domenica 3 agosto 2014

L'altana del poeta

Nel 1899 Henri de Régnier arriva per la prima volta a Venezia e soggiorna a Ca' Dario, ospite delle due proprietarie di allora, la contessa de la Baume e M.me Bulteau.
Ecco come il poeta racconta la sua scoperta dell'altana del palazzo, che gli ispirerà poi il titolo del libro dedicato a Venezia:
"Non ho voglia di dormire. Dove può portare questa scaletta, di cui ho intravisto sul pianerottolo, entrando nella mia camera, i primi gradini? Forse a qualche soffitta? Proviamo.
Arrivo davanti ad una porta, chiusa da un semplice catenaccio. La apro e mi trovo all'aperto su una piattaforma di legno, delimitata da un parapetto. Questa terrazza, questo belvedere, è posato sul tetto del Palazzo. Da qui io domino il pendio delle sue vecchie tegole e sono vicino ai suoi alti camini, uno dei quali termina a forma di dado e l'altro a imbuto.
Che vedo ancora? Un angolo luccicante del Canal Grande, la cupola tondeggiante d'una chiesa, poi altri tetti, altri camini, tutto questo bagnato dal chiarore d'una luna splendente, avvolto in un silenzio profondo, in cui percepisco ora, lontano e come sordamente ritmato, un sussurro che è una presenza e che saprò più tardi essere il mormorio del mare che s'infrange sulla spiaggia del Lido.
Ma questa sera, questo sussurro, non è per me che il respiro della maga addormentata e il vivo sospiro della sua bellezza.
So solamente una cosa in questa bella notte di settembre, ed è che questo silenzio, questo chiaro di luna, questo palazzo, questa terrazza sospesa, che io non chiamo ancora altana, tutto questo è Venezia, e io sono felice".

(Henri de Régnier, "L'altana ou la vie vénitienne")

mercoledì 23 luglio 2014

La tragedia dell'eroe veneziano Agostino Stefani

Sul lato sinistro della Chiesa degli Scalzi si trova una targa dedicata ad Agostino Stefani.
Nel 1849, quando apparve ormai imminente la distruzione di Marghera da parte degli austriaci, si decise di procedere alla demolizione del ponte sulla laguna. A tale missione parteciparono, sotto i bombardamenti austriaci, non solo operai salariati ma anche centinaia di volontari.
Il 31 maggio 1849 apparve sui giornali di Venezia la notizia che uno dei lavoranti addetti alla demolizione del ponte, identificato in Agostino Stefani da Budoja (in Friuli), aveva insospettito con il suo comportamento gli altri operai, i quali avevano avuto l'impressione che volesse scappare per porsi in salvo verso la parte austriaca. Raggiunto e interrogato, diede spiegazioni confuse. Durante il suo trasporto in Prefettura, nonostante la scorta dei gendarmi, fu assalito dalla popolazione. Il malcapitato si gettò in acqua per sfuggire alle violenze ma, colpito da pietre, sassi, colpi di remo e di badile, fu ucciso,
"Non pertanto nel giorno 2 luglio, avendo preso la parola nell'Assemblea Veneta Niccolò Tommaseo, fra il generale stupore s'intese che il muratore che nel 30 maggio venne massacrato a furore di popolo sul ponte della laguna, perché ritenuto sventuratamente reo di tradimento, per accurate investigazioni era stato riconosciuto innocente.
Era in realtà un eroe. Erasi infatti consacrato, per la testimonianza del tenente colonnello Enrico Cosenz, che quel muratore si offerse per accendere una mina sotto ad un arco presso gli avamposti nemici; che, generoso di sé, siccome l'impresa era azzardata, dava il proprio nome a Cosenz, il quale lo notava sul portafoglio, e, ammirato di tanta fortezza d'animo, incaricava quel fedele operaio dell'ardita azione, ripromettendogli glorificazione e onore... il Cosenz fatalmente si partiva dal luogo. La leggera barchetta intanto aveva dato nel secco, e il muratore, messosi in acqua, cercava spingerla innanzi e faceva segni col cappello per mostrarsi ancora vivo ai suoi, i quali, ignari della sua missione, vedendo quest'uomo così lontano, lo ritennero ben altro e riferirono  all'ufficiale sorvegliante, il quale spedì alcune barche a quella volta. Ricondotto, disse di essere stato spedito da un ufficiale in occhiali (i quali appunto Cosenz portava); ma Ulloa, comandante il circondario, non si ritiene abbastanza istruito ad interrogarlo e lo rimette alla Prefettura d'ordine pubblico. Corre voce intanto degli oggetti rinvenuti nella sacca, e la moltitudine inferocita lo assale...."
(Gabriele Fantoni: Biografie di dieci patrioti veneziani, 1898)
Il tragico equivoco che costò la vita all'eroico muratore di Budoja appartiene alla storia degli ultimi mesi dell'epopea veneziana quando, pur stremata dalla fame, dal colera e dai bombardamenti, anche la popolazione civile volle tener fede all'impegno di "resistere all'Austriaco ad ogni costo".
Venezia e la sua agonia trovarono il loro commosso cantore in Arnaldo Fusinato, autore della celebre Ode a Venezia:

