Fondata nel 639, come ricorda l'iscrizione epigrafica a sinistra del coro (considerato il più antico documento in laguna), fu fatta ricostruire nel 1008 da Orso Orseolo, figlio del doge Pietro Orseolo II, quando divenne vescovo di Torcello.
L'edificio veneto-bizantino (in forma basilicale romanica) si presenta a tre navate, con pietre a vista, una facciata centrale sopraelevata scandita da sei lesene e un porticato antistante. Questo, originariamente sorretto da quattro colonne, ne vide aggiungersi altre da entrambi i lati, che lo portarono a congiungersi con quello di Santa Fosca nel corso del XIV e XV secolo.
Sul lato destro si erge la grande torre quadrata del campanile (XII secolo), emblema, come nelle contemporanee Pomposa e Aquileia, della potenza della città.
Anticamente la facciata era affiancata da un battistero a pianta circolare di cui ancora si possono vedere le fondamenta.
Sul fianco della chiesa sono interessanti le chiusure delle finestre centinate a grandi lastroni di pietra movibili su cardini anch'essi di pietra.
Il soffitto ligneo, ad incavallature scoperte, è rimasto forse quello originario.
L'ampia e luminosa navata tripla, con le alte colonne che sorreggono capitelli in parte romani e in parte imitati nelle officine veneziane, ricorda Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna.
Il pavimento in mosaico di marmo è sopraelevato di circa venti centimetri sul preesistente del IX secolo, lavorato con cubetti bianchi e neri i cui resti si possono ammirare attraverso due botole.
Il presbiterio, ai cui piedi è posta la pietra tombale del vescovo Paolo di Altino, è segnato dall'iconostasi con al centro la porta sacra, delimitata da tre sottili colonne, chiuse per metà da plutei marmorei bizantini dell'XI secolo, adorni, come merletti di pietra, da immagini di fiori, leoni e pavoni che si abbeverano alla fontana divina. Le colonne sorreggono tavole quattrocentesche che rappresentano la Madonna attorniata dai dodici apostoli, su cui si innalza il coevo crocifisso ligneo.
L'altare, il cui piano è di spesso marmo greco, è stato ricostruito nel 1939 in luogo di un deturpante impianto barocco. Ai suoi piedi, protetto da una grata, si trova un sarcofago romano del III secolo che contiene le spoglie del santo vescovo altinate Eliodoro (spoglie traslate a Torcello in seguito alla conquista di Altino da parte dei Longobardi).
La conca absidale si apre con il trono del vescovo addossato all'abside, come in Santa Maria delle Grazie a Grado (V secolo). Questo si erge su gradinate circolari e vi si accede salendo dieci scalini, simbolo dei dieci comandamenti.
Sopra il trono episcopale è rappresentato, a mosaico, Sant'Eliodoro. Gli apostoli, vestiti con il proprio simbolo come nelle chiese ravennati, procedono simmetricamente sotto i piedi della Vergine. Al centro della processione si apre una finestrella, simbolo della luce divina, e la Vergine bizantina Teotoga (XII secolo), regalmente vestita e isolata nello spazio dorato del catino absidale, rappresenta l'incontro tra l'umano e il divino.
Tre le sue braccia regge il Bambino, che porta il rotolo della legge, mentre dalle sue mani pende un fazzoletto bianco, simbolo della mater dolorosa.
Il loro sguardo dolcissimo rapisce l'osservatore.
L'abside della cappella laterale destra, decorata a mosaico nel IX secolo e rimaneggiata nel XII secolo, rappresenta quattro dottori della Chiesa: Agostino, Ambrogio, Martino e Gregorio. Sopra è il Cristo Pantocratore con la tavola delle leggi attorniato dagli arcangeli Michele e Gabriele.
Nella cappella laterale sinistra permangono resti di un affresco duecentesco, e sulla stessa navata trova posto la piccola pala di Maria Vergine dipinta da Tintoretto.
L'imponente mosaico del Giudizio universale (XI - XII secolo), che occupa l'intera parete ovest (controfacciata), doveva ricordare ai fedeli che uscivano dalla funzione il destino finale.
Il racconto articolato in sei sequenze si legge dall'alto verso il basso: dalla Crocifissione alla separazione degli eletti dai dannati. Proprio nella raffigurazione di questi ultimi vi è la ricerca di un carattere narrativo più naturalistico, intensamente espressivo e radicalmente veneto: lo stesso carattere che si ritroverà nella Basilica di San Marco dove i mosaicisti si trasferirono alla fine di questo imponente lavoro.
lunedì 7 luglio 2014
giovedì 19 giugno 2014
Francesco Hayez, un romantico veneziano
Francesco
Hayez nacque a Venezia, nella parrocchia di Santa Maria Mater Domini il 10 febbraio 1791. La sua famiglia era molto povera e venne allevato da uno zio, che lo avviò alla pittura (avendone manifestata una forte propensione fin da fanciullo).
Nel 1806 venne accettato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo insegnante era Teodoro Matteini, pittore preromantico, famoso come ritrattista, parzialmente influenzato dalla pittura inglese contemporanea.
Nel 1809 partecipa ad un concorso e vince una borsa di studio a Roma, dove viene accolto da Canova. il quale lo indirizza allo studio dei classici del passato. Francesco Hayez a Roma vive come in un bosco incantato.
Stringe amicizia anche con Ingres, che all'epoca era già piuttosto celebrato, ma lo batterà qualche anno più tardi alla competizione dell'Accademia di San Luca. dove vincerà il suo primo premio.
Nel 1820 il suo dipinto Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, presentato a Brera, diventerà una sorta di manifesto del nuovo stile Romantico italiano. Grazie a questa e alle seguenti opere, Hayez entra a far parte dei più importanti pittori che cercavano di liberarsi dai classicismi per illustrare temi storici e letterali legati al movimento contemporaneo del Risorgimento.
All'età di quarantanni Hayez è pittore affermato e riconosciuto.
Si stabilisce stabilmente a Milano dove apre un grande studio e diventa amico di Manzoni e Rossini.
Oltre alle opere di carattere storico, Hayez diventa famoso per alcuni dipinti più intimistici, a volte tendenti alla retorica, come il celebre Bacio del 1859. Ma ci lascia anche alcune lucide introspettive e rigorosi e perfetti ritratti, come quello di Gioacchino Rossini del 1870.
I suoi ritratti femminili sono tra le più alte espressioni della pittura del diciannovesimo secolo.
Muore a Milano nel 1882.
A Venezia una targa ricorda la sua casa natia in Corte Rota, nel sestiere di Santa Croce.
(fonte: Aldo Andreolo)
Nel 1806 venne accettato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo insegnante era Teodoro Matteini, pittore preromantico, famoso come ritrattista, parzialmente influenzato dalla pittura inglese contemporanea.
Nel 1809 partecipa ad un concorso e vince una borsa di studio a Roma, dove viene accolto da Canova. il quale lo indirizza allo studio dei classici del passato. Francesco Hayez a Roma vive come in un bosco incantato.
Stringe amicizia anche con Ingres, che all'epoca era già piuttosto celebrato, ma lo batterà qualche anno più tardi alla competizione dell'Accademia di San Luca. dove vincerà il suo primo premio.
Nel 1820 il suo dipinto Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, presentato a Brera, diventerà una sorta di manifesto del nuovo stile Romantico italiano. Grazie a questa e alle seguenti opere, Hayez entra a far parte dei più importanti pittori che cercavano di liberarsi dai classicismi per illustrare temi storici e letterali legati al movimento contemporaneo del Risorgimento.
