"E poi c'è tutta l'altra Venezia: quella interna, delle calli, dei campi, dei rii, delle rive remote, quella che forma il gran corpo della città. Città sempre un poco strana e segreta, anche a chi l'abbia in antica consuetudine, che non si lascia comprendere intera neppure da chi ne abbia la labirintica topografia stampata nella testa e sotto la pianta dei piedi...
Una cosa mi par di capire e di poter dire con certezza (una cosa evidente, del resto): che codesta ragione o legge è di origine acquatica. Una città fabbricata in mezzo all'acqua, su cento isolotti, separati l'un dall'altro da centocinquanta canali, non può avere la forma organica di un'altra, fabbricata sul monte, o nella pianura, o sia pure in riva al lago o al mare.
Prima la necessità materiale, poi quell'altra, d'ordine spirituale, ch'è la fantasia, hanno condotto i costruttori di Venezia a obbedire all'elemento dominante nella loro sfera di vita, rifiutando tutti i modelli esistenti, ascoltando solo i precetti urbanistici delle maree, delle correnti, dei flussi e riflussi; e delle fasi lunari, e dei venti e della mutevole luce".
(Diego Valeri, Guida sentimentale di Venezia)
Dalla targa a lui dedicata in Fondamenta dei Cereri:
"Qui c'è sempre un poco di vento, a tutte le ore di ogni stagione, un soffio, almeno un respiro. Qui da tanti anni io ci vivo e giorno dopo giorno scrivo il mio nome sul vento" (1975)
giovedì 11 settembre 2014
giovedì 4 settembre 2014
Breve storia della cucina veneziana
Costruita su scampoli di terre, isolata dalle acque della laguna, senza poter coltivare grano e frumento, né "cosa alcuna al viver degli uomini", Venezia ha malgrado tutto detenuto per secoli una posizione primaria nell'arte della gastronomia.
Facendo di necessità virtù, i veneziani diventano presto abili mercanti, per procurarsi quei beni primari che in Laguna non c'erano, ma quella che inizialmente doveva essere una semplice fonte di sussistenza si trasforma presto in una fonte di guadagno, in quanto si comincia ad importare da mercati lontani non solo grano e frumento ma anche spezie, zucchero ed altre merci culinarie sconosciute in Europa.
In anticipo di diversi secoli Venezia intuisce presto la potenzialità di queste merci e inventa letteralmente il marketing, capendo che per poter vendere bene un prodotto bisogna creare la domanda e non aspettare che questa si formi da sola. Ecco quindi che Venezia stessa "inventa" il lusso delle spezie. Ma non solo, sempre in forte anticipo sui tempi, inventa anche il packaging, immettendo sul mercato i famosi "sacchetti veneziani", cioè spezie miste già confezionate e pronte all'uso!
Erede diretta della tradizione bizantina e romana, la gastronomia lagunare è tra le prime a confrontarsi con le altre cucine del mondo: da quella musulmana a quella austroungarica, passando per quella spagnola e francese. Sono incontri che nascono dalla convivenza con le popolazioni islamiche sui mercati di Levante e dal confronto con le minoranze straniere presenti in città fin dai tempi più antichi.
Tra il Quattro e il Cinquecento nuovi e significativi prodotti vanno ad aggiungersi a questa ricchezza di base: dalle gelide acque dei mari del Nord arriva il baccalà, alias stoccafisso, un'autentica rivoluzione culinaria, in un'epoca in cui non esiste il frigorifero.
In una situazione già di per se privilegiata, il Rinascimento investe Venezia con tutta la sua energia innovatrice, e come poteva essere diversamente in una città che sa usare tutte le armi della seduzione, compresa quella del cibo, raffinato e lussuoso, lanciando messaggi di potenza politica a regali ospiti stranieri tramortendoli con fiumi di spezie, zucchero e foglie d'oro su ostriche?
Ma la vera grandezza di Venezia è stata quella di saper uscire dalle cucine e di arrivare alle biblioteche, che poi significa uscire dalle dimensioni dell'effimero per restare nei secoli. Caso unico in tutta la penisola, qui si sviluppa una grande editoria gastronomica con la pubblicazione di ricettari, traduzioni di libri di dietetica dall'arabo e dal greco, trattati di agricoltura e resoconti di viaggio che informano sulla scoperta di nuovi prodotti.
