: uno dei più grandi, e meno compresi, artisti del Cinquecento. Di carattere difficile, forse arrendevole con troppa facilità, Lorenzo Lotto si trovò a dividere la scena artistica del suo tempo con personalità del calibro di Tiziano e del Bellini. Un confronto non impari, ma nella quale la personalità fragile del Lotto non riuscì a competere.
La convivenza con il giovane nipote Mario veniva vissuta dal pittore con l'animo sulla difensiva e una meticolosità dettate da un carattere costellato di nostalgie e amarezze. Ma anche da un paterna bontà. "Voglio che mi considerino davvero come un padre" egli pensava commosso nel momento in cui, con i pochi soldi messi da parte grazie alle sempre più rade commissioni pittoriche acquistava piccoli regali alla famiglia, soprattutto per le bambine. Chissà quanta tenerezza deve aver provato Lorenzo quando sui banchi del mercato di Rialto sceglieva scarpe e vestitini per la piccola Lauretta.
Qualche volta a cena capitava qualche amico, non molti per la verità, il più assiduo era il Sansovino. Alla sera, Lorenzo annotava tutto sul proprio quaderno, silenzioso e fedele compagno delle sue confidenze. Qualche anno dopo Lorenzo decise che era ormai giunto il momento di togliere il disturbo e si trasferì prima a Treviso, presso un amico, poi partì per le Marche, la terra che più volte in passato l'aveva accolto e gli aveva fornito occasioni di lavoro. Ma neanche lì riuscì a trovare committenti interessati alla sua arte.
Stanco e provato, egli decise, nell'agosto del 1550, di stabilirsi definitivamente a Loreto e di prendere i voti. Nel suo quaderno scrisse: "Per non andarmi avolgendo più in mia vecchiaia ho voluto quetar la vita in questo Santo locho". Lì si spegnerà l'8 settembre del 1554.
Oltre alle straordinarie, e troppo tardi rivalutate, opere d'arte sparse nelle collezioni di tutto il mondo, Lorenzo Lotto ci ha lasciato il proprio quaderno: un documento che rappresenta la grande umanità di questo sfortunato e incompreso artista
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(Fonti: D. Mazzetto - P. Zampetti)
lunedì 17 gennaio 2011
venerdì 14 gennaio 2011
"Non potevo prender sonno la notte scorsa e vegliai a lungo. Stupendamente bello il Canal Grande di notte. Passa una gondola davanti al palazzo. In lontananza, gondolieri si chiamano l'un l'altro col canto. Ciò è straordinariamente bello e nobile. Questi motivi profondamente melanconici che, cantati con voce intonata e possente, vanno, trascorrendo sulle acque, a spegnersi più lontano ancora, mi hanno altamente ispirato. Sublime."
(Richard Wagner, 1858)
(Richard Wagner, 1858)
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giovedì 13 gennaio 2011
Il progenitore del Cinema
Verso la fine del Settecento, in giro per Venezia e in special modo nei pressi di Campo Santa Maria Formosa, sostavano le prime "scatole magiche", che attraevano e incuriosivano i passanti. Erano dei rudimentali visori in legno, sorretti da un treppiede, nelle quali attraverso un apposito foro munito di lenti si poteva vedere, a pagamento, delle immagini panoramiche, a volte anche con effetti tridimensionali, di varie parti del mondo, in special modo dell'America, allora chiamata "Mondo Nuovo". Le immagini vennero ben presto associate all'apparecchio stesso, che prese così, nella parlata comune, questo nome.
La gente si accalcava per guardare quelle immagini di paesi lontani, portando anche i bambini, proprio come in seguito al cinema (di cui il "Mondo novo" può essere considerato un progenitore). Tecnicamente consisteva in una sorta di scatola al cui interno un fascio di luce (prima una semplice candela, poi una lampada ad olio, e per questo motivo era chiamata anche "lanterna magica"), colpiva un'immagine trasparente (in genere immagini dipinte su lastre di vetro) e la proiettava ingrandita su un schermo bianco.