All'età di quarantanni Hayez è pittore affermato e riconosciuto.
Si stabilisce stabilmente a Milano dove apre un grande studio e diventa amico di Manzoni e Rossini.
Oltre alle opere di carattere storico, Hayez diventa famoso per alcuni dipinti più intimistici, a volte tendenti alla retorica, come il celebre Bacio del 1859. Ma ci lascia anche alcune lucide introspettive e rigorosi e perfetti ritratti, come quello di Gioacchino Rossini del 1870.
I suoi ritratti femminili sono tra le più alte espressioni della pittura del diciannovesimo secolo.
Muore a Milano nel 1882.
A Venezia una targa ricorda la sua casa natia in Corte Rota, nel sestiere di Santa Croce.
(fonte: Aldo Andreolo)
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mercoledì 21 maggio 2014
L'isola di Poveglia
L'isola di Poveglia è situata a sud-ovest della laguna veneziana, di fronte a Malamocco.
Anticamente era denominata "Popilia", forse a causa della presenza di numerosi alberi di pioppo, o forse in onore del Console romano Popilio Lena, che aveva fatto costruire la parte settentrionale della via Emilia-Altinate.
Nel 421 l'isola fu occupata dai profughi fuggiti dalle città di Padova e d'Este a causa delle invasioni barbariche. Nell'anno 809 gli abitanti dell'isola si trasferirono nella zona di Rivoalto (attuale Rialto) a causa della guerra di Pipino re di Francia contro Venezia.
Nell'864 venne ucciso il doge Pietro Tradonico (13° doge) a seguito di una congiura. I servi del doge si barricarono nel Palazzo Ducale chiedendo "giustizia" per l'avvenuto omicidio. Il nuovo doge, Orso Partecipazio, riuscì a trattare con la servitù del suo predecessore e permise loro di abitare nell'isola di Poveglia, concedendo ai nuovo abitanti diversi privilegi.
Nell'isola venne costruita una chiesa, con campanile, convento e cavana. L'isola si popolò di circa duecento famiglie, che dopo un secolo si erano moltiplicate ed avevano edificato più d'ottocento case, avviando la coltivazione di campi e orti. Fu anche realizzata la costruzione di un castello fortificato.
L'amministrazione dell'isola era anticamente tenuta da un Tribuno, poi da un Gastaldo Ducale ed infine da un Podestà. Nel 1379 fu deciso dal Senato lo smantellamento del castello fortificato.
Durante la guerra di Chioggia (contro i genovesi), gli abitanti di Poveglia si trasferirono alla Giudecca. Finita la guerra, i povegliani ritornarono in isola, ma la trovarono erosa dalle acque. In seguito la popolazione diminuì sensibilmente, ma per chi decideva di restare furono offerti molti privilegi, come quello di non pagare le tasse, di fare la scorta d'onore al Bucintoro durante la Festa della Sensa, la libera compravendita del pesce per gli anziani e l'esenzione dal servizio militare.
Nel 1527, il magistrato alle Rason Vecchie, che controllava gli interessi di Poveglia, offrì l'isola ai Camaldolesi, che però non l'accettarono. Nel 1777 l'isola passò sotto la giurisdizione del Magistrato alla Sanità. Dal 1793 al 1799, Poveglia fu trasformata in un lazzaretto provvisorio, in quanto su due navi in transito in laguna era scoppiata la peste.
Tra il 1805 e il 1814 l'isola venne nuovamente utilizzata come lazzaretto, essendo tra l'altro piuttosto distante da Venezia. Sotto la dominazione francese, la chiesa venne chiusa. Al suo interno c'era un bel pavimento di marmo, un Crocefisso e una tavola del Tiziano. Il Crocefisso ora è conservato nella chiesa di Malamocco.
Durante l'occupazione austriaca, il campanile della chiesa venne utilizzato come faro.
All'inizio del Novecento l'isola fu utilizzata come luogo di convalescenza per lunghe malattie e come casa di riposo per anziani, ma dal 1968 anche questo utilizzo venne dismesso e l'isola fu ceduta al Demanio.
Nel 2013, assieme a San Giacomo in Paludo, Poveglia è stata messa in vendita per essere recuperata a fini turistici. Nell'aprile del 2014 è nata un'associazione senza fini di lucro, Poveglia per tutti, con lo scopo di partecipare al bando del demanio per aggiudicarsi il possesso dell'isola per 99 anni e permetterne l'uso pubblico. Il 13 maggio 2014 l'imprenditore Luigi Brugnaro, patron di Umana, si è aggiudicato all'asta l'isola per il prezzo di 513mila euro. L’affidamento definitivo è stato però rinviato al 13 giugno, e in questi giorni i tecnici dovranno valutare con attenzione la «congruità dell’offerta».
Anticamente era denominata "Popilia", forse a causa della presenza di numerosi alberi di pioppo, o forse in onore del Console romano Popilio Lena, che aveva fatto costruire la parte settentrionale della via Emilia-Altinate.
Nel 421 l'isola fu occupata dai profughi fuggiti dalle città di Padova e d'Este a causa delle invasioni barbariche. Nell'anno 809 gli abitanti dell'isola si trasferirono nella zona di Rivoalto (attuale Rialto) a causa della guerra di Pipino re di Francia contro Venezia.
Nell'864 venne ucciso il doge Pietro Tradonico (13° doge) a seguito di una congiura. I servi del doge si barricarono nel Palazzo Ducale chiedendo "giustizia" per l'avvenuto omicidio. Il nuovo doge, Orso Partecipazio, riuscì a trattare con la servitù del suo predecessore e permise loro di abitare nell'isola di Poveglia, concedendo ai nuovo abitanti diversi privilegi.
Nell'isola venne costruita una chiesa, con campanile, convento e cavana. L'isola si popolò di circa duecento famiglie, che dopo un secolo si erano moltiplicate ed avevano edificato più d'ottocento case, avviando la coltivazione di campi e orti. Fu anche realizzata la costruzione di un castello fortificato.
L'amministrazione dell'isola era anticamente tenuta da un Tribuno, poi da un Gastaldo Ducale ed infine da un Podestà. Nel 1379 fu deciso dal Senato lo smantellamento del castello fortificato.
Durante la guerra di Chioggia (contro i genovesi), gli abitanti di Poveglia si trasferirono alla Giudecca. Finita la guerra, i povegliani ritornarono in isola, ma la trovarono erosa dalle acque. In seguito la popolazione diminuì sensibilmente, ma per chi decideva di restare furono offerti molti privilegi, come quello di non pagare le tasse, di fare la scorta d'onore al Bucintoro durante la Festa della Sensa, la libera compravendita del pesce per gli anziani e l'esenzione dal servizio militare.
Nel 1527, il magistrato alle Rason Vecchie, che controllava gli interessi di Poveglia, offrì l'isola ai Camaldolesi, che però non l'accettarono. Nel 1777 l'isola passò sotto la giurisdizione del Magistrato alla Sanità. Dal 1793 al 1799, Poveglia fu trasformata in un lazzaretto provvisorio, in quanto su due navi in transito in laguna era scoppiata la peste.
Tra il 1805 e il 1814 l'isola venne nuovamente utilizzata come lazzaretto, essendo tra l'altro piuttosto distante da Venezia. Sotto la dominazione francese, la chiesa venne chiusa. Al suo interno c'era un bel pavimento di marmo, un Crocefisso e una tavola del Tiziano. Il Crocefisso ora è conservato nella chiesa di Malamocco.