Passa un gondola / della città
"Ehi della gondola / qual novità?"
"Il morbo infuria / il pan ci manca
sul ponte sventola / bandiera bianca".

No no, non spleder / su tanti guai,
sole d'Italia / non splender mai,
e sulla veneta / spenta fortuna
si eterna il gemito / della laguna.

Venezia, l'ultima / ora è venuta,
illustre martire / tu sei perduta,
il morbo infuria / il pan ci manca,
sul ponte sventola / bandiera bianca.



lunedì 7 luglio 2014

Cattedrale Santa Maria Assunta di Torcello

Fondata nel 639, come ricorda l'iscrizione epigrafica a sinistra del coro (considerato il più antico documento in laguna), fu fatta ricostruire nel 1008 da Orso Orseolo, figlio del doge Pietro Orseolo II, quando divenne vescovo di Torcello.

L'edificio veneto-bizantino (in forma basilicale romanica) si presenta a tre navate, con pietre a vista, una facciata centrale sopraelevata scandita da sei lesene e un porticato antistante. Questo, originariamente sorretto da quattro colonne, ne vide aggiungersi altre da entrambi i lati, che lo portarono a congiungersi con quello di Santa Fosca nel corso del XIV e XV secolo.
Sul lato destro si erge la grande torre quadrata del campanile (XII secolo), emblema, come nelle contemporanee Pomposa e Aquileia, della potenza della città.
Anticamente la facciata era affiancata da un battistero a pianta circolare di cui ancora si possono vedere le fondamenta.
Sul fianco della chiesa sono interessanti le chiusure delle finestre centinate a grandi lastroni di pietra movibili su cardini anch'essi di pietra.
Il soffitto ligneo, ad incavallature scoperte, è rimasto forse quello originario.
L'ampia e luminosa navata tripla, con le alte colonne che sorreggono capitelli in parte romani e in parte imitati nelle officine veneziane, ricorda Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna.

Il pavimento in mosaico di marmo è sopraelevato di circa venti centimetri sul preesistente del IX secolo, lavorato con cubetti bianchi e neri i cui resti si possono ammirare attraverso due botole.
Il presbiterio, ai cui piedi è posta la pietra tombale del vescovo Paolo di Altino, è segnato dall'iconostasi con al centro la porta sacra, delimitata da tre sottili colonne, chiuse per metà da plutei marmorei bizantini dell'XI secolo, adorni, come merletti di pietra, da immagini di fiori, leoni e pavoni che si abbeverano alla fontana divina. Le colonne sorreggono tavole quattrocentesche che rappresentano la Madonna attorniata dai dodici apostoli, su cui si innalza il coevo crocifisso ligneo.