La fine del Cinquecento chiude l'epoca delle pietanze sotterrate da una montagna di spezie, e il vento di nuovi gusti moderni portati dai francesi giunge anche a Venezia. Il consumo del lusso prende altre strade, e per i mercanti veneziani non ha più senso riempire le stive delle navi di quelle spezie che hanno fatto la loro fortuna. Ma i patrizi non si perdono certo d'animo e si riciclano imboccando la via della terraferma, con le grandi bonifiche, gli investimenti agricoli, e la coltura di quelle primizie che rivoluzionano il territorio veneto nella forma che ancora oggi vediamo.
Tra osterie e finger food, tra cioccolate illuministiche e chef francesi si arriva al Settecento. Si spegne la Repubblica ma non la gastronomia, che si fa tentare dai gusti mitteleuropei importati dagli austriaci. Si stampano i primi ricettari borghesi ottocenteschi e la cucina si internazionalizza.
Nel Novecento, legata con un ponte di cemento e di ferro alla terraferma, Venezia perde la sua insularità. Il turista rimpiazza il viaggiatore, i bacari si trasformano in bar tutti uguali, il cicchetto troppo spesso lascia il posto a pizze e panini surgelati.
L'invasione del gusto globalizzato non cancella comunque la buona cucina veneziana, che rimane arroccata in pochi locali e nella dimensione intima della casa.
(fonte: C. Coco)
Facendo di necessità virtù, i veneziani diventano presto abili mercanti, per procurarsi quei beni primari che in Laguna non c'erano, ma quella che inizialmente doveva essere una semplice fonte di sussistenza si trasforma presto in una fonte di guadagno, in quanto si comincia ad importare da mercati lontani non solo grano e frumento ma anche spezie, zucchero ed altre merci culinarie sconosciute in Europa.
In anticipo di diversi secoli Venezia intuisce presto la potenzialità di queste merci e inventa letteralmente il marketing, capendo che per poter vendere bene un prodotto bisogna creare la domanda e non aspettare che questa si formi da sola. Ecco quindi che Venezia stessa "inventa" il lusso delle spezie. Ma non solo, sempre in forte anticipo sui tempi, inventa anche il packaging, immettendo sul mercato i famosi "sacchetti veneziani", cioè spezie miste già confezionate e pronte all'uso!
Erede diretta della tradizione bizantina e romana, la gastronomia lagunare è tra le prime a confrontarsi con le altre cucine del mondo: da quella musulmana a quella austroungarica, passando per quella spagnola e francese. Sono incontri che nascono dalla convivenza con le popolazioni islamiche sui mercati di Levante e dal confronto con le minoranze straniere presenti in città fin dai tempi più antichi.
Tra il Quattro e il Cinquecento nuovi e significativi prodotti vanno ad aggiungersi a questa ricchezza di base: dalle gelide acque dei mari del Nord arriva il baccalà, alias stoccafisso, un'autentica rivoluzione culinaria, in un'epoca in cui non esiste il frigorifero.
In una situazione già di per se privilegiata, il Rinascimento investe Venezia con tutta la sua energia innovatrice, e come poteva essere diversamente in una città che sa usare tutte le armi della seduzione, compresa quella del cibo, raffinato e lussuoso, lanciando messaggi di potenza politica a regali ospiti stranieri tramortendoli con fiumi di spezie, zucchero e foglie d'oro su ostriche?
Ma la vera grandezza di Venezia è stata quella di saper uscire dalle cucine e di arrivare alle biblioteche, che poi significa uscire dalle dimensioni dell'effimero per restare nei secoli. Caso unico in tutta la penisola, qui si sviluppa una grande editoria gastronomica con la pubblicazione di ricettari, traduzioni di libri di dietetica dall'arabo e dal greco, trattati di agricoltura e resoconti di viaggio che informano sulla scoperta di nuovi prodotti.