Durante l'occupazione austriaca, il campanile della chiesa venne utilizzato come faro.
All'inizio del Novecento l'isola fu utilizzata come luogo di convalescenza per lunghe malattie e come casa di riposo per anziani, ma dal 1968 anche questo utilizzo venne dismesso e l'isola fu ceduta al Demanio.
Nel 2013, assieme a San Giacomo in Paludo, Poveglia è stata messa in vendita per essere recuperata a fini turistici. Nell'aprile del 2014 è nata un'associazione senza fini di lucro, Poveglia per tutti, con lo scopo di partecipare al bando del demanio per aggiudicarsi il possesso dell'isola per 99 anni e permetterne l'uso pubblico. Il 13 maggio 2014 l'imprenditore Luigi Brugnaro, patron di Umana, si è aggiudicato all'asta l'isola per il prezzo di 513mila euro. L’affidamento definitivo è stato però rinviato al 13 giugno, e in questi giorni i tecnici dovranno valutare con attenzione la «congruità dell’offerta».
giovedì 15 maggio 2014
Marco Polo e il Milione
A Genova, nell'autunno del 1298, dopo la battaglia di Curzola, il "nobile cuore dei genovesi ha la gentile saggezza di fare a Marco Polo, tra gli altri cinquemila prigionieri in attesa di riscatto, onorevole cortesia" (Anonimo Genovese).
La prigionia di Marco Polo a Genova è una prigionia dorata, analoga a quella di Re Enzo a Bologna (molto diversa da quella del conte Ugolino a Pisa o da quella di Iacopone da Todi...).
In prigione Marco Polo si ritrova come compagno di cella Rustichello da Pisa, che era lì dal 1284.
Rustichello da Pisa è uno scrittore abbastanza noto, specializzato in rifacimenti di romanzi della Tavola Rotonda. Rustichello non scrive in questo o quel neo-latino d'Italia, né in latino, bensì in "francese di Lombardia" (derivato dalla lingua d'oil).
Nella dorata prigionia di Genova, il veneziano Marco Polo parla e parla col pisano Rustichello, e può darsi che parlino proprio in "francese di Lombardia" (forse Marco parla in "franco-veneto"... è sempre affascinante immaginare in quali lingue comunicassero le persone nei secoli passati).
Verosimilmente Marco Polo è un bravo narratore, a voce. Raccontare le cose oralmente a volte, a certe persone, vien meglio che per iscritto. Per esempio Giovanni da Pian del Carpine raccontava meglio i suoi viaggi a voce che per iscritto. Ma Giovanni da Pian del Carpine era anche uno che provava a scriverli (senza troppo successo) i suoi racconti (in latino); forse qualche impaccio della sua inettitudine di scrittore si riverberava nel parlare. Marco Polo non aveva nemmeno questo impaccio, probabilmente Marco Polo non aveva mai preso la penna in mano, se non per i suoi conti da mercante.
Così, per nostra grandissima fortuna, Marco Polo parla liberamente, a braccio, e Rustichello da Pisa, ascolta, socchiudendo gli occhi. Che storie straordinarie! Come assomigliano ai romanzi della Tavola Rotonda che Rustichello da Pisa ha nelle orecchie!
Poi Rustichello inizierà a scrivere quel che Marco Polo gli racconta.
Che un libro possa nascere così lo vediamo tutti i giorni. Un uomo politico, un capitano d'industria, un campione sportivo o un'attrice, firmano un libro di memorie che è stato scritto per loro incarico da un romanziere o da un giornalista. A volte in copertina figurano i due nomi, a volte ne figura solo uno: il nome di chi non ha scritto il libro...
Fiumi di inchiostro son corsi ponendosi il problema della vera paternità del libro che nasce a Genova sotto la penna di Rustichello da Pisa, seguendo (come?) le labbra di Marco Polo. Una cosa è certa, il libro ha molto l'aria di esser stato scritto da un rifacitore professionista di romanzi della Tavola Rotonda.
Il libro ha subito un'immensa fortuna, proprio perché si fa leggere come un libro di intrattenimento. Uno dei titoli che ha nei codici rimastici è Le divisament dou monde (in "francese di Lombardia" significa: "La descrizione del mondo"). Viene poi riscritto in francese e assume il titolo di Livre des merveilles ("Libro delle meraviglie"). Ha immediatamente una traduzione in latino: De mirabilibus mundi ("Le meraviglie del mondo"). In traduzione latina leggerà questo libro, scritto a Genova, il (forse) genovese Cristoforo Colombo, e ci si scalderà la fantasia, e ci farà delle note (il codice postillato da Cristoforo Colombo si conserva nella Biblioteca di Siviglia). Seguiranno traduzioni in neo-latino veneziano e in neo-latino fiorentino. Titolo: Libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione. Il soprannome "milione" sembra derivare dal fatto che la gente non creda minimamente ai suoi racconti, e ritiene che siano un milione di frottole. Ma tutti ritengono che il libro sia davvero molto bello da leggere.
Il Milione vive quindi molte vite e avrà innumerevoli traduzioni. In molti manoscritti viene trascritto insieme ai romanzi della Tavola Rotonda o ai romanzi del "ciclo classico" (tratti da Omero e Virgilio). Non è forse un caso se Matteo Maria Boiardo, scrivendo l'Orlando Innamorato, fa provenire la bellissima Angelica proprio dal Catai...
Resta da dire che Il Milione, per chi ha gusti letterari, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Oscar Wilde lo metteva nel numero ristrettissimo dei libri che val la pena di leggere, anzi, nel numero ancor più ristretto dei libri che val la pena di rileggere.
Vi consigliamo pertanto di leggere e rileggere il Milione, e non abbiamo altro da dire.
(fonte: G. Dossena)
La prigionia di Marco Polo a Genova è una prigionia dorata, analoga a quella di Re Enzo a Bologna (molto diversa da quella del conte Ugolino a Pisa o da quella di Iacopone da Todi...).
In prigione Marco Polo si ritrova come compagno di cella Rustichello da Pisa, che era lì dal 1284.
Rustichello da Pisa è uno scrittore abbastanza noto, specializzato in rifacimenti di romanzi della Tavola Rotonda. Rustichello non scrive in questo o quel neo-latino d'Italia, né in latino, bensì in "francese di Lombardia" (derivato dalla lingua d'oil).
Nella dorata prigionia di Genova, il veneziano Marco Polo parla e parla col pisano Rustichello, e può darsi che parlino proprio in "francese di Lombardia" (forse Marco parla in "franco-veneto"... è sempre affascinante immaginare in quali lingue comunicassero le persone nei secoli passati).
Verosimilmente Marco Polo è un bravo narratore, a voce. Raccontare le cose oralmente a volte, a certe persone, vien meglio che per iscritto. Per esempio Giovanni da Pian del Carpine raccontava meglio i suoi viaggi a voce che per iscritto. Ma Giovanni da Pian del Carpine era anche uno che provava a scriverli (senza troppo successo) i suoi racconti (in latino); forse qualche impaccio della sua inettitudine di scrittore si riverberava nel parlare. Marco Polo non aveva nemmeno questo impaccio, probabilmente Marco Polo non aveva mai preso la penna in mano, se non per i suoi conti da mercante.
Così, per nostra grandissima fortuna, Marco Polo parla liberamente, a braccio, e Rustichello da Pisa, ascolta, socchiudendo gli occhi. Che storie straordinarie! Come assomigliano ai romanzi della Tavola Rotonda che Rustichello da Pisa ha nelle orecchie!