L'altare, il cui piano è di spesso marmo greco, è stato ricostruito nel 1939 in luogo di un deturpante impianto barocco. Ai suoi piedi, protetto da una grata, si trova un sarcofago romano del III secolo che contiene le spoglie del santo vescovo altinate Eliodoro (spoglie traslate a Torcello in seguito alla conquista di Altino da parte dei Longobardi).
La conca absidale si apre con il trono del vescovo addossato all'abside, come in Santa Maria delle Grazie a Grado (V secolo). Questo si erge su gradinate circolari e vi si accede salendo dieci scalini, simbolo dei dieci comandamenti.
Sopra il trono episcopale è rappresentato, a mosaico, Sant'Eliodoro. Gli apostoli, vestiti con il proprio simbolo come nelle chiese ravennati, procedono simmetricamente sotto i piedi della Vergine. Al centro della processione si apre una finestrella, simbolo della luce divina, e la Vergine bizantina Teotoga (XII secolo), regalmente vestita e isolata nello spazio dorato del catino absidale, rappresenta l'incontro tra l'umano e il divino.
Tre le sue braccia regge il Bambino, che porta il rotolo della legge, mentre dalle sue mani pende un fazzoletto bianco, simbolo della mater dolorosa.
Il loro sguardo dolcissimo rapisce l'osservatore.
L'abside della cappella laterale destra, decorata a mosaico nel IX secolo e rimaneggiata nel XII secolo, rappresenta quattro dottori della Chiesa: Agostino, Ambrogio, Martino e Gregorio. Sopra è il Cristo Pantocratore con la tavola delle leggi attorniato dagli arcangeli Michele e Gabriele.
Nella cappella laterale sinistra permangono resti di un affresco duecentesco, e sulla stessa navata trova posto la piccola pala di Maria Vergine dipinta da Tintoretto.
L'imponente mosaico del Giudizio universale (XI - XII secolo), che occupa l'intera parete ovest (controfacciata), doveva ricordare ai fedeli che uscivano dalla funzione il destino finale.
Il racconto articolato in sei sequenze si legge dall'alto verso il basso: dalla Crocifissione alla separazione degli eletti dai dannati. Proprio nella raffigurazione di questi ultimi vi è la ricerca di un carattere narrativo più naturalistico, intensamente espressivo e radicalmente veneto: lo stesso carattere che si ritroverà nella Basilica di San Marco dove i mosaicisti si trasferirono alla fine di questo imponente lavoro.


giovedì 19 giugno 2014

Francesco Hayez, un romantico veneziano

Francesco Hayez nacque a Venezia, nella parrocchia di Santa Maria Mater Domini il 10 febbraio 1791. La sua famiglia era molto povera e venne allevato da uno zio, che lo avviò alla pittura (avendone manifestata una forte propensione fin da fanciullo).
Nel 1806 venne accettato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo insegnante era Teodoro Matteini, pittore preromantico, famoso come ritrattista, parzialmente influenzato dalla pittura inglese contemporanea.
Nel 1809 partecipa ad un concorso e vince una borsa di studio a Roma, dove viene accolto da Canova. il quale lo indirizza allo studio dei classici del passato. Francesco Hayez a Roma vive come in un bosco incantato.
Stringe amicizia anche con Ingres, che all'epoca era già piuttosto celebrato, ma lo batterà qualche anno più tardi alla competizione dell'Accademia di San Luca. dove vincerà il suo primo premio.
Nel 1820 il suo dipinto Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, presentato a Brera, diventerà una sorta di manifesto del nuovo stile Romantico italiano. Grazie a questa e alle seguenti opere, Hayez entra a far parte dei più importanti pittori che cercavano di liberarsi dai classicismi per illustrare temi storici e letterali legati al movimento contemporaneo del Risorgimento. 
All'età di quarantanni Hayez è pittore affermato e riconosciuto. 
Si stabilisce stabilmente a Milano dove apre un grande studio e diventa amico di Manzoni e Rossini.
Oltre alle opere di carattere storico, Hayez diventa famoso per alcuni dipinti più intimistici, a volte tendenti alla retorica, come il celebre Bacio del 1859. Ma ci lascia anche alcune lucide introspettive e rigorosi e perfetti ritratti, come quello di Gioacchino Rossini del 1870.  
I suoi ritratti femminili sono tra le più alte espressioni della pittura del diciannovesimo secolo.
Muore a Milano nel 1882.
A Venezia una targa ricorda la sua casa natia in Corte Rota, nel sestiere di Santa Croce.