Oltre all'immagine (qui sopra) dell'incisore G. Zompini che documenta l'oggetto in sé, è rimasto celebre l'affresco di Giandomenico Tiepolo che raffigura una piccola folla di spalle in attesa di poter ammirare i lontani paesaggi grazie alla "scatola magica".
Alcuni esemplari ancora funzionanti sono esposti presso il Museo Nazionale del Cinema a Torino
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(fonti: M. Brusegan - E. Pascarella)
La gente si accalcava per guardare quelle immagini di paesi lontani, portando anche i bambini, proprio come in seguito al cinema (di cui il "Mondo novo" può essere considerato un progenitore). Tecnicamente consisteva in una sorta di scatola al cui interno un fascio di luce (prima una semplice candela, poi una lampada ad olio, e per questo motivo era chiamata anche "lanterna magica"), colpiva un'immagine trasparente (in genere immagini dipinte su lastre di vetro) e la proiettava ingrandita su un schermo bianco.
Oltre all'immagine (qui sopra) dell'incisore G. Zompini che documenta l'oggetto in sé, è rimasto celebre l'affresco di Giandomenico Tiepolo che raffigura una piccola folla di spalle in attesa di poter ammirare i lontani paesaggi grazie alla "scatola magica".
Alcuni esemplari ancora funzionanti sono esposti presso il Museo Nazionale del Cinema a Torino
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(fonti: M. Brusegan - E. Pascarella)
martedì 11 gennaio 2011
“Quando cerco una parola per sostituire musica, non trovo altro che Venezia”
(F. Nietzsche)
(F. Nietzsche)
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lunedì 10 gennaio 2011
Il Sol Levante a Venezia
All'ultimo piano di Ca' Pesaro, oggi sede della Galleria Internazionale d'Arte Moderna, da molti anni si trova il Museo d'Arte Orientale di Venezia.
Venezia fu, nel 1873, la prima città europea in cui venne istituito un consolato giapponese dopo San Francisco e New York - quello stesso anno furono istituiti in città dei corsi di lingua giapponese, oggi quei corsi sono confluiti nell'Università di Cà Foscari. Pochi anni più tardi anche l'arte giapponese fece il suo ingresso ufficiale in Europa sempre attraverso Venezia con la partecipazione di alcuni artisti alla seconda Biennale Internazionale d'Arte nel 1897.
Il Museo costituisce una delle più importanti collezioni mondiali di arte giapponese del Periodo Edo. Raccolta che il Principe Enrico II di Borbone, conte di Bardi, acquistò durante il suo viaggio in Asia, compiuto tra il 1887 ed il 1889. Più di 30.000 pezzi tra i quali spade e pugnali, armature giapponesi, delicate lacche e preziose porcellane, con ampie sezioni dedicate all’arte cinese e indonesiana.
D'altra parte i rapporti tra Venezia e l'estremo oriente risalgono già ai tempi di Marco Polo e del suo mitico viaggio.
Da sempre corre voce che tra le sale di Ca' Pesaro si aggiri lo spettro di un antico samurai, bardato dell'armatura tipica dei guerrieri giapponesi e armato della leggendaria katana, la spada creata per servire un solo combattente.
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Venezia fu, nel 1873, la prima città europea in cui venne istituito un consolato giapponese dopo San Francisco e New York - quello stesso anno furono istituiti in città dei corsi di lingua giapponese, oggi quei corsi sono confluiti nell'Università di Cà Foscari. Pochi anni più tardi anche l'arte giapponese fece il suo ingresso ufficiale in Europa sempre attraverso Venezia con la partecipazione di alcuni artisti alla seconda Biennale Internazionale d'Arte nel 1897.
Il Museo costituisce una delle più importanti collezioni mondiali di arte giapponese del Periodo Edo. Raccolta che il Principe Enrico II di Borbone, conte di Bardi, acquistò durante il suo viaggio in Asia, compiuto tra il 1887 ed il 1889. Più di 30.000 pezzi tra i quali spade e pugnali, armature giapponesi, delicate lacche e preziose porcellane, con ampie sezioni dedicate all’arte cinese e indonesiana.
D'altra parte i rapporti tra Venezia e l'estremo oriente risalgono già ai tempi di Marco Polo e del suo mitico viaggio.