Poi Rustichello inizierà a scrivere quel che Marco Polo gli racconta.
Che un libro possa nascere così lo vediamo tutti i giorni. Un uomo politico, un capitano d'industria, un campione sportivo o un'attrice, firmano un libro di memorie che è stato scritto per loro incarico da un romanziere o da un giornalista. A volte in copertina figurano i due nomi, a volte ne figura solo uno: il nome di chi non ha scritto il libro...
Fiumi di inchiostro son corsi ponendosi il problema della vera paternità del libro che nasce a Genova sotto la penna di Rustichello da Pisa, seguendo (come?) le labbra di Marco Polo. Una cosa è certa, il libro ha molto l'aria di esser stato scritto da un rifacitore professionista di romanzi della Tavola Rotonda.
Il libro ha subito un'immensa fortuna, proprio perché si fa leggere come un libro di intrattenimento. Uno dei titoli che ha nei codici rimastici è Le divisament dou monde (in "francese di Lombardia" significa: "La descrizione del mondo"). Viene poi riscritto in francese e assume il titolo di Livre des merveilles ("Libro delle meraviglie"). Ha immediatamente una traduzione in latino: De mirabilibus mundi ("Le meraviglie del mondo"). In traduzione latina leggerà questo libro, scritto a Genova, il (forse) genovese Cristoforo Colombo, e ci si scalderà la fantasia, e ci farà delle note (il codice postillato da Cristoforo Colombo si conserva nella Biblioteca di Siviglia). Seguiranno traduzioni in neo-latino veneziano e in neo-latino fiorentino. Titolo: Libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione. Il soprannome "milione" sembra derivare dal fatto che la gente non creda minimamente ai suoi racconti, e ritiene che siano un milione di frottole. Ma tutti ritengono che il libro sia davvero molto bello da leggere.
Il Milione vive quindi molte vite e avrà innumerevoli traduzioni. In molti manoscritti viene trascritto insieme ai romanzi della Tavola Rotonda o ai romanzi del "ciclo classico" (tratti da Omero e Virgilio). Non è forse un caso se Matteo Maria Boiardo, scrivendo l'Orlando Innamorato, fa provenire la bellissima Angelica proprio dal Catai...
Resta da dire che Il Milione, per chi ha gusti letterari, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Oscar Wilde lo metteva nel numero ristrettissimo dei libri che val la pena di leggere, anzi, nel numero ancor più ristretto dei libri che val la pena di rileggere.
Vi consigliamo pertanto di leggere e rileggere il Milione, e non abbiamo altro da dire.
(fonte: G. Dossena)
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lunedì 31 marzo 2014
Le origini di Venezia
Sfatiamo subito un mito, e
cioè quello della città nata dal nulla da libere genti.
Il termine
“Venetia” infatti, insieme all’Istria era inizialmente una
delle regioni in cui l’imperatore Augusto aveva diviso il
territorio italico, e da quella regione si sarebbe venuta
distinguendo una seconda Venetia, questa volta lagunare composta da
isole e lidi sparsi tra le foci dell’Isonzo e del Po.
Ad avviare il processo per
cui dalla Venetia continentale veniva creandosi la nuova Venetia
marittima erano stati fattori esterni legati all’invasione
longobarda del 569. In realtà già nel secolo precedente con le
scorrerie degli Unni le lagune avevano offerto un rifugio sicuro alle
popolazioni della terraferma, ma in fondo la tempesta barbarica era
passata abbastanza rapidamente e le genti profughe avevano potuto
rientrare alle loro case. Le cose andarono diversamente invece con i
Longobardi, in quanto stavolta si trattava della migrazione vera e
propria di un intero popolo ben deciso a fermarsi in Italia, cosicché
per le genti che si ritiravano in laguna non si sarebbe più riaperta
la via del ritorno. Il primo passo quindi nella costruzione di una
Venetia diversa ebbe luogo con l’animo del profugo. In sostanza la
difesa del vecchio mondo pre-longobardo (e quindi “bizantino”)
divenne motivo per la nascita della nuova civiltà veneziana.
In ogni caso gli
insediamenti dei profughi sparsi per la laguna non erano certo
ancora identificabili come unità urbana e non lo saranno fino al IX
secolo.
E’ importante ricordare
che le lagune non erano disabitate prima dell’arrivo dei profughi e
già il prefetto Cassiodoro nel V sec. aveva lasciato una descrizione
precisa delle zone lagunari, le quali erano pienamente inserite nel
sistema organizzativo romano.
Che fosse nata dal nulla
quindi, come una Venere dalle acque del mare, ad opera di libere
genti che fuggivano dai barbari invasori su isole vuote e selvagge, è
un’invenzione costruita per ragioni molto concrete, con un’abilità
tale per cui ancora oggi quella leggenda è accettata come verità.
I Veneziani, dai massimi
vertici dello Stato fino all’ultimo pescatore avevano ogni
interesse ad accreditare un racconto del genere, perché se non c’era
nulla non c’erano nemmeno subordinazioni e servitù, sicché il
mito delle origini dal nulla rende plausibile e porta con sé quello
politicamente assai più rilevante dell’originaria libertà di
Venezia, ed è dunque la base del programma ideologico destinato ad
impedire ogni pretesa o rivendicazione da parte di qualsiasi autorità
esterna, uno status che Venezia difenderà fino alla fine dei suoi
giorni, mille anni dopo.
La difesa di questa
ideologia avverrà a volte con la forza ma molto più spesso con la
diplomazia o con abili mosse politiche, basti ricordare la tempestiva
trafugazione del corpo di San Marco ad Alessandria d’Egitto
nell’828, avvenuta proprio mentre nel sinodo di Mantova si
discuteva la giurisdizione spirituale tra Grado (chiesa lagunare
legata alle sorti venetiche) e Aquileia (sede patriarcale in sintonia
con le autorità politiche del Papato e città di cui la leggenda
narra fosse stata fondata proprio da San Marco…). L’arrivo in
città della salma marciana affermò dunque definitivamente
l’indipendenza di Venezia dall’autorità politica e religiosa di
Roma.
La vera e propria nascita
della Venezia urbana si fa risalire al 810 quando Agnello
Partecipazio, il primo doge della Repubblica, trasferisce la sede del
governo da Malamocco a Rivoalto.
Ma per capire appieno
l’unicità della storia veneziana è importante ricordare le radici
della sua stessa aristocrazia, che non era legata alla nobiltà di
sangue come nel resto dell’Europa, ma era invece nata dalle
famiglie dei mercanti locali, mercanti che in prima persona
rischiavano per creare nuovi commerci, anche molto lontani, e portare
redditi alla città stessa. Quasi sempre infatti Venezia deciderà di
usare guerra solo per ragioni di commercio, per difendere quindi il
proprio diritto e la propria libertà di commerciare. Fatto questo
che colpisce ancor di più se si pensa che nel resto del mondo
europeo il trattar denaro era considerato nient’affatto nobile,
solo i possedimenti terrieri e lo sfruttamento erano considerate
attività aristocratiche.
Ecco quindi che la difesa
dei propri interessi, e la possibilità di trarne vantaggio per tutte
le fasce sociali, compatta l’intero popolo veneziano in una
identificazione statale impossibile altrove.
(Fonte: Ortalli e Scarabello)
lunedì 6 gennaio 2014
Il sistema fognario veneziano
La laguna, si sa, è da sempre le difesa naturale di Venezia, che difatti non ha mai avuto bisogno di costruire mura difensive. Ma le sue acque hanno però anche un altro, fondamentale, pur se più umile, compito: quello di ripulire la città.