(fonte: Aldo Andreolo)
 

mercoledì 21 maggio 2014

L'isola di Poveglia

L'isola di Poveglia è situata a sud-ovest della laguna veneziana, di fronte a Malamocco.
Anticamente era denominata "Popilia", forse a causa della presenza di numerosi alberi di pioppo, o forse in onore del Console romano Popilio Lena, che aveva fatto costruire la parte settentrionale della via Emilia-Altinate.
Nel 421 l'isola fu occupata dai profughi fuggiti dalle città di Padova e d'Este a causa delle invasioni barbariche. Nell'anno 809 gli abitanti dell'isola si trasferirono nella zona di Rivoalto (attuale Rialto) a causa della guerra di Pipino re di Francia contro Venezia.
Nell'864 venne ucciso il doge Pietro Tradonico (13° doge) a seguito di una congiura. I servi del doge si barricarono nel Palazzo Ducale chiedendo "giustizia" per l'avvenuto omicidio. Il nuovo doge, Orso Partecipazio, riuscì a trattare con la servitù del suo predecessore e permise loro di abitare nell'isola di Poveglia, concedendo ai nuovo abitanti diversi privilegi.
Nell'isola venne costruita una chiesa, con campanile, convento e cavana. L'isola si popolò di circa duecento famiglie, che dopo un secolo si erano moltiplicate ed avevano edificato più d'ottocento case, avviando la coltivazione di campi e orti. Fu anche realizzata la costruzione di un castello fortificato.
L'amministrazione dell'isola era anticamente tenuta da un Tribuno, poi da un Gastaldo Ducale ed infine da un Podestà. Nel 1379 fu deciso dal Senato lo smantellamento del castello fortificato.
Durante la guerra di Chioggia (contro i genovesi), gli abitanti di Poveglia si trasferirono alla Giudecca. Finita la guerra, i povegliani ritornarono in isola, ma la trovarono erosa dalle acque. In seguito la popolazione diminuì sensibilmente, ma per chi decideva di restare furono offerti molti privilegi, come quello di non pagare le tasse, di fare la scorta d'onore al Bucintoro durante la Festa della Sensa, la libera compravendita del pesce per gli anziani e l'esenzione dal servizio militare.
Nel 1527, il magistrato alle Rason Vecchie, che controllava gli interessi di Poveglia, offrì l'isola ai Camaldolesi, che però non l'accettarono. Nel 1777 l'isola passò sotto la giurisdizione del Magistrato alla Sanità. Dal 1793 al 1799, Poveglia fu trasformata in un lazzaretto provvisorio, in quanto su due navi in transito in laguna era scoppiata la peste.
Tra il 1805 e il 1814 l'isola venne nuovamente utilizzata come lazzaretto, essendo tra l'altro piuttosto distante da Venezia. Sotto la dominazione francese, la chiesa venne chiusa. Al suo interno c'era un bel pavimento di marmo, un Crocefisso e una tavola del Tiziano. Il Crocefisso ora è conservato nella chiesa di Malamocco.
Durante l'occupazione austriaca, il campanile della chiesa venne utilizzato come faro.
All'inizio del Novecento l'isola fu utilizzata come luogo di convalescenza per lunghe malattie e come casa di riposo per anziani, ma dal 1968 anche questo utilizzo venne dismesso e l'isola fu ceduta al Demanio.
Nel 2013, assieme a San Giacomo in Paludo, Poveglia è stata messa in vendita per essere recuperata a fini turistici. Nell'aprile del 2014 è nata un'associazione senza fini di lucro, Poveglia per tutti, con lo scopo di partecipare al bando del demanio per aggiudicarsi il possesso dell'isola per 99 anni e permetterne l'uso pubblico. Il 13 maggio 2014 l'imprenditore Luigi Brugnaro, patron di Umana, si è aggiudicato all'asta l'isola per il prezzo di 513mila euro. L’affidamento definitivo è stato però rinviato al 13 giugno, e in questi giorni i tecnici dovranno valutare con attenzione la «congruità dell’offerta».