Da sempre corre voce che tra le sale di Ca' Pesaro si aggiri lo spettro di un antico samurai, bardato dell'armatura tipica dei guerrieri giapponesi e armato della leggendaria katana, la spada creata per servire un solo combattente.
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sabato 8 gennaio 2011
"Domani tuttavia dovrò lasciare le mie dolci gondole. In questo momento sono in una di esse, in veste da camera e pantofole, intento a scrivere in mezzo alla strada, cullato ad interim da una musica celeste"
(Charles de Brosses)
(Charles de Brosses)
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venerdì 7 gennaio 2011
Il Mondo Nuovo di Giandomenico Tiepolo
Tutta una folla, vista di spalle o di profilo, che assisteva ad uno spettacolo invisibile. In lontananza, il mare. Un'esecuzione sorprendente. Personaggi sorpresi in atteggiamenti famigliari durante una scena pubblica. Ma niente a che vedere con l'estro sorridente di Longhi o di Guardi. Blu lattiginosi, giacche color crema, arancio spento, abiti beige. Una sorta di morbida ieraticità nella curva delle spalle, nella posizione delle teste. La sensazione che tutta questa folla colta nell'energia dell'istante deviasse al contempo verso un altrove silenzioso, uno spazio onirico.
La delicatezza delle tonalità sembra giungere da un'Italia lontana e spirituale, quella di Piero della Francesca, ma il soggetto è incredibilmente moderno, di una stranezza funambolesca. Invitare a guardare ciò che non si vedrà. Uno spettacolo di strada. Tutte le categorie sociali mescolate, dal borghese panciuto con la parrucca al Pierrot uscito dritto dalle scene della commedia dell'arte, dalle popolane prosperose protese in avanti alla dama elegante con il cappello in testa e una mano sul fianco.
Ma il vero segreto è il personaggio arrampicato su uno sgabello e che tiene in mano una lunga bacchetta, una specie di asta, la cui estremità raggiunge il centro della scena. Che significato attribuire al suo gesto? Non è per attirare l'attenzione dei curiosi, già catturati dallo spettacolo. Interviene forse come deus ex machina, per fungere da interprete tra il pittore e gli spettatori dell'affresco, per sottolineare l'importanza di ciò che resta invisibile ai nostri occhi?"
(P. Delerm)
"L'affresco rappresenta una piccola baracca intorno alla quale si agita una folla di gente ansiosa di affacciarsi. Che cosa si vede? Che cosa ci si potrebbe vedere? Forse che un pittore di due secoli fa ha intravisto questo nostro "mondo" purtroppo "nuovo" perché inverosimile?"
(G. Francesco Malipiero)
[L'affresco in questione si trova al Museo del Settecento di Ca' Rezzonico, Venezia]
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giovedì 6 gennaio 2011
"Mentre l'arte fiorentina si distingue nel disegno, nella compattezza plastica e nella struttura architettonica, l'arte veneziana si concentra sul colore e l'atmosfera, sulla squisitezza pittorica e l'armonia musicale"
(Erwin Panofsky)
(Erwin Panofsky)
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mercoledì 5 gennaio 2011
Venezia all'alba del XX secolo
Davanti all'obiettivo di Tomaso Filippi, alcune giovani veneziane si espongono con candore popolare che intenerisce: colgono l'acqua dai pozzi, rattoppano le reti da pesca, oppure vendono ceste di pesce al mercato di Rialto. Le loro madri, sedute in cerchio sull'uscio di casa, infilano perle chiacchierando tra loro. I corpi sono infagottati negli abiti consunti e troppo larghi. I volti sono tristi, i capelli ribelli, le scarpe scalcagnate.
Quando l'alba sorge sul XX secolo, Venezia soffre di un netto ritardo rispetto alle altre città italiane. Bisogna creare lavoro, unire l'isola alla terraferma. La fragile struttura acquatica viene sventrata con fragore e brutalità. La modernità preme e si affretta ad omogeneizzare e banalizzare tutto.