Tutto il sistema fognario di Venezia è affidato all'acqua dei suoi canali che due volte al giorno, con il ritmo della marea, portano via l'acqua sporca e riportano l'acqua pulita dal mare: "l'acqua va in mar" e "il mar va in acqua" dicono i veneziani per descrivere questo processo.
Oggi il mare è forse meno limpido di un tempo, ma tuttora la marea crescente porta un fiume di acqua pulita in ogni rio della città e trascina via lordure d'ogni genere.
Venezia era considerata città pulita e salubre, almeno sino a che le nuove tecniche non dotarono le altre città di sistemi fognari più moderni ed efficienti.
Tutte le abitazioni erano dotate di un sistema di tubature di ceramica, dette canoni da necessario (sembra evidente che cosa si intendesse per necessario...), inserite all'interno dei muri, che scaricavano le acque nere nei gatoli, canalizzazioni sottostanti le pavimentazioni stradali. Da qui venivano convogliate nei canali. Il sistema funziona in gran parte ancora oggi, con qualche cautela in più: prima di arrivare nei rii, il materiale si deposita e decanta nelle vasche biologiche, mentre altre misure igieniche si prendono per gli alberghi e altre sedi.
Fondamentale rimane comunque la funzione di igiene urbana operata dalle acque lagunari.
(Fonte: G. Gianighian, P. Pavanini)
Tutto il sistema fognario di Venezia è affidato all'acqua dei suoi canali che due volte al giorno, con il ritmo della marea, portano via l'acqua sporca e riportano l'acqua pulita dal mare: "l'acqua va in mar" e "il mar va in acqua" dicono i veneziani per descrivere questo processo.
Oggi il mare è forse meno limpido di un tempo, ma tuttora la marea crescente porta un fiume di acqua pulita in ogni rio della città e trascina via lordure d'ogni genere.
Venezia era considerata città pulita e salubre, almeno sino a che le nuove tecniche non dotarono le altre città di sistemi fognari più moderni ed efficienti.
Tutte le abitazioni erano dotate di un sistema di tubature di ceramica, dette canoni da necessario (sembra evidente che cosa si intendesse per necessario...), inserite all'interno dei muri, che scaricavano le acque nere nei gatoli, canalizzazioni sottostanti le pavimentazioni stradali. Da qui venivano convogliate nei canali. Il sistema funziona in gran parte ancora oggi, con qualche cautela in più: prima di arrivare nei rii, il materiale si deposita e decanta nelle vasche biologiche, mentre altre misure igieniche si prendono per gli alberghi e altre sedi.
Fondamentale rimane comunque la funzione di igiene urbana operata dalle acque lagunari.
(Fonte: G. Gianighian, P. Pavanini)
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giovedì 7 novembre 2013
Le origini delle Regate veneziane
Le origini delle Regate si fanno risalire al XIII secolo, anche se, considerando la competitività degli uomini, possiamo facilmente immaginare i pescatori e gli ortolani sfidarsi a gara tra loro per raggiungere i mercati, fin dai tempi della prima colonizzazione della laguna.
Il termine "regata", che oggi è internazionale (inglese "regatta", francese "régate", tedesco "regatta"...), è voce veneta, a sottolineare la paternità veneziana di tutte le moderne competizioni remiere. C'è chi lo fa derivare da "riga", intesa come l'allineamento di partenza, chi da una contrazione di "remigata" (remata), chi da dal termine "recaptare" cioè contendere.
Il termine regata passò a Genova nel XIII secolo, in Inghilterra e in Francia nel XVII secolo, in Germania e in Spagna nel XVIII.
Nella tradizione veneziana l'origine della regata è legata alla Festa delle Marie che si celebrò a Venezia fin dall'anno 942. In un pometto in versi latini del 1300 circa, viene descritta una gara su barche con premio "come si suol fare nella corsa dei cavalli"; detto per inciso, la frase "positum praevia munus habet, ut solet in cursu fieri certamen equorum" è forse la più antica memoria scritta di regate, se si eccettua la nota di un antico manoscritto che parla di una regata che si sarebbe svolta il 16 settembre 1274.
Queste fonti non attestano però l'esistenza di vere e proprie competizioni, come è invece provato dopo il 1300. Un decreto del 1315 del Doge Soranzo ordina che ogni anno, nel giorno di San Paolo (25 gennaio), si faccia una regata per l'esercizio dei giovani ai remi. Il decreto non fa però che dare veste ufficiale alla consuetudine nata tra i balestrieri di gareggiare tra loro lungo il percorso tra San Marco e il Lido.
Il 31 maggio 1531 un altro decreto stabilì che l'Arsenale costruisse 25 galee specificamente da competizione, che gareggiassero, 4 volte l'anno, in occasione delle feste dei SS. Apostoli, della Sensa, di S.ta Marina e di San Bartolomeo. Al primo equipaggio spettavano 200 ducati, al secondo 150, al terzo 100, e così via fino ai 40 del sesto.
Ma le regate venivano organizzate anche in occasioni mondane o di visite di persone importanti. Nel 1369 si tennero due regate in onore del Marchese Nicolò d'Este di Ferrara, nel 1441 se ne corse una per le nozze di Jacopo Foscari con Lucrezia Contarini, così come se ne corsero più d'una nel 1422 in onore di Francesco Sforza e della sua sposa.
Il 1493 è un anno importante perché vi ebbe luogo la prima regata femminile: 48 donne delle isole "in vesti di lino succinte" si dettero battaglia su 12 barche a 4 remi, in onore di Eleonora d'Este.
Con la caduta della Repubblica, nel 1797, anche le regate persero in fasto, pur non venendo naturalmente a cessare.
Giungiamo così al 1899 quando il Comitato Cittadino dei festeggiamenti, nominato in occasione della III Biennale, ebbe l'idea di riproporre fastosamente la Regata durante il periodo dell'esposizione d'arte. Appoggiato da Filippo Grimani (il sindaco d'oro) e con il concorso entusiastico di tutta Venezia, il Comitato riuscì a dar vita prima grande "Regata Storica" dei tempi moderni.
(Fonte: Silvio Testa)
Il termine "regata", che oggi è internazionale (inglese "regatta", francese "régate", tedesco "regatta"...), è voce veneta, a sottolineare la paternità veneziana di tutte le moderne competizioni remiere. C'è chi lo fa derivare da "riga", intesa come l'allineamento di partenza, chi da una contrazione di "remigata" (remata), chi da dal termine "recaptare" cioè contendere.
Il termine regata passò a Genova nel XIII secolo, in Inghilterra e in Francia nel XVII secolo, in Germania e in Spagna nel XVIII.
Nella tradizione veneziana l'origine della regata è legata alla Festa delle Marie che si celebrò a Venezia fin dall'anno 942. In un pometto in versi latini del 1300 circa, viene descritta una gara su barche con premio "come si suol fare nella corsa dei cavalli"; detto per inciso, la frase "positum praevia munus habet, ut solet in cursu fieri certamen equorum" è forse la più antica memoria scritta di regate, se si eccettua la nota di un antico manoscritto che parla di una regata che si sarebbe svolta il 16 settembre 1274.
Queste fonti non attestano però l'esistenza di vere e proprie competizioni, come è invece provato dopo il 1300. Un decreto del 1315 del Doge Soranzo ordina che ogni anno, nel giorno di San Paolo (25 gennaio), si faccia una regata per l'esercizio dei giovani ai remi. Il decreto non fa però che dare veste ufficiale alla consuetudine nata tra i balestrieri di gareggiare tra loro lungo il percorso tra San Marco e il Lido.