giovedì 15 maggio 2014

Marco Polo e il Milione

A Genova, nell'autunno del 1298, dopo la battaglia di Curzola, il "nobile cuore dei genovesi ha la gentile saggezza di fare a Marco Polo, tra gli altri cinquemila prigionieri in attesa di riscatto, onorevole cortesia" (Anonimo Genovese).
La prigionia di Marco Polo a Genova è una prigionia dorata, analoga a quella di Re Enzo a Bologna (molto diversa da quella del conte Ugolino a Pisa o da quella di Iacopone da Todi...).
In prigione Marco Polo si ritrova come compagno di cella Rustichello da Pisa, che era lì dal 1284.
Rustichello da Pisa è uno scrittore abbastanza noto, specializzato in rifacimenti di romanzi della Tavola Rotonda. Rustichello non scrive in questo o quel neo-latino d'Italia, né in latino, bensì in "francese di Lombardia" (derivato dalla lingua d'oil).
Nella dorata prigionia di Genova, il veneziano Marco Polo parla e parla col pisano Rustichello, e può darsi che parlino proprio in "francese di Lombardia" (forse Marco parla in "franco-veneto"... è sempre affascinante immaginare in quali lingue comunicassero le persone nei secoli passati).
Verosimilmente Marco Polo è un bravo narratore, a voce. Raccontare le cose oralmente a volte, a certe persone, vien meglio che per iscritto. Per esempio Giovanni da Pian del Carpine raccontava meglio i suoi viaggi a voce che per iscritto. Ma Giovanni da Pian del Carpine era anche uno che provava a scriverli (senza troppo successo) i suoi racconti (in latino); forse qualche impaccio della sua inettitudine di scrittore si riverberava nel parlare. Marco Polo non aveva nemmeno questo impaccio, probabilmente Marco Polo non aveva mai preso la penna in mano, se non per i suoi conti da mercante.
Così, per nostra grandissima fortuna, Marco Polo parla liberamente, a braccio, e Rustichello da Pisa, ascolta, socchiudendo gli occhi. Che storie straordinarie! Come assomigliano ai romanzi della Tavola Rotonda che Rustichello da Pisa ha nelle orecchie!
Poi Rustichello inizierà a scrivere quel che Marco Polo gli racconta.
Che un libro possa nascere così lo vediamo tutti i giorni. Un uomo politico, un capitano d'industria, un campione sportivo o un'attrice, firmano un libro di memorie che è stato scritto per loro incarico da un romanziere o da un giornalista. A volte in copertina figurano i due nomi, a volte ne figura solo uno: il nome di chi non ha scritto il libro...
Fiumi di inchiostro son corsi ponendosi il problema della vera paternità del libro che nasce a Genova sotto la penna di Rustichello da Pisa, seguendo (come?) le labbra di Marco Polo. Una cosa è certa, il libro ha molto l'aria di esser stato scritto da un rifacitore professionista di romanzi della Tavola Rotonda.
Il libro ha subito un'immensa fortuna, proprio perché si fa leggere come un libro di intrattenimento. Uno dei titoli che ha nei codici rimastici è Le divisament dou monde (in "francese di Lombardia" significa: "La descrizione del mondo"). Viene poi riscritto in francese e assume il titolo di Livre des merveilles ("Libro delle meraviglie"). Ha immediatamente una traduzione in latino: De mirabilibus mundi ("Le meraviglie del mondo"). In traduzione latina leggerà questo libro, scritto a Genova, il (forse) genovese Cristoforo Colombo, e ci si scalderà la fantasia, e ci farà delle note (il codice postillato da Cristoforo Colombo si conserva nella Biblioteca di Siviglia). Seguiranno traduzioni in neo-latino veneziano e in neo-latino fiorentino. Titolo: Libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione. Il soprannome "milione" sembra derivare dal fatto che la gente non creda minimamente ai suoi racconti, e ritiene che siano un milione di frottole. Ma tutti ritengono che il libro sia davvero molto bello da leggere.
Il Milione vive quindi molte vite e avrà innumerevoli traduzioni. In molti manoscritti viene trascritto insieme ai romanzi della Tavola Rotonda o ai romanzi del "ciclo classico" (tratti da Omero e Virgilio). Non è forse un caso se Matteo Maria Boiardo, scrivendo l'Orlando Innamorato, fa provenire la bellissima Angelica proprio dal Catai...
Resta da dire che Il Milione, per chi ha gusti letterari, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Oscar Wilde lo metteva nel numero ristrettissimo dei libri che val la pena di leggere, anzi, nel numero ancor più ristretto dei libri che val la pena di rileggere.
Vi consigliamo pertanto di leggere e rileggere il Milione, e non abbiamo altro da dire.

