"Scaleter" è il termine col quale si indicavano i pasticceri a Venezia. Il nome deriva da alcuni dolci che si producevano in occasioni di feste particolari o matrimoni: erano come cialde con impressi dei segni simili a gradini di una scala.
La prima sede dell'Arte fu nella chiesa di S. Fantin, dove ancora oggi è custodito il loro stendardo con l'immagine di San Fantino, loro protettore. Poi passarono ai Frari e a S. Paternian. Nel Settecento ebbero ospitalità presso la magistratura del Fontego della Farina, a Rialto. Alla fine della Repubblica erano presenti in città 59 botteghe.
Come ogni mestiere aveva delle regole severe: si doveva lavorare quattro anni come garzoni, poi altri sei come lavoranti e infine si poteva affrontare la prova per diventare maestri di bottega; se bocciati bisognava continuare per altri due anni come lavoranti e poi si poteva ritentare. Tra le varie prove si ricordano: "impastar et cucinar dodici savoiardi, dodici pani di Spagna, dodici bozzoladi del Zane, dodici bozzoladi caneladi col marzapan e dodici sfogiade tutti da due soldi l'uno con dodici storti e dodici scalette".
Il Levi segnala che nella loro mariegola (statuto) si trovano alcune disposizioni curiose: "che niun Scaleter ardisca di lavorare o far lavorare in pasta done, cavali, gali, oseli, calisoni ne cesteli".
giovedì 6 dicembre 2012
L'Arte dei pasticceri veneziani
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venerdì 23 novembre 2012
L'ingiusta condanna a morte di Antonio Foscarini
Lungo il rio terà Foscarini, popolarmente detto degli alberetti, sorgeva un palazzo Foscarini, abbattuto nell'Ottocento con l'interramento del rio. Vi abitò il Cavaliere Antonio Foscarini, senatore e ambasciatore di Venezia in Inghilterra e in Francia.
Antonio era l'amante della contessa Alathea Talbot di Arundel and Surrey, consorte di Thomas Howard, Maresciallo d'Inghilterra, che risiedeva a palazzo Mocenigo a S. Samuele. Lì si recava il Foscarini, di nascosto, ogni sera. L'abitazione della Contessa era frequentata da molte personalità, tra esse il segretario dell'ambasciatore di Spagna, stato col quale Venezia non aveva buoni rapporti.
Il Foscarini venne arrestato con l'accusa di aver svelato al segretario spagnolo i resoconti delle sedute segrete del Senato. Fu interrogato per cinque ore, chiuso in carcere e condannato a morte. Era il 20 aprile 1622. Se solo avesse confessato il vero motivo delle sue visite...
Il 22 agosto dello stesso anno il Consiglio dei X ordinava l'arresto di un tale Girolamo Vano. Costui era stato il teste principale a carico del Foscarini. In carcere Vano confessò e indicò, nella persona di Giulio Cazzari, la vera spia.
Il 16 gennaio 1623, la Repubblica proclamava solennemente il proprio errore e l'innocenza di Antonio Foscarini.
Il suo corpo venne riesumato e Venezia ne onorò la memoria con un funerale di stato, dedicandogli poi la lapide che ancor oggi può essere letta sulla sua tomba, nella chiesa di San Stae.
Antonio era l'amante della contessa Alathea Talbot di Arundel and Surrey, consorte di Thomas Howard, Maresciallo d'Inghilterra, che risiedeva a palazzo Mocenigo a S. Samuele. Lì si recava il Foscarini, di nascosto, ogni sera. L'abitazione della Contessa era frequentata da molte personalità, tra esse il segretario dell'ambasciatore di Spagna, stato col quale Venezia non aveva buoni rapporti.
Il Foscarini venne arrestato con l'accusa di aver svelato al segretario spagnolo i resoconti delle sedute segrete del Senato. Fu interrogato per cinque ore, chiuso in carcere e condannato a morte. Era il 20 aprile 1622. Se solo avesse confessato il vero motivo delle sue visite...
Il 22 agosto dello stesso anno il Consiglio dei X ordinava l'arresto di un tale Girolamo Vano. Costui era stato il teste principale a carico del Foscarini. In carcere Vano confessò e indicò, nella persona di Giulio Cazzari, la vera spia.