Il 31 maggio 1531 un altro decreto stabilì che l'Arsenale costruisse 25 galee specificamente da competizione, che gareggiassero, 4 volte l'anno, in occasione delle feste dei SS. Apostoli, della Sensa, di S.ta Marina e di San Bartolomeo. Al primo equipaggio spettavano 200 ducati, al secondo 150, al terzo 100, e così via fino ai 40 del sesto.
Ma le regate venivano organizzate anche in occasioni mondane o di visite di persone importanti. Nel 1369 si tennero due regate in onore del Marchese Nicolò d'Este di Ferrara, nel 1441 se ne corse una per le nozze di Jacopo Foscari con Lucrezia Contarini, così come se ne corsero più d'una nel 1422 in onore di Francesco Sforza e della sua sposa.
Il 1493 è un anno importante perché vi ebbe luogo la prima regata femminile: 48 donne delle isole "in vesti di lino succinte" si dettero battaglia su 12 barche a 4 remi, in onore di Eleonora d'Este.
Con la caduta della Repubblica, nel 1797, anche le regate persero in fasto, pur non venendo naturalmente a cessare.
Giungiamo così al 1899 quando il Comitato Cittadino dei festeggiamenti, nominato in occasione della III Biennale, ebbe l'idea di riproporre fastosamente la Regata durante il periodo dell'esposizione d'arte. Appoggiato da Filippo Grimani (il sindaco d'oro) e con il concorso entusiastico di tutta Venezia, il Comitato riuscì a dar vita prima grande "Regata Storica" dei tempi moderni.
(Fonte: Silvio Testa)
mercoledì 4 settembre 2013
Lo scialle veneziano, un simbolo scomparso
Già al tempo in cui E.M. Baroni scriveva (nel 1921)), con passione di veneziano e commozione d'artista, un libretto-elogio dello scialle veneziano, il bel costume caratteristico andava scomparendo dalle calli di Venezia:
"Ora, questo originale adornamento femminile, questo stupendo ed elegante capo del corredo della donna, accenna a scomparire. Le fanciulle veneziane, specie le più giovani, sembra quasi abbiano in disprezzo lo scialle, e si direbbe che il sogno più roseo di una gaia sartina o di una piccola operaia sia quello di poter indossare la camicetta e sfoggiare il cappello, in luogo di offrire all'ammirazione della folla le ben salde spalle ammantate di nero e al bacio del sole le folte e belle capellature bionde, brune, castane o tizianesche... Lo scialle sta per scomparire... Quel magnifico scialle decorativo dalle ampie pieghe artistiche, dalla foggia che carezza le forme e dava ad esse una seducente flessuosità, una insuperata morbidezza, ed abbelliva il corpo femminile di misteriosi fascini".
I lussuosi scialli adorni di fiori irreali, costituivano il mantello da sera preferito dalla belle ed eleganti dame veneziane. Ma fra tutti, il più semplice e insieme il più elegante, era pur sempre lo scialle nero, fine, adorno di pochi fiori di seta ricamati sul morbido tessuto all'origine delle lunghe, sottilissime frange.
Perché le donne veneziane abbandonarono quasi del tutto lo scialle?
Prima della guerra lo scialle si manteneva nell'uso generale delle popolane, perché la tradizione legava in certo qual modo il diritto di portare lo scialle (el fazuol, dei tempi antichi) all'onestà e alla rispettabilità delle dame, nei secoli passati el fazuol era infatti interdetto alle meretrici, e la proibizione era rimasta nelle consuetudini.
E venne la guerra. Migliaia di veneziane furono costrette a cercar rifugio in altre città d'Italia, e a rimaner profughe per anni. Trovandosi in ambienti nuovi, dove le donne non portavano lo scialle, le veneziane si adeguarono. E una volta tornate a Venezia, molte di esse non lo indossarono più.
Nel frattempo la svalutazione della lira indusse parecchie donne del popolo a inalberare il cappellino, per contro il prezzo notevolmente aumentato degli scialli, divenuto oggetto relativamente di lusso in confronto dei cappellini e delle blouses, dissuase molte altre donne dal mantenersi fedeli ad un costume che forse avrebbero voluto serbare.
Così in pochi anni di dopo guerra, il caratteristico costume muliebre veneziano scomparve quasi totalmente dalla calli veneziane.
Non sarà possibile far rivivere il graziosissimo costume che s'intona squisitamente con i capelli corti e le gonne succinte voluti dalla moda contemporanea?
La risposta è sì, grazie a Sabrina e Betty della Sartoria dei Dogi, che tra i tanti antichi capi riportati in vita, realizzano magnifici scialli ricamati a mano, in perfetto stile veneziano.
La Sartoria è una delle tappe del tour degli artigiani proposto da L'altra Venezia.
Per informazioni: info@laltravenezia.it
Fonte: "Lo scialle veneziano" di E.M.Baroni, edito da Filippi Editore Venezia
"Ora, questo originale adornamento femminile, questo stupendo ed elegante capo del corredo della donna, accenna a scomparire. Le fanciulle veneziane, specie le più giovani, sembra quasi abbiano in disprezzo lo scialle, e si direbbe che il sogno più roseo di una gaia sartina o di una piccola operaia sia quello di poter indossare la camicetta e sfoggiare il cappello, in luogo di offrire all'ammirazione della folla le ben salde spalle ammantate di nero e al bacio del sole le folte e belle capellature bionde, brune, castane o tizianesche... Lo scialle sta per scomparire... Quel magnifico scialle decorativo dalle ampie pieghe artistiche, dalla foggia che carezza le forme e dava ad esse una seducente flessuosità, una insuperata morbidezza, ed abbelliva il corpo femminile di misteriosi fascini".
I lussuosi scialli adorni di fiori irreali, costituivano il mantello da sera preferito dalla belle ed eleganti dame veneziane. Ma fra tutti, il più semplice e insieme il più elegante, era pur sempre lo scialle nero, fine, adorno di pochi fiori di seta ricamati sul morbido tessuto all'origine delle lunghe, sottilissime frange.
Perché le donne veneziane abbandonarono quasi del tutto lo scialle?
Prima della guerra lo scialle si manteneva nell'uso generale delle popolane, perché la tradizione legava in certo qual modo il diritto di portare lo scialle (el fazuol, dei tempi antichi) all'onestà e alla rispettabilità delle dame, nei secoli passati el fazuol era infatti interdetto alle meretrici, e la proibizione era rimasta nelle consuetudini.
E venne la guerra. Migliaia di veneziane furono costrette a cercar rifugio in altre città d'Italia, e a rimaner profughe per anni. Trovandosi in ambienti nuovi, dove le donne non portavano lo scialle, le veneziane si adeguarono. E una volta tornate a Venezia, molte di esse non lo indossarono più.
Nel frattempo la svalutazione della lira indusse parecchie donne del popolo a inalberare il cappellino, per contro il prezzo notevolmente aumentato degli scialli, divenuto oggetto relativamente di lusso in confronto dei cappellini e delle blouses, dissuase molte altre donne dal mantenersi fedeli ad un costume che forse avrebbero voluto serbare.
Così in pochi anni di dopo guerra, il caratteristico costume muliebre veneziano scomparve quasi totalmente dalla calli veneziane.