(fonte: G. Dossena)





lunedì 31 marzo 2014

Le origini di Venezia

Sfatiamo subito un mito, e cioè quello della città nata dal nulla da libere genti. 
Il termine “Venetia” infatti, insieme all’Istria era inizialmente una delle regioni in cui l’imperatore Augusto aveva diviso il territorio italico, e da quella regione si sarebbe venuta distinguendo una seconda Venetia, questa volta lagunare composta da isole e lidi sparsi tra le foci dell’Isonzo e del Po.
Ad avviare il processo per cui dalla Venetia continentale veniva creandosi la nuova Venetia marittima erano stati fattori esterni legati all’invasione longobarda del 569. In realtà già nel secolo precedente con le scorrerie degli Unni le lagune avevano offerto un rifugio sicuro alle popolazioni della terraferma, ma in fondo la tempesta barbarica era passata abbastanza rapidamente e le genti profughe avevano potuto rientrare alle loro case. Le cose andarono diversamente invece con i Longobardi, in quanto stavolta si trattava della migrazione vera e propria di un intero popolo ben deciso a fermarsi in Italia, cosicché per le genti che si ritiravano in laguna non si sarebbe più riaperta la via del ritorno. Il primo passo quindi nella costruzione di una Venetia diversa ebbe luogo con l’animo del profugo. In sostanza la difesa del vecchio mondo pre-longobardo (e quindi “bizantino”) divenne motivo per la nascita della nuova civiltà veneziana.
In ogni caso gli insediamenti dei profughi sparsi per la laguna non erano certo ancora identificabili come unità urbana e non lo saranno fino al IX secolo.
E’ importante ricordare che le lagune non erano disabitate prima dell’arrivo dei profughi e già il prefetto Cassiodoro nel V sec. aveva lasciato una descrizione precisa delle zone lagunari, le quali erano pienamente inserite nel sistema organizzativo romano.
Che fosse nata dal nulla quindi, come una Venere dalle acque del mare, ad opera di libere genti che fuggivano dai barbari invasori su isole vuote e selvagge, è un’invenzione costruita per ragioni molto concrete, con un’abilità tale per cui ancora oggi quella leggenda è accettata come verità.
I Veneziani, dai massimi vertici dello Stato fino all’ultimo pescatore avevano ogni interesse ad accreditare un racconto del genere, perché se non c’era nulla non c’erano nemmeno subordinazioni e servitù, sicché il mito delle origini dal nulla rende plausibile e porta con sé quello politicamente assai più rilevante dell’originaria libertà di Venezia, ed è dunque la base del programma ideologico destinato ad impedire ogni pretesa o rivendicazione da parte di qualsiasi autorità esterna, uno status che Venezia difenderà fino alla fine dei suoi giorni, mille anni dopo.
La difesa di questa ideologia avverrà a volte con la forza ma molto più spesso con la diplomazia o con abili mosse politiche, basti ricordare la tempestiva trafugazione del corpo di San Marco ad Alessandria d’Egitto nell’828, avvenuta proprio mentre nel sinodo di Mantova si discuteva la giurisdizione spirituale tra Grado (chiesa lagunare legata alle sorti venetiche) e Aquileia (sede patriarcale in sintonia con le autorità politiche del Papato e città di cui la leggenda narra fosse stata fondata proprio da San Marco…). L’arrivo in città della salma marciana affermò dunque definitivamente l’indipendenza di Venezia dall’autorità politica e religiosa di Roma.
La vera e propria nascita della Venezia urbana si fa risalire al 810 quando Agnello Partecipazio, il primo doge della Repubblica, trasferisce la sede del governo da Malamocco a Rivoalto.
Ma per capire appieno l’unicità della storia veneziana è importante ricordare le radici della sua stessa aristocrazia, che non era legata alla nobiltà di sangue come nel resto dell’Europa, ma era invece nata dalle famiglie dei mercanti locali, mercanti che in prima persona rischiavano per creare nuovi commerci, anche molto lontani, e portare redditi alla città stessa. Quasi sempre infatti Venezia deciderà di usare guerra solo per ragioni di commercio, per difendere quindi il proprio diritto e la propria libertà di commerciare. Fatto questo che colpisce ancor di più se si pensa che nel resto del mondo europeo il trattar denaro era considerato nient’affatto nobile, solo i possedimenti terrieri e lo sfruttamento erano considerate attività aristocratiche.
Ecco quindi che la difesa dei propri interessi, e la possibilità di trarne vantaggio per tutte le fasce sociali, compatta l’intero popolo veneziano in una identificazione statale impossibile altrove.