Il 16 gennaio 1623, la Repubblica proclamava solennemente il proprio errore e l'innocenza di Antonio Foscarini.
Il suo corpo venne riesumato e Venezia ne onorò la memoria con un funerale di stato, dedicandogli poi la lapide che ancor oggi può essere letta sulla sua tomba, nella chiesa di San Stae.
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domenica 11 novembre 2012
Il Teatro di San Cassiano
Il Teatro Vecchio di San Cassian venne realizzato da Alvise Michiel nel 1580. Francesco Sansovinon afferma che era di forma ellittica, in legno, e ci operava la Compagnia dei Gelosi.
Era situato all'interno di una piccola corte, dietro al campanile dell'omonima chiesa, ma alla fine del secolo risulta già chiuso. Poco dopo nacque il Teatro Nuovo di San Cassian, gestito da Ettore Tron, che nella denuncia delle tasse scrive: "Un luoco da recitar del quale al presente non si cava niente". Era situato dove ora si trova il giardino di Palazzo Albrizzi, alle Carampane.
F. Sansovino lo descrive di forma rotonda, con gradinate per gli spettatori e la compagnia che vi recitava si chiamava "dei Confidenti". Nel 1629 un incendio lo distrusse completamente; la ricostruzione fu molto lenta a causa della peste del 1630; fu riaperto solo nel 1636 con un dramma musicale; la struttura non era più in legno ma in pietra, a ferro di cavallo con cinque ordini di palchi. Furono rappresentate opere di Francesco Cavalli e anche un'opera di Claudio Monteverdi.
Interessanti e curiosi erano alcuni comportamenti del pubblico a teatro.
Al comparire dell'attrice preferita, oltre alle grida di gioia si declamavano poesie in sua lode e dai palchi si lanciavano fiori, dolci e colombe. In una serata in onore della ballerina Grisellini, La Farinella, furono lanciati in platea pernici, anatre e fagiani, e la rappresentazione si trasformò in una battuta di caccia!
Il Teatro inoltre risultava utile per esercitarsi al tiro al bersaglio: infatti il pubblico dai palchi lanciava mozziconi di candela sulla genta in platea!
Era situato all'interno di una piccola corte, dietro al campanile dell'omonima chiesa, ma alla fine del secolo risulta già chiuso. Poco dopo nacque il Teatro Nuovo di San Cassian, gestito da Ettore Tron, che nella denuncia delle tasse scrive: "Un luoco da recitar del quale al presente non si cava niente". Era situato dove ora si trova il giardino di Palazzo Albrizzi, alle Carampane.
F. Sansovino lo descrive di forma rotonda, con gradinate per gli spettatori e la compagnia che vi recitava si chiamava "dei Confidenti". Nel 1629 un incendio lo distrusse completamente; la ricostruzione fu molto lenta a causa della peste del 1630; fu riaperto solo nel 1636 con un dramma musicale; la struttura non era più in legno ma in pietra, a ferro di cavallo con cinque ordini di palchi. Furono rappresentate opere di Francesco Cavalli e anche un'opera di Claudio Monteverdi.
Interessanti e curiosi erano alcuni comportamenti del pubblico a teatro.
Al comparire dell'attrice preferita, oltre alle grida di gioia si declamavano poesie in sua lode e dai palchi si lanciavano fiori, dolci e colombe. In una serata in onore della ballerina Grisellini, La Farinella, furono lanciati in platea pernici, anatre e fagiani, e la rappresentazione si trasformò in una battuta di caccia!
Il Teatro inoltre risultava utile per esercitarsi al tiro al bersaglio: infatti il pubblico dai palchi lanciava mozziconi di candela sulla genta in platea!
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mercoledì 31 ottobre 2012
Palazzo Grassi e il Cavalier Servente
Palazzo Grassi sorge a fianco della Chiesa di San Samuele, sul Canal Grande. I Grassi erano d'origine bolognese, presenti a Chioggia già dalla fine del 1200. Nel Seicento furono iscritti nel "Libro d'Argento" come cittadini veneziani e ottennero il patriziato nel 1718, pagando una somma di 60.000 ducati. Nel 1732 "in data 12 maggio, i patrizi Giovanni e Angelo Grassi acquistarono per 22000 ducati, dalla famiglia Tribellini, le case poste nella contrada San Samuele, sopra il campo".