Non sarà possibile far rivivere il graziosissimo costume che s'intona squisitamente con i capelli corti e le gonne succinte voluti dalla moda contemporanea?
La risposta è sì, grazie a Sabrina e Betty della Sartoria dei Dogi, che tra i tanti antichi capi riportati in vita, realizzano magnifici scialli ricamati a mano, in perfetto stile veneziano.
La Sartoria è una delle tappe del tour degli artigiani proposto da L'altra Venezia.
Per informazioni: info@laltravenezia.it
Fonte: "Lo scialle veneziano" di E.M.Baroni, edito da Filippi Editore Venezia
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martedì 27 agosto 2013
La maschera di Pantalone, mercante di Venezia
La compenetrazione radicale tra Venezia e la maschera, pone la questione se fosse il Carnevale ad entrare in tal modo nella quotidianità o se l'ambiguità della maschera si innestasse sulla ambiguità ideologica della società veneziana. Si noti comunque che la maschera di Pantalone, che è la più veneziana, non intende proporre alcun elemento di esotismo o di grottesco, ma soltanto riproporre il prototipo di cittadino veneziano:
"Vada ognun persuaso che questa mascara fosse stata istituita anche prima dell'introduzione delle rappresentazioni teatrali, poiché il vestire di costui denota quello de' cittadini veneti del secolo XVI".
Ricostruendo l'origine del teatro veneziano all'inizio del Cinquecento e segnalandovi la presenza corruttrice di "interlocutori mascherati ridicoli e soggetti a beffe", si rileva tra costoro l'introduzione di un "vecchio cittadino veneziano" che venne chiamato "Pantalone" (sembra dall'abitudine dei mercanti della Serenissima di piantare il vessillo di San Marco ovunque si recassero, per cui detti "pianta leone")
"La maschera veneziana ebbe da principio anche il soprannome di Magnifico. Titolo onorifico molto in uso a Venezia nel secolo XVI, indirizzato soprattutto ai patrizi". Non è improbabile che l'uso di questo titolo venisse anche utilizzato per indicare il lustro e la dignità sociale del mercante veneziano. Titolo infine non disgiunto da un palese intento parodistico, nei confronti di una borghesia che spesso scimmiotta gli attributi dell'aristocrazia.
Dunque originariamente Pantalone non è una maschera ma una caricatura del veneziano modello: mercante, ricco, avaro. Tuttavia alcuni caratteri della maschera (la barbetta a punta, il sopracciglio alzato) sono gli stessi della commedia greca antica.
Spesso Pantalone è raffigurato come un vecchio, perché secondo una tipologia comica già antecedente, i suoi difetti appaiono più marcati e ridicoli. Naso adunco, barba a punta, sopracciglio alzato, sono però anche tratti levantini, quasi giudaici, degni appunto di un "Mercante di Venezia" shakespeariano.
Ma attenzione a quanto avvisava Allardyce Nicoll:
"E' dunque un personaggio d'una drammaticità ben più sottile di quella d'un semplice vecchio logorato dall'età. Nel pensare a Pantalone dovremmo dimenticare il personaggio di Shakespeare, scarno e smunto, i piedi infilati in pantofole, e cerca di vederlo come fu veramente, o almeno come avrebbe dovuto essere: un mercante di mezza età, vigoroso, onesto, con alle spalle una bella carriera, coinvolto in vicende sentimentali cui non sempre riesce a tener testa".
Pantalone vecchio e giovane, dunque. Pantalone vecchio in "La dispettosa moglie" (Alessandro Zatta, 1667). Il "Pantalone imbertonao" ("innamorato"), commedia eponima pubblicata nel 1673, laddove la scena è una Venezia pre-turistica, già piena di "foresti" (l'oggetto dell'innamoramento di Pantalone è una giovane francese...).
Pantalone diventa perfino povero e affronta la "Bancarotta, ovvero il mercante fallito" (Goldoni, 1740). Il trattamento della maschera in Goldoni nella Commedia dell'Arte è particolarmente attento al suo simbolismo depositario di una mentalità in declino.
Ma a parte Goldoni e la suggestione di un Pantalone ebraico, la figura del padrone non sembra aver goduto della medesima fortuna di quella del servitore. Lo stesso Carlo Gozzi, sebbene ben più tradizionalista di Goldoni, presenta il suo Pantalone in modo anacronistico, quasi umiliante. Anche perché i vizi che la maschera doveva incarnare, soprattutto l'avarizia (ma anche la libidine senile), erano destinati, attraverso una lettura severa e a volta nostalgica a trasformarsi in virtù borghese.
Infine i francesi chiameranno "Pantaloni" quei veneziani che:
"Erano pescatori, sono divenuti mercanti, si fecero corsari ed ora sono usurai". E si giunge così al fatale 1797.
Fonti: Alessando Scarsella, Grevembroch, Spezzani, Allardyce Nicoll.
"Vada ognun persuaso che questa mascara fosse stata istituita anche prima dell'introduzione delle rappresentazioni teatrali, poiché il vestire di costui denota quello de' cittadini veneti del secolo XVI".
Ricostruendo l'origine del teatro veneziano all'inizio del Cinquecento e segnalandovi la presenza corruttrice di "interlocutori mascherati ridicoli e soggetti a beffe", si rileva tra costoro l'introduzione di un "vecchio cittadino veneziano" che venne chiamato "Pantalone" (sembra dall'abitudine dei mercanti della Serenissima di piantare il vessillo di San Marco ovunque si recassero, per cui detti "pianta leone")
"La maschera veneziana ebbe da principio anche il soprannome di Magnifico. Titolo onorifico molto in uso a Venezia nel secolo XVI, indirizzato soprattutto ai patrizi". Non è improbabile che l'uso di questo titolo venisse anche utilizzato per indicare il lustro e la dignità sociale del mercante veneziano. Titolo infine non disgiunto da un palese intento parodistico, nei confronti di una borghesia che spesso scimmiotta gli attributi dell'aristocrazia.
Dunque originariamente Pantalone non è una maschera ma una caricatura del veneziano modello: mercante, ricco, avaro. Tuttavia alcuni caratteri della maschera (la barbetta a punta, il sopracciglio alzato) sono gli stessi della commedia greca antica.
Spesso Pantalone è raffigurato come un vecchio, perché secondo una tipologia comica già antecedente, i suoi difetti appaiono più marcati e ridicoli. Naso adunco, barba a punta, sopracciglio alzato, sono però anche tratti levantini, quasi giudaici, degni appunto di un "Mercante di Venezia" shakespeariano.
Ma attenzione a quanto avvisava Allardyce Nicoll:
"E' dunque un personaggio d'una drammaticità ben più sottile di quella d'un semplice vecchio logorato dall'età. Nel pensare a Pantalone dovremmo dimenticare il personaggio di Shakespeare, scarno e smunto, i piedi infilati in pantofole, e cerca di vederlo come fu veramente, o almeno come avrebbe dovuto essere: un mercante di mezza età, vigoroso, onesto, con alle spalle una bella carriera, coinvolto in vicende sentimentali cui non sempre riesce a tener testa".
Pantalone vecchio e giovane, dunque. Pantalone vecchio in "La dispettosa moglie" (Alessandro Zatta, 1667). Il "Pantalone imbertonao" ("innamorato"), commedia eponima pubblicata nel 1673, laddove la scena è una Venezia pre-turistica, già piena di "foresti" (l'oggetto dell'innamoramento di Pantalone è una giovane francese...).