La fine del Cinquecento chiude l'epoca delle pietanze sotterrate da una montagna di spezie, e il vento di nuovi gusti moderni portati dai francesi giunge anche a Venezia. Il consumo del lusso prende altre strade, e per i mercanti veneziani non ha più senso riempire le stive delle navi di quelle spezie che hanno fatto la loro fortuna. Ma i patrizi non si perdono certo d'animo e si riciclano imboccando la via della terraferma, con le grandi bonifiche, gli investimenti agricoli, e la coltura di quelle primizie che rivoluzionano il territorio veneto nella forma che ancora oggi vediamo.
Tra osterie e finger food, tra cioccolate illuministiche e chef francesi si arriva al Settecento. Si spegne la Repubblica ma non la gastronomia, che si fa tentare dai gusti mitteleuropei importati dagli austriaci. Si stampano i primi ricettari borghesi ottocenteschi e la cucina si internazionalizza.
Nel Novecento, legata con un ponte di cemento e di ferro alla terraferma, Venezia perde la sua insularità. Il turista rimpiazza il viaggiatore, i bacari si trasformano in bar tutti uguali, il cicchetto troppo spesso lascia il posto a pizze e panini surgelati.
L'invasione del gusto globalizzato non cancella comunque la buona cucina veneziana, che rimane arroccata in pochi locali e nella dimensione intima della casa.
(fonte: C. Coco)
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sabato 23 agosto 2014
Francesco Guardi, non solo vedutismo
Francesco Guardi (Venezia, 1712 - 1793) si formò artisticamente nella bottega di famiglia, condotta dal fratello maggiore Giovanni Antonio fino al 1760, anno della morte di quest'ultimo.
Gran parte delle opere di quel periodo sono di difficile attribuzione, in quanto frutto della collaborazione fra i due.
Le opere di Francesco rivelano tuttavia una maggiore propensione al paesaggio e ai suoi valori atmosferici. Le sue opere di vedutista risentono inizialmente sia dei capricci di Marco Ricci, sia delle luminose prospettive del Canaletto, ma ben presto Francesco si libererà dell'influenza dei due grandi maestri per un vedutismo dal tocco rapido e guizzante, spesso indicato come anticipatore di metriche impressioniste, e che rivela una costruzione distorta e a volte allucinata delle figure, di un espressionismo accentuato e con una struttura anticonvenzionale del dipinto stesso.
La sua fase tarda conosce diverse ma coerenti esperienze: nel gennaio 1782 gli arciduchi russi Paolo Petrovic e Maria Teodorovna, chiamati Conti del Nord, visitano Venezia, onorati con festeggiamenti pubblici e Guardi ottiene dal governo veneziano di ricordare l'avvenimento in sei tele. Il processo di costruzione della forma per via puramente cromatica è evidente in tutte le opere tarde, come nell'Incendio degli olii a San Marcuola, che rievoca un dramma realmente avvenuto il 29 dicembre 1789 attraverso animati accenti di cromatismo magico.
Pittore prolifico continua a realizzare capolavori anche in età estrema come la Regata sul Canal Grande davanti Palazzo Mocenigo della Trezza vibrante e luminosa ripresa del passaggio delle gondole in gara davanti all'Ambasciata di Francia, datata 1791.
Francesco Guardi muore il primo gennaio 1793 nella sua casa veneziana di Cannaregio, in campiello de la Madonna.
"Nel gelo dei primi giorni del 1793 un corteo funebre attraversa il campo della Madonna delle Grazie a San Cancian. Dalle Fondamente Nuove, nell'atmosfera umida e opaca, le isole della laguna, i campanili, le cupole, sono contorni appena accennati; il limite tra acqua e cielo si perde in un orizzonte grigio. I lugubri rintocchi del requiem sono per Francesco Guardi, il pittore ottantenne divenuto celebre per le sue vedute della città, spesso appena abbozzate, accennate. proprio come accade nella luce malcerta e triste di questa mattina d'inverno. Sotto i mantelli neri, coloro che partecipano alla modesta cerimonia rabbrividiscono, ma non solo per il freddo di gennaio. Molti sanno che è morto l'ultimo grande pittore della Serenissima; forse qualcuno intuisce che anche l'antica Repubblica sta ormai agonizzando".