Sull'area di quelle case, poi abbattute, sorse, non senza difficoltà, il Palazzo Grassi. L'incarico fu dato all'architetto Giorgio Massari nel 1748 e fu terminato nel 1772, anno del matrimonio tra Giovanni Grassi e Margherita Condulmer. Il 20 gennaio 1779, Margherita si ritirò nel monastero di S. Lucia. Il motivo fu il divieto avuto dal marito di avere per cavalier servente il nobiluomo Giacomo Dolfin, giovane di bell'aspetto e assai istruito.
Il Cavalier Servente era un figura tipica del Settecento. Ogni nobildonna maritata che si rispettasse doveva averne uno e la presenza del cavalier servente era addirittura patteggiata nei contratti nuziali. Questa figura era anche chiamata "cicisbeo", termine che deriva da "cicisbeare", anticamente usato per "bisbigliare"; ancora oggi il bisbigliare spettegolando delle donne viene a volte indicato come "fare cicì e cocò". Ma forse invece deriva dal greco "cicys" (forza) e "sbeo" (estinguere, spegnere), nel senso di "effeminato".
Il cavalier servente andava al mattino a svegliare la dama, ad augurarle buon giorno, a servirle la colazione e ad aiutarla ad allacciarsi il busto. Poi la portava a passeggio, quindi a teatro o al ridotto, infine la riaccompagnava a casa, ad aspettare che si addormentasse...
Sull'area di quelle case, poi abbattute, sorse, non senza difficoltà, il Palazzo Grassi. L'incarico fu dato all'architetto Giorgio Massari nel 1748 e fu terminato nel 1772, anno del matrimonio tra Giovanni Grassi e Margherita Condulmer. Il 20 gennaio 1779, Margherita si ritirò nel monastero di S. Lucia. Il motivo fu il divieto avuto dal marito di avere per cavalier servente il nobiluomo Giacomo Dolfin, giovane di bell'aspetto e assai istruito.
Il Cavalier Servente era un figura tipica del Settecento. Ogni nobildonna maritata che si rispettasse doveva averne uno e la presenza del cavalier servente era addirittura patteggiata nei contratti nuziali. Questa figura era anche chiamata "cicisbeo", termine che deriva da "cicisbeare", anticamente usato per "bisbigliare"; ancora oggi il bisbigliare spettegolando delle donne viene a volte indicato come "fare cicì e cocò". Ma forse invece deriva dal greco "cicys" (forza) e "sbeo" (estinguere, spegnere), nel senso di "effeminato".
Il cavalier servente andava al mattino a svegliare la dama, ad augurarle buon giorno, a servirle la colazione e ad aiutarla ad allacciarsi il busto. Poi la portava a passeggio, quindi a teatro o al ridotto, infine la riaccompagnava a casa, ad aspettare che si addormentasse...
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venerdì 19 ottobre 2012
San Samuele e i terrazzi alla veneziana
La chiesa di San Samuele fu fondata verso l'anno Mille con il contributo della famiglia Boldù. Nel periodo gotico subì varie trasformazioni, finché nel Seicento venne profondamente ristrutturata.
La Chiesa mantenne il titolo di parrocchia fino al 1810, quando fu destinata ad oratorio della Chiesa di Santo Stefano.
Il campanile risale al XII secolo e conserva intatta la sua struttura originaria, con la cuspide a forma piramidale. L'edificio a ridosso del campanile era già presente nel Settecento ma fu ristrutturato e ampliato nel 1915 dal pittore Sezanne.
Come tutte le chiese cittadine, anche quella di San Samuele ospitò, in passato, molte Scuole d'Arte, tra queste ricordiamo la Scuola dei Terrazzeri. La Scuola dei fabbricatori di pavimenti era stata fondata nel 1370 ed era unita con quella dei Mureri (muratori), dai quali si divisero nel 1583.