Pantalone diventa perfino povero e affronta la "Bancarotta, ovvero il mercante fallito" (Goldoni, 1740). Il trattamento della maschera in Goldoni nella Commedia dell'Arte è particolarmente attento al suo simbolismo depositario di una mentalità in declino.
Ma a parte Goldoni e la suggestione di un Pantalone ebraico, la figura del padrone non sembra aver goduto della medesima fortuna di quella del servitore. Lo stesso Carlo Gozzi, sebbene ben più tradizionalista di Goldoni, presenta il suo Pantalone in modo anacronistico, quasi umiliante. Anche perché i vizi che la maschera doveva incarnare, soprattutto l'avarizia (ma anche la libidine senile), erano destinati, attraverso una lettura severa e a volta nostalgica a trasformarsi in virtù borghese.
Infine i francesi chiameranno "Pantaloni" quei veneziani che:
"Erano pescatori, sono divenuti mercanti, si fecero corsari ed ora sono usurai". E si giunge così al fatale 1797.
Fonti: Alessando Scarsella, Grevembroch, Spezzani, Allardyce Nicoll.
lunedì 10 giugno 2013
Poesia e musica nelle villotte friulane
La villotta è una particolare forma polifonica a tre o quattro voci su testi di vario metro, nata nel XV secolo e di origine friulana.
La diffusione in altre zone dell'Italia settentrionale diede luogo a forme locali, quali la villotta alla veneziana e la villotta alla mantovana.
Il musicologo Fausto Torrefranca (1883 - 1955), sostiene la villotta nascere alla fine del ‘400 come aria di danza a canto, dove la voce portante veniva mescolata, in un dialogo tra voce solista e coro d’accompagnamento, a comporre una polifonia, incatenata dal “nio”, sorta di ritornello atto al ballo, ma anche legante tra diverse quartine.Sembra una stretta gabbia, ma è la forma di espressione che ha funzionato per almeno quattro secoli permettendo alla forma di modello chiuso una libera e fertile espressione popolare ancora viva seppur in forma popolaresca.
Michele Leicht (1827-1897), storico cividalese, sostiene che questi piccoli canti sono la forma filosofica friulana per aggiungere contenuti e arricchire lo spirito.Un pensiero malinconico che libera, o che allarga la sensazione momentanea di libertà, per insaporire il presente. La vena poetica stava nella grande capacità di rimescolare le parole e tirare fuori il succo, alludendo, pungendo con ironia, senza mai toccare il nervo del dente che duole. Un lampo che scoppiettando arriva dritto al bersaglio.
Angelo Dalmedico, in "Canti del popolo Veneziano" nel 1848, e probabilmente riferendosi ai friulani immigrati a Venezia, dice: “Sino alla fine del secolo passato, le villotte venivano cantate accompagnate dal contrabbasso, dal mandolino e dalla chitarra. Ora vengono cantate dalle donne accompagnate dal cembalo coi sonagli, tessendo un ballo con un intermezzo che chiamano “nio” che ha una musica ancora più allegra".
Forse chi delle villotte ne ha scritto in maniera più estatica è stato Pier Paolo Pasolini (1922-1975) , che definisce un “cjandît lusôr inocent” (una luce candida e innocente) così ne scrive “Brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito talvolta ciecamente malinconico, malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi di pino, nelle notti tiepide”.
Vorave far la morte picinina:
morto la sera, e vivo la matina
Vorìa morire e no vorìa la morte
Vorìa sentir chi me pianze pì forte.
Vorìa sentir i me amici e i me parenti,
Vorìa sentir li preti con la croze
Et lo mio amor a gridar ad alta voze
Sant’Antonio miracoloso
Fé che fasso pase con mio moroso
E se no volé che fasso pase co lu
Andéve a far benedir anca vu
Ch’el mar fusse d’inchiostro mi vorave
E’l ciel ch’el fussi duto quanto un sfoio:
el nome suo in continuo scrivarave
digando a tuti el ben che mi ghe voio.
Esser vorave un oselin de un’ora
E svolarghe al mio ben dove el lavora
Svolarghe su la ponta del capelo
Per dirghe: - cossa fastu, amante belo?
Ma mi vorìa far come fa’l vento
Batter giù li balconi e saltar dentro
Saltar di dentro senza far fracasso
Darve tre basi e poi andare a spasso
Che fosse ‘na viola, dio el volesse!
E in piazza l’ortolana me portasse:
vegnesse el me moroso, e el me crompasse
e sora el so capel el me metesse!
La diffusione in altre zone dell'Italia settentrionale diede luogo a forme locali, quali la villotta alla veneziana e la villotta alla mantovana.
Il musicologo Fausto Torrefranca (1883 - 1955), sostiene la villotta nascere alla fine del ‘400 come aria di danza a canto, dove la voce portante veniva mescolata, in un dialogo tra voce solista e coro d’accompagnamento, a comporre una polifonia, incatenata dal “nio”, sorta di ritornello atto al ballo, ma anche legante tra diverse quartine.Sembra una stretta gabbia, ma è la forma di espressione che ha funzionato per almeno quattro secoli permettendo alla forma di modello chiuso una libera e fertile espressione popolare ancora viva seppur in forma popolaresca.
Michele Leicht (1827-1897), storico cividalese, sostiene che questi piccoli canti sono la forma filosofica friulana per aggiungere contenuti e arricchire lo spirito.Un pensiero malinconico che libera, o che allarga la sensazione momentanea di libertà, per insaporire il presente. La vena poetica stava nella grande capacità di rimescolare le parole e tirare fuori il succo, alludendo, pungendo con ironia, senza mai toccare il nervo del dente che duole. Un lampo che scoppiettando arriva dritto al bersaglio.
Angelo Dalmedico, in "Canti del popolo Veneziano" nel 1848, e probabilmente riferendosi ai friulani immigrati a Venezia, dice: “Sino alla fine del secolo passato, le villotte venivano cantate accompagnate dal contrabbasso, dal mandolino e dalla chitarra. Ora vengono cantate dalle donne accompagnate dal cembalo coi sonagli, tessendo un ballo con un intermezzo che chiamano “nio” che ha una musica ancora più allegra".
Forse chi delle villotte ne ha scritto in maniera più estatica è stato Pier Paolo Pasolini (1922-1975) , che definisce un “cjandît lusôr inocent” (una luce candida e innocente) così ne scrive “Brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito talvolta ciecamente malinconico, malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi di pino, nelle notti tiepide”.
Vorave far la morte picinina:
morto la sera, e vivo la matina
Vorìa morire e no vorìa la morte
Vorìa sentir chi me pianze pì forte.
Vorìa sentir i me amici e i me parenti,
Vorìa sentir li preti con la croze
Et lo mio amor a gridar ad alta voze
Sant’Antonio miracoloso
Fé che fasso pase con mio moroso
E se no volé che fasso pase co lu
Andéve a far benedir anca vu
Ch’el mar fusse d’inchiostro mi vorave
E’l ciel ch’el fussi duto quanto un sfoio:
el nome suo in continuo scrivarave
digando a tuti el ben che mi ghe voio.
Esser vorave un oselin de un’ora
E svolarghe al mio ben dove el lavora
Svolarghe su la ponta del capelo
Per dirghe: - cossa fastu, amante belo?
Ma mi vorìa far come fa’l vento
Batter giù li balconi e saltar dentro
Saltar di dentro senza far fracasso
Darve tre basi e poi andare a spasso
Che fosse ‘na viola, dio el volesse!
E in piazza l’ortolana me portasse:
vegnesse el me moroso, e el me crompasse
e sora el so capel el me metesse!
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