(Stefano Zuffi)
Gran parte delle opere di quel periodo sono di difficile attribuzione, in quanto frutto della collaborazione fra i due.
Le opere di Francesco rivelano tuttavia una maggiore propensione al paesaggio e ai suoi valori atmosferici. Le sue opere di vedutista risentono inizialmente sia dei capricci di Marco Ricci, sia delle luminose prospettive del Canaletto, ma ben presto Francesco si libererà dell'influenza dei due grandi maestri per un vedutismo dal tocco rapido e guizzante, spesso indicato come anticipatore di metriche impressioniste, e che rivela una costruzione distorta e a volte allucinata delle figure, di un espressionismo accentuato e con una struttura anticonvenzionale del dipinto stesso.
La sua fase tarda conosce diverse ma coerenti esperienze: nel gennaio 1782 gli arciduchi russi Paolo Petrovic e Maria Teodorovna, chiamati Conti del Nord, visitano Venezia, onorati con festeggiamenti pubblici e Guardi ottiene dal governo veneziano di ricordare l'avvenimento in sei tele. Il processo di costruzione della forma per via puramente cromatica è evidente in tutte le opere tarde, come nell'Incendio degli olii a San Marcuola, che rievoca un dramma realmente avvenuto il 29 dicembre 1789 attraverso animati accenti di cromatismo magico.
Pittore prolifico continua a realizzare capolavori anche in età estrema come la Regata sul Canal Grande davanti Palazzo Mocenigo della Trezza vibrante e luminosa ripresa del passaggio delle gondole in gara davanti all'Ambasciata di Francia, datata 1791.
Francesco Guardi muore il primo gennaio 1793 nella sua casa veneziana di Cannaregio, in campiello de la Madonna.
"Nel gelo dei primi giorni del 1793 un corteo funebre attraversa il campo della Madonna delle Grazie a San Cancian. Dalle Fondamente Nuove, nell'atmosfera umida e opaca, le isole della laguna, i campanili, le cupole, sono contorni appena accennati; il limite tra acqua e cielo si perde in un orizzonte grigio. I lugubri rintocchi del requiem sono per Francesco Guardi, il pittore ottantenne divenuto celebre per le sue vedute della città, spesso appena abbozzate, accennate. proprio come accade nella luce malcerta e triste di questa mattina d'inverno. Sotto i mantelli neri, coloro che partecipano alla modesta cerimonia rabbrividiscono, ma non solo per il freddo di gennaio. Molti sanno che è morto l'ultimo grande pittore della Serenissima; forse qualcuno intuisce che anche l'antica Repubblica sta ormai agonizzando".
(Stefano Zuffi)
domenica 3 agosto 2014
L'altana del poeta
Nel 1899 Henri de Régnier arriva per la prima volta a Venezia e soggiorna a Ca' Dario, ospite delle due proprietarie di allora, la contessa de la Baume e M.me Bulteau.
Ecco come il poeta racconta la sua scoperta dell'altana del palazzo, che gli ispirerà poi il titolo del libro dedicato a Venezia:
"Non ho voglia di dormire. Dove può portare questa scaletta, di cui ho intravisto sul pianerottolo, entrando nella mia camera, i primi gradini? Forse a qualche soffitta? Proviamo.
Arrivo davanti ad una porta, chiusa da un semplice catenaccio. La apro e mi trovo all'aperto su una piattaforma di legno, delimitata da un parapetto. Questa terrazza, questo belvedere, è posato sul tetto del Palazzo. Da qui io domino il pendio delle sue vecchie tegole e sono vicino ai suoi alti camini, uno dei quali termina a forma di dado e l'altro a imbuto.
Che vedo ancora? Un angolo luccicante del Canal Grande, la cupola tondeggiante d'una chiesa, poi altri tetti, altri camini, tutto questo bagnato dal chiarore d'una luna splendente, avvolto in un silenzio profondo, in cui percepisco ora, lontano e come sordamente ritmato, un sussurro che è una presenza e che saprò più tardi essere il mormorio del mare che s'infrange sulla spiaggia del Lido.