I solai veneziani sono costituiti di travi d'abete o di larice, disposti paralleli lungo il lato più breve della stanza. Poi sopra i travi portanti si posizionano dei tavoloni d'abete che sorreggono la pavimentazione vera e propria, pavimentazione che deve sopportare, senza danno, le vibrazioni e le oscillazioni delle case veneziane, costruite su pali di legno.
Questo pavimento è il tipico "terrazzo alla veneziana". E' costituito da un sottofondo composto da un impasto di cotto macinato e calce di circa dieci, quindici centimetri di spessore, posto direttamente sopra le assi del solaio. Sopra il sottofondo è steso il pavimento vero e proprio, formato da pezzi di marmo colorato, a volte anche con lapislazzuli e madreperla, seminati a mano, uno ad uno, come in un mosaico.
La Chiesa mantenne il titolo di parrocchia fino al 1810, quando fu destinata ad oratorio della Chiesa di Santo Stefano.
Il campanile risale al XII secolo e conserva intatta la sua struttura originaria, con la cuspide a forma piramidale. L'edificio a ridosso del campanile era già presente nel Settecento ma fu ristrutturato e ampliato nel 1915 dal pittore Sezanne.
Come tutte le chiese cittadine, anche quella di San Samuele ospitò, in passato, molte Scuole d'Arte, tra queste ricordiamo la Scuola dei Terrazzeri. La Scuola dei fabbricatori di pavimenti era stata fondata nel 1370 ed era unita con quella dei Mureri (muratori), dai quali si divisero nel 1583.
I solai veneziani sono costituiti di travi d'abete o di larice, disposti paralleli lungo il lato più breve della stanza. Poi sopra i travi portanti si posizionano dei tavoloni d'abete che sorreggono la pavimentazione vera e propria, pavimentazione che deve sopportare, senza danno, le vibrazioni e le oscillazioni delle case veneziane, costruite su pali di legno.
Questo pavimento è il tipico "terrazzo alla veneziana". E' costituito da un sottofondo composto da un impasto di cotto macinato e calce di circa dieci, quindici centimetri di spessore, posto direttamente sopra le assi del solaio. Sopra il sottofondo è steso il pavimento vero e proprio, formato da pezzi di marmo colorato, a volte anche con lapislazzuli e madreperla, seminati a mano, uno ad uno, come in un mosaico.
giovedì 4 ottobre 2012
La caccia dei tori
D'origine antichissima ed incerta, si rinnovò per secoli ad ogni Carnevale, non solo nei campi più spaziosi ma anche, in occasioni straordinarie, in Piazza San Marco.
Le cacce ai tori si realizzarono fino al 1802, quando in Campo Santo Stefano, a causa del panico provocato da un toro imbizzarrito, crollò una gradinata costruita per l'occasione davanti a Palazzo Morosini e ci furono morti e feriti.
La festa era organizzata in modo sapiente e con regole precise da un uomo ricco di spirito oltreché di denaro, che conosceva le leggi e le buone maniere. Sua primaria urgenza era quella di chiedere al parroco di zona il permesso di svolgere la caccia.
Risolti gli aspetti burocratici, si pubblicizzava la data attraverso una sorta di manifesto affisso nel campo. Da quel momento in poi tutti coloro che abitavano o lavoravano in zona si prodigavano per il buon esito della festa. I proprietari dei palazzi prospicienti sul campo affittavano i propri balconi; i commercianti si rifornivano di merci ed erano garantiti buoni affari per tutti i luoghi di mescita del vino.
Gli attori che davano vita alla festa erano per lo più macellai, garzoni di bottega e gondolieri. Costoro sceglievano presso il macello i buoi di più fiero aspetto, tanto da giustificarne il nome di toro a loro dato. Il giorno della festa gli animali erano condotti nel campo; già l'arrivo era motivo di ilarità: scivolavano dalle barche, scappavano o cadevano in acqua.
Ma in cosa consisteva il gioco vero e proprio? I tiratori reggevano lunghe corde legate alle corna del bue per evitare che i cani addestrati azzannassero le orecchie dell'animale. In pratica era un gioco di tira e molla con i cani che aizzavano i buoi.