I ricchi stranieri acquistano a basso prezzo i palazzi da sogno che erano stati abbandonati dalle antiche famiglie patrizie della Serenissima. I nuovi occupanti ricevono ed invitano il fior fiore degli scrittori, dei pittori, degli esteti e dei collezionisti che, di giorno e di notte, esplorano, con il naso all'insù, il labirinto delle calli silenziose e deserte. All'ora del tè si passeggia in Piazza San Marco, prima di ritrovarsi al Quadri o al Florian, sulle piccole panchine cremisi, avvolti nei cappotti confezionati dallo spagnolo Mariano Fortuny. Si vive Venezia dentro se stessi, come una religione. Infine, calata la sera, sotto le stelle, nelle gondole o nelle barche da pesca, ci si dà alla serenata, ripassando o inventando melodie veneziane.
Offesi e feriti da una modernità rumorosa, invadente ed aggressiva, molti veneziani guardano con diffidenza e freddezza la loro immagine dai contorni poco definiti che si riflette nello specchio spezzato del presente.
L'amore folle, ossessivo, a volte addirittura morboso degli stranieri per Venezia aiuta forse alcuni di loro a riprendere il filo del discorso bruscamente interrotto con il loro passato. A scendere nel pozzo buio e profondo della storia per cercarvi i tesori che decenni di occupazione francese ed austriaca avevano finito col nascondere e far dimenticare. Un patrimonio la cui esistenza era stata cancellata, e che bisognava ora riesumare, trascrivere, pubblicare, suonare, studiare e trasmettere ai più giovani.
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Quando l'alba sorge sul XX secolo, Venezia soffre di un netto ritardo rispetto alle altre città italiane. Bisogna creare lavoro, unire l'isola alla terraferma. La fragile struttura acquatica viene sventrata con fragore e brutalità. La modernità preme e si affretta ad omogeneizzare e banalizzare tutto.
I ricchi stranieri acquistano a basso prezzo i palazzi da sogno che erano stati abbandonati dalle antiche famiglie patrizie della Serenissima. I nuovi occupanti ricevono ed invitano il fior fiore degli scrittori, dei pittori, degli esteti e dei collezionisti che, di giorno e di notte, esplorano, con il naso all'insù, il labirinto delle calli silenziose e deserte. All'ora del tè si passeggia in Piazza San Marco, prima di ritrovarsi al Quadri o al Florian, sulle piccole panchine cremisi, avvolti nei cappotti confezionati dallo spagnolo Mariano Fortuny. Si vive Venezia dentro se stessi, come una religione. Infine, calata la sera, sotto le stelle, nelle gondole o nelle barche da pesca, ci si dà alla serenata, ripassando o inventando melodie veneziane.
Offesi e feriti da una modernità rumorosa, invadente ed aggressiva, molti veneziani guardano con diffidenza e freddezza la loro immagine dai contorni poco definiti che si riflette nello specchio spezzato del presente.
L'amore folle, ossessivo, a volte addirittura morboso degli stranieri per Venezia aiuta forse alcuni di loro a riprendere il filo del discorso bruscamente interrotto con il loro passato. A scendere nel pozzo buio e profondo della storia per cercarvi i tesori che decenni di occupazione francese ed austriaca avevano finito col nascondere e far dimenticare. Un patrimonio la cui esistenza era stata cancellata, e che bisognava ora riesumare, trascrivere, pubblicare, suonare, studiare e trasmettere ai più giovani.
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lunedì 20 dicembre 2010
Claudio Monteverdi, maestro di cappella a San Marco
Claudio Monteverdi nasce nel 1565 a Cremona e comincia la sua carriera di musicista al servizio del duca Gonzaga, alla corte di Mantova.
Resta vedovo nell'inverno 1607, durante la rappresentazione della sua prima opera, Orfeo, presso il teatro di corte. Dopo la morte del duca, Monteverdi si presenta al concorso per il posto di maestro di cappella a San Marco, vince e occupa quella carica fino alla morte, nel 1643.
Nella cappella musicale del Doge, Monteverdi assume la successione artistica di Willaert e dei Gabrieli, e trasforma la scrittura dei cori battenti, tipica del Rinascimento, in uno stile concertante, caratteristico dell'epoca barocca. La presenza di Monteverdi a San Marco corrisponde al periodo di maggior splendore, non solo per la qualità della musica, ma anche per la coesione della cappella, che Monteverdi dirige con maestria.