(Fonte: Ortalli e Scarabello)
 

lunedì 6 gennaio 2014

Il sistema fognario veneziano

La laguna, si sa, è da sempre le difesa naturale di Venezia, che difatti non ha mai avuto bisogno di costruire mura difensive. Ma le sue acque hanno però anche un altro, fondamentale, pur se più umile, compito: quello di ripulire la città.
Tutto il sistema fognario di Venezia è affidato all'acqua dei suoi canali che due volte al giorno, con il ritmo della marea, portano via l'acqua sporca e riportano l'acqua pulita dal mare: "l'acqua va in mar" e "il mar va in acqua" dicono i veneziani per descrivere questo processo.
Oggi il mare è forse meno limpido di un tempo, ma tuttora la marea crescente porta un fiume di acqua pulita in ogni rio della città e trascina via lordure d'ogni genere.
Venezia era considerata città pulita e salubre, almeno sino a che le nuove tecniche non dotarono le altre città di sistemi fognari più moderni ed efficienti.
Tutte le abitazioni erano dotate di un sistema di tubature di ceramica, dette canoni da necessario (sembra evidente che cosa si intendesse per necessario...), inserite all'interno dei muri, che scaricavano le acque nere nei gatoli, canalizzazioni sottostanti le pavimentazioni stradali. Da qui venivano convogliate nei canali. Il sistema funziona in gran parte ancora oggi, con qualche cautela in più: prima di arrivare nei rii, il materiale si deposita e decanta nelle vasche biologiche, mentre altre misure igieniche si prendono per gli alberghi e altre sedi.
Fondamentale rimane comunque la funzione di igiene urbana operata dalle acque lagunari.

(Fonte: G. Gianighian, P. Pavanini)

giovedì 7 novembre 2013

Le origini delle Regate veneziane

Le origini delle Regate si fanno risalire al XIII secolo, anche se, considerando la competitività degli uomini, possiamo facilmente immaginare i pescatori e gli ortolani sfidarsi a gara tra loro per raggiungere i mercati, fin dai tempi della prima colonizzazione della laguna.
Il termine "regata", che oggi è internazionale (inglese "regatta", francese "régate", tedesco "regatta"...), è voce veneta, a sottolineare la paternità veneziana di tutte le moderne competizioni remiere. C'è chi lo fa derivare da "riga", intesa come l'allineamento di partenza, chi da una contrazione di "remigata" (remata), chi da dal termine "recaptare" cioè contendere.
Il termine regata passò a Genova nel XIII secolo, in Inghilterra e in Francia nel XVII secolo, in Germania e in Spagna nel XVIII.
Nella tradizione veneziana l'origine della regata è legata alla Festa delle Marie che si celebrò a Venezia fin dall'anno 942. In un pometto in versi latini del 1300 circa, viene descritta una gara su barche con premio "come si suol fare nella corsa dei cavalli"; detto per inciso, la frase "positum praevia munus habet, ut solet in cursu fieri certamen equorum" è forse la più antica memoria scritta di regate, se si eccettua la nota di un antico manoscritto che parla di una regata che si sarebbe svolta il 16 settembre 1274.
Queste fonti non attestano però l'esistenza di vere e proprie competizioni, come è invece provato dopo il 1300. Un decreto del 1315 del Doge Soranzo ordina che ogni anno, nel giorno di San Paolo (25 gennaio), si faccia una regata per l'esercizio dei giovani ai remi. Il decreto non fa però che dare veste ufficiale alla consuetudine nata tra i balestrieri di gareggiare tra loro lungo il percorso tra San Marco e il Lido.
Il 31 maggio 1531 un altro decreto stabilì che l'Arsenale costruisse 25 galee specificamente da competizione, che gareggiassero, 4 volte l'anno, in occasione delle feste dei SS. Apostoli, della Sensa, di S.ta Marina e di San Bartolomeo. Al primo equipaggio spettavano 200 ducati, al secondo 150, al terzo 100, e così via fino ai 40 del sesto.
Ma le regate venivano organizzate anche in occasioni mondane o di visite di persone importanti. Nel 1369 si tennero due regate in onore del Marchese Nicolò d'Este di Ferrara, nel 1441 se ne corse una per le nozze di Jacopo Foscari con Lucrezia Contarini, così come se ne corsero più d'una nel 1422 in onore di Francesco Sforza e della sua sposa.
Il 1493 è un anno importante perché vi ebbe luogo la prima regata femminile: 48 donne delle isole "in vesti di lino succinte" si dettero battaglia su 12 barche a 4 remi, in onore di Eleonora d'Este.
Con la caduta della Repubblica, nel 1797, anche le regate persero in fasto, pur non venendo naturalmente a cessare.
Giungiamo così al 1899 quando il Comitato Cittadino dei festeggiamenti, nominato in occasione della III Biennale, ebbe l'idea di riproporre fastosamente la Regata durante il periodo dell'esposizione d'arte. Appoggiato da Filippo Grimani (il sindaco d'oro) e con il concorso entusiastico di tutta Venezia, il Comitato riuscì a dar vita prima grande "Regata Storica" dei tempi moderni.