Questi giochi suscitarono perfino l'interesse di Torquato Tasso. Egli infatti assistette da un caccia ai tori in onore di Enrico III di Francia e nella Gerusalemme Liberata paragona Clorinda, che si sottrae ai cavalieri cristiani, al bue che si sottrae ai cani:
Tal gran tauro talor ne l'ampio agone
se volge il corno ai cani ond'è seguito
s'arretran essi; e s'a fuggir si pone
ciascun ritorna a seguitarlo ardito
Le cacce ai tori si realizzarono fino al 1802, quando in Campo Santo Stefano, a causa del panico provocato da un toro imbizzarrito, crollò una gradinata costruita per l'occasione davanti a Palazzo Morosini e ci furono morti e feriti.
La festa era organizzata in modo sapiente e con regole precise da un uomo ricco di spirito oltreché di denaro, che conosceva le leggi e le buone maniere. Sua primaria urgenza era quella di chiedere al parroco di zona il permesso di svolgere la caccia.
Risolti gli aspetti burocratici, si pubblicizzava la data attraverso una sorta di manifesto affisso nel campo. Da quel momento in poi tutti coloro che abitavano o lavoravano in zona si prodigavano per il buon esito della festa. I proprietari dei palazzi prospicienti sul campo affittavano i propri balconi; i commercianti si rifornivano di merci ed erano garantiti buoni affari per tutti i luoghi di mescita del vino.
Gli attori che davano vita alla festa erano per lo più macellai, garzoni di bottega e gondolieri. Costoro sceglievano presso il macello i buoi di più fiero aspetto, tanto da giustificarne il nome di toro a loro dato. Il giorno della festa gli animali erano condotti nel campo; già l'arrivo era motivo di ilarità: scivolavano dalle barche, scappavano o cadevano in acqua.
Ma in cosa consisteva il gioco vero e proprio? I tiratori reggevano lunghe corde legate alle corna del bue per evitare che i cani addestrati azzannassero le orecchie dell'animale. In pratica era un gioco di tira e molla con i cani che aizzavano i buoi.
Questi giochi suscitarono perfino l'interesse di Torquato Tasso. Egli infatti assistette da un caccia ai tori in onore di Enrico III di Francia e nella Gerusalemme Liberata paragona Clorinda, che si sottrae ai cavalieri cristiani, al bue che si sottrae ai cani:
Tal gran tauro talor ne l'ampio agone
se volge il corno ai cani ond'è seguito
s'arretran essi; e s'a fuggir si pone
ciascun ritorna a seguitarlo ardito
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giovedì 27 settembre 2012
"No se sa mai, un mal de note..."
("Non si sa mai, un male di notte...)
Intercalare ironico tipicamente veneziano. Lo si dice quando si voglia prendere per precauzione un qualche cosa che nulla abbia a che fare con i mali che possano capitare d'improvviso. Ad esempio, chi si portasse un libro per leggere prima di addormentarsi, potrebbe sentirsi dire da un amico: "No se sa mai, un mal de note...".
A proposito di notti e delle attività ad essa connesse, ci piace raccontare quel che successe a Giotto. Un amico del sommo pittore era andato a trovarlo nella sua casa ad aveva così avuto modo di osservarne i figli. E fu così che trovò il coraggio di chiedere a Giotto per quale motivo i suoi dipinti fossero tanto belli ed i suoi figli invece così brutti.
A tale domanda Giotto rispose in modo adeguato e pertinente, dicendo che tutto era così accaduto perché i dipinti li faceva di giorno ed invece i figli li aveva fatti di notte.
("Non si sa mai, un male di notte...)
Intercalare ironico tipicamente veneziano. Lo si dice quando si voglia prendere per precauzione un qualche cosa che nulla abbia a che fare con i mali che possano capitare d'improvviso. Ad esempio, chi si portasse un libro per leggere prima di addormentarsi, potrebbe sentirsi dire da un amico: "No se sa mai, un mal de note...".
A proposito di notti e delle attività ad essa connesse, ci piace raccontare quel che successe a Giotto. Un amico del sommo pittore era andato a trovarlo nella sua casa ad aveva così avuto modo di osservarne i figli. E fu così che trovò il coraggio di chiedere a Giotto per quale motivo i suoi dipinti fossero tanto belli ed i suoi figli invece così brutti.