A Venezia intraprende una brillante carriera di compositore: lavora per i Palazzi, per le Accademie, per le Confraternite, pubblica innumerevoli madrigali e opere drammatiche. Ormai avanti con l'età partecipa all'avventura della nascita dell'opera, della quale è considerato uno dei fondatori.
Gli stili sacro e profano si avvicinano, sulla scia delle scene teatrali, il canto solista diventa sempre più virtuoso ed espressivo. Monteverdi afferma le proprie idee restituendo al senso e alla chiarezza del testo tutta la loro importanza. Il testo era infatti diventato incomprensibile nei madrigali del Rinascimento.
Nel 1632, Monteverdi prende i voti e si isola dal mondo. Il suo ritratto attribuito a Bernardo Strozzi ce lo presenta con l'abito talare, il volto emaciato, la barba elegantemente tagliata, e un libro di musica in mano.
Il Lamento di Arianna ("Lasciatemi morire", unica aria esistente della sua seconda opera rappresentata nel 1608 a Mantova) viene parodiato nel mottetto Il pianto della Madonna che chiude la raccolta. Dunque, alla fine dei suoi giorni, Monteverdi si identifica in questa aria che aveva composto trent'anni prima, per un'Arianna in lacrime, soltanto qualche mese dopo la morte di sua moglie. Venezia è esaltata nella sua femminilità, la sua fragilità e il suo candore, tramite questa Vergine commovente.
Monteverdi si spegne nel novembre 1643. Le sue spoglie riposano nella Cappella dei Milanesi alla Basilica dei Frari.
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(Fonte: S. Mamy)
Resta vedovo nell'inverno 1607, durante la rappresentazione della sua prima opera, Orfeo, presso il teatro di corte. Dopo la morte del duca, Monteverdi si presenta al concorso per il posto di maestro di cappella a San Marco, vince e occupa quella carica fino alla morte, nel 1643.
Nella cappella musicale del Doge, Monteverdi assume la successione artistica di Willaert e dei Gabrieli, e trasforma la scrittura dei cori battenti, tipica del Rinascimento, in uno stile concertante, caratteristico dell'epoca barocca. La presenza di Monteverdi a San Marco corrisponde al periodo di maggior splendore, non solo per la qualità della musica, ma anche per la coesione della cappella, che Monteverdi dirige con maestria.
A Venezia intraprende una brillante carriera di compositore: lavora per i Palazzi, per le Accademie, per le Confraternite, pubblica innumerevoli madrigali e opere drammatiche. Ormai avanti con l'età partecipa all'avventura della nascita dell'opera, della quale è considerato uno dei fondatori.
Gli stili sacro e profano si avvicinano, sulla scia delle scene teatrali, il canto solista diventa sempre più virtuoso ed espressivo. Monteverdi afferma le proprie idee restituendo al senso e alla chiarezza del testo tutta la loro importanza. Il testo era infatti diventato incomprensibile nei madrigali del Rinascimento.
Nel 1632, Monteverdi prende i voti e si isola dal mondo. Il suo ritratto attribuito a Bernardo Strozzi ce lo presenta con l'abito talare, il volto emaciato, la barba elegantemente tagliata, e un libro di musica in mano.
Il Lamento di Arianna ("Lasciatemi morire", unica aria esistente della sua seconda opera rappresentata nel 1608 a Mantova) viene parodiato nel mottetto Il pianto della Madonna che chiude la raccolta. Dunque, alla fine dei suoi giorni, Monteverdi si identifica in questa aria che aveva composto trent'anni prima, per un'Arianna in lacrime, soltanto qualche mese dopo la morte di sua moglie. Venezia è esaltata nella sua femminilità, la sua fragilità e il suo candore, tramite questa Vergine commovente.
Monteverdi si spegne nel novembre 1643. Le sue spoglie riposano nella Cappella dei Milanesi alla Basilica dei Frari.
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(Fonte: S. Mamy)
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