(Fonte: Silvio Testa)

mercoledì 4 settembre 2013

Lo scialle veneziano, un simbolo scomparso

Già al tempo in cui E.M. Baroni scriveva (nel 1921)), con passione di veneziano e commozione d'artista, un libretto-elogio dello scialle veneziano, il bel costume caratteristico andava scomparendo dalle calli di Venezia:

"Ora, questo originale adornamento femminile, questo stupendo ed elegante capo del corredo della donna, accenna a scomparire. Le fanciulle veneziane, specie le più giovani, sembra quasi abbiano in disprezzo lo scialle, e si direbbe che il sogno più roseo di una gaia sartina o di una piccola operaia sia quello di poter indossare la camicetta e sfoggiare il cappello, in luogo di offrire all'ammirazione della folla le ben salde spalle ammantate di nero e al bacio del sole le folte e belle capellature bionde, brune, castane o tizianesche... Lo scialle sta per scomparire... Quel magnifico scialle decorativo dalle ampie pieghe artistiche, dalla foggia che carezza le forme e dava ad esse una seducente flessuosità, una insuperata morbidezza, ed abbelliva il corpo femminile di misteriosi fascini".

I lussuosi scialli adorni di fiori irreali, costituivano il mantello da sera preferito dalla belle ed eleganti dame veneziane. Ma fra tutti, il più semplice e insieme il più elegante, era pur sempre lo scialle nero, fine, adorno di pochi fiori di seta ricamati sul morbido tessuto all'origine delle lunghe, sottilissime frange.

Perché le donne veneziane abbandonarono quasi del tutto lo scialle?
Prima della guerra lo scialle si manteneva nell'uso generale delle popolane, perché la tradizione legava in certo qual modo il diritto di portare lo scialle (el fazuol, dei tempi antichi) all'onestà e alla rispettabilità delle dame, nei secoli passati el fazuol era infatti interdetto  alle meretrici, e la proibizione era rimasta nelle consuetudini.
E venne la guerra. Migliaia di veneziane furono costrette a cercar rifugio in altre città d'Italia, e a rimaner profughe per anni. Trovandosi in ambienti nuovi, dove le donne non portavano lo scialle, le veneziane si adeguarono. E una volta tornate a Venezia, molte di esse non lo indossarono più.
Nel frattempo la svalutazione della lira indusse parecchie donne del popolo a inalberare il cappellino, per contro il prezzo notevolmente aumentato degli scialli, divenuto oggetto relativamente di lusso in confronto dei cappellini e delle blouses, dissuase molte altre donne dal mantenersi fedeli ad un costume che forse avrebbero voluto serbare.
Così in pochi anni di dopo guerra, il caratteristico costume muliebre veneziano scomparve quasi totalmente dalla calli veneziane.

Non sarà possibile far rivivere il graziosissimo costume che s'intona squisitamente con i capelli corti e le gonne succinte voluti dalla moda contemporanea?
La risposta è sì, grazie a Sabrina e Betty della Sartoria dei Dogi, che tra i tanti antichi capi riportati in vita, realizzano magnifici scialli ricamati a mano, in perfetto stile veneziano.
La Sartoria è una delle tappe del tour degli artigiani proposto da L'altra Venezia.

Per informazioni: info@laltravenezia.it

Fonte: "Lo scialle veneziano" di E.M.Baroni, edito da Filippi Editore Venezia