A tale domanda Giotto rispose in modo adeguato e pertinente, dicendo che tutto era così accaduto perché i dipinti li faceva di giorno ed invece i figli li aveva fatti di notte.
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lunedì 17 settembre 2012
Morosini: palazzi, dogi, amanti e gatti
Palazzo Morosini fu portato in dote da Laura Priuli, vedova di Francesco Malipiero, quando sposò Pietro Morosini, rimasto vedovo di Maria Morosini.
La sontuosa dimora era composta da due edifici separati da un cortile interno; le facciate di terra e di acqua presentavano caratteri diversi e quella sul campo era affrescata da Antonio Aliense.
A fine Settecento, Gianantonio Selva aveva rimodernato l'intero edificio che raccoglieva armi, trofei, sculture e dipinti preziosi. Tra i suoi ospiti si ricorda Casanova, amico di Lorenzo II Morosini. Tra i due era nata una sincera amicizia e lo stesso Lorenzo invitava Casanova a frequentare il suo casin in Calle Casselleria, dove il Morosini incontrava l'amante, Paolina Stratico, sorella del suo professore!
I tesori di Palazzo Morosini furono dispersi nell'asta del 1894. Diverse opere si trovano oggi al Museo Correr e a Ca' Rezzonico; mentre l'affresco di G.B. Tiepolo "L'apoteosi del Peloponnesiaco" si trova a Milano, in Palazzo Isimbardi.
Naturalmente il personaggio più illustre della famiglia fu Francesco Morosini. Francesco veniva descritto come uomo di alta statura, carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondo rossicci, particolare comune a vari membri della famiglia.
Il futuro doge si fece valere nella guerra di Candia e nella famosa riconquista del Peloponneso (durante la quale fece bombardare il Partenone di Atene che i Turchi avevano trasformato in polveriera). L'elezione al dogado avvenne nell'aprile 1688, mentre Francesco era ancora impegnato nella campagna del Peloponneso. Solo alla conclusione dell'impresa tornò in città, dove venne accolto in modo trionfale l'11 gennaio 1690.
Morosini però è ricordato anche per alcune sue particolarità: era molto ambizioso, facile all'ira ma anche al perdono; non accavallava mai le gambe, considerandolo gesto poco dignitoso, mangiava con posate d'argento dorato, e amò a tal punto il suo gatto che alla sua morte lo fece imbalsamare!
La sontuosa dimora era composta da due edifici separati da un cortile interno; le facciate di terra e di acqua presentavano caratteri diversi e quella sul campo era affrescata da Antonio Aliense.
A fine Settecento, Gianantonio Selva aveva rimodernato l'intero edificio che raccoglieva armi, trofei, sculture e dipinti preziosi. Tra i suoi ospiti si ricorda Casanova, amico di Lorenzo II Morosini. Tra i due era nata una sincera amicizia e lo stesso Lorenzo invitava Casanova a frequentare il suo casin in Calle Casselleria, dove il Morosini incontrava l'amante, Paolina Stratico, sorella del suo professore!
I tesori di Palazzo Morosini furono dispersi nell'asta del 1894. Diverse opere si trovano oggi al Museo Correr e a Ca' Rezzonico; mentre l'affresco di G.B. Tiepolo "L'apoteosi del Peloponnesiaco" si trova a Milano, in Palazzo Isimbardi.
Naturalmente il personaggio più illustre della famiglia fu Francesco Morosini. Francesco veniva descritto come uomo di alta statura, carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondo rossicci, particolare comune a vari membri della famiglia.
Il futuro doge si fece valere nella guerra di Candia e nella famosa riconquista del Peloponneso (durante la quale fece bombardare il Partenone di Atene che i Turchi avevano trasformato in polveriera). L'elezione al dogado avvenne nell'aprile 1688, mentre Francesco era ancora impegnato nella campagna del Peloponneso. Solo alla conclusione dell'impresa tornò in città, dove venne accolto in modo trionfale l'11 gennaio 1690.
Morosini però è ricordato anche per alcune sue particolarità: era molto ambizioso, facile all'ira ma anche al perdono; non accavallava mai le gambe, considerandolo gesto poco dignitoso, mangiava con posate d'argento dorato, e amò a tal punto il suo gatto che alla sua morte lo fece imbalsamare!
lunedì 10 settembre 2012
Antichi mestieri veneziani: pistori e calegheri
La chiesa di Santo Stefano a Venezia ospitò per un certo periodo la Scuola dei pistori (fornai).
I fornai erano molto abili nel confezionare il pan-biscotto, elemento indispensabile sulle navi che trascorrevano in mare settimane quando non mesi. Così dal 1402 il Consiglio dei X permise loro di radunarsi prima nella Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo e poi a Santo Stefano, più vicino ad alcune loro proprietà immobiliari.
Un'altra confraternita si radunava in quella chiesa già dal 1383: i calegheri (calzolai).
Non era una vera e propria Scuola d'Arte, ma piuttosto di assistenza e devozione, riservata ai calzolai operanti in Venezia in caso di malattia, per questo motivo dipendeva direttamente dai Provveditori sopra gli Ospedali.
Nel 1482 un membro della confraternita, Enrico Corrado, donò alla Corporazione un edificio in Calle delle Botteghe (n.c. 3127-3133); qui ebbero la loro sede, contraddistinta da alcune calzature scolpite sui pilastri, e il loro ospedale. Una lapide ricorda un restauro secentesco. Molto eleganti i due bassorilievi con le raffigurazioni di calzature e il rilievo con l'Annunciazione sopra il portale d'ingresso.
Piccola curiosità: dal 1737 tutti i calegheri che risiedevano in città dovevano accorrere sul posto dove scoppiava un incendio. Muniti di spago, cuoio ed altri strumenti del mestiere erano a disposizione per riparare eventuali guasti alle manichette delle pompe dell'acqua.
I fornai erano molto abili nel confezionare il pan-biscotto, elemento indispensabile sulle navi che trascorrevano in mare settimane quando non mesi. Così dal 1402 il Consiglio dei X permise loro di radunarsi prima nella Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo e poi a Santo Stefano, più vicino ad alcune loro proprietà immobiliari.
Un'altra confraternita si radunava in quella chiesa già dal 1383: i calegheri (calzolai).
Non era una vera e propria Scuola d'Arte, ma piuttosto di assistenza e devozione, riservata ai calzolai operanti in Venezia in caso di malattia, per questo motivo dipendeva direttamente dai Provveditori sopra gli Ospedali.
Nel 1482 un membro della confraternita, Enrico Corrado, donò alla Corporazione un edificio in Calle delle Botteghe (n.c. 3127-3133); qui ebbero la loro sede, contraddistinta da alcune calzature scolpite sui pilastri, e il loro ospedale. Una lapide ricorda un restauro secentesco. Molto eleganti i due bassorilievi con le raffigurazioni di calzature e il rilievo con l'Annunciazione sopra il portale d'ingresso.
Piccola curiosità: dal 1737 tutti i calegheri che risiedevano in città dovevano accorrere sul posto dove scoppiava un incendio. Muniti di spago, cuoio ed altri strumenti del mestiere erano a disposizione per riparare eventuali guasti alle manichette delle pompe dell'acqua.
domenica 2 settembre 2012
“Mio caro, niente di quello che ho sentito di Venezia può evocare la sua magnifica e stupenda realtà. Le immagini più fantastiche delle Mille e una notte non sono nulla in confronto a Piazza San Marco e all’impressione che si prova una volta entrati nella chiesa. La reale magnificenza di Venezia va oltre la più stravagante fantasia di un sognatore. L’oppio non riuscirebbe a creare il sogno di un luogo simile, e nessuna suggestione potrebbe creare le sembianze altrettanto incantevoli. Tutto quello che avevo sentito, letto o fantasticato su Venezia è lontano mille miglia. Sai che quando le aspettative sono alte tendo a restare deluso, ma Venezia è superlativa, è oltre, è al di fuori dell’immaginazione umana. Non è mai stata considerata a sufficienza. Solo a vederla piangeresti”
(Charles Dickens, novembre 1844)
(Charles Dickens, novembre 1844)
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