Ma questa sera, questo sussurro, non è per me che il respiro della maga addormentata e il vivo sospiro della sua bellezza.
So solamente una cosa in questa bella notte di settembre, ed è che questo silenzio, questo chiaro di luna, questo palazzo, questa terrazza sospesa, che io non chiamo ancora altana, tutto questo è Venezia, e io sono felice".
(Henri de Régnier, "L'altana ou la vie vénitienne")
Ecco come il poeta racconta la sua scoperta dell'altana del palazzo, che gli ispirerà poi il titolo del libro dedicato a Venezia:
"Non ho voglia di dormire. Dove può portare questa scaletta, di cui ho intravisto sul pianerottolo, entrando nella mia camera, i primi gradini? Forse a qualche soffitta? Proviamo.
Arrivo davanti ad una porta, chiusa da un semplice catenaccio. La apro e mi trovo all'aperto su una piattaforma di legno, delimitata da un parapetto. Questa terrazza, questo belvedere, è posato sul tetto del Palazzo. Da qui io domino il pendio delle sue vecchie tegole e sono vicino ai suoi alti camini, uno dei quali termina a forma di dado e l'altro a imbuto.
Che vedo ancora? Un angolo luccicante del Canal Grande, la cupola tondeggiante d'una chiesa, poi altri tetti, altri camini, tutto questo bagnato dal chiarore d'una luna splendente, avvolto in un silenzio profondo, in cui percepisco ora, lontano e come sordamente ritmato, un sussurro che è una presenza e che saprò più tardi essere il mormorio del mare che s'infrange sulla spiaggia del Lido.
Ma questa sera, questo sussurro, non è per me che il respiro della maga addormentata e il vivo sospiro della sua bellezza.
So solamente una cosa in questa bella notte di settembre, ed è che questo silenzio, questo chiaro di luna, questo palazzo, questa terrazza sospesa, che io non chiamo ancora altana, tutto questo è Venezia, e io sono felice".
(Henri de Régnier, "L'altana ou la vie vénitienne")
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mercoledì 23 luglio 2014
La tragedia dell'eroe veneziano Agostino Stefani
Sul lato sinistro della Chiesa degli Scalzi si trova una targa dedicata ad Agostino Stefani.
Nel 1849, quando apparve ormai imminente la distruzione di Marghera da parte degli austriaci, si decise di procedere alla demolizione del ponte sulla laguna. A tale missione parteciparono, sotto i bombardamenti austriaci, non solo operai salariati ma anche centinaia di volontari.
Il 31 maggio 1849 apparve sui giornali di Venezia la notizia che uno dei lavoranti addetti alla demolizione del ponte, identificato in Agostino Stefani da Budoja (in Friuli), aveva insospettito con il suo comportamento gli altri operai, i quali avevano avuto l'impressione che volesse scappare per porsi in salvo verso la parte austriaca. Raggiunto e interrogato, diede spiegazioni confuse. Durante il suo trasporto in Prefettura, nonostante la scorta dei gendarmi, fu assalito dalla popolazione. Il malcapitato si gettò in acqua per sfuggire alle violenze ma, colpito da pietre, sassi, colpi di remo e di badile, fu ucciso,
"Non pertanto nel giorno 2 luglio, avendo preso la parola nell'Assemblea Veneta Niccolò Tommaseo, fra il generale stupore s'intese che il muratore che nel 30 maggio venne massacrato a furore di popolo sul ponte della laguna, perché ritenuto sventuratamente reo di tradimento, per accurate investigazioni era stato riconosciuto innocente.
Era in realtà un eroe. Erasi infatti consacrato, per la testimonianza del tenente colonnello Enrico Cosenz, che quel muratore si offerse per accendere una mina sotto ad un arco presso gli avamposti nemici; che, generoso di sé, siccome l'impresa era azzardata, dava il proprio nome a Cosenz, il quale lo notava sul portafoglio, e, ammirato di tanta fortezza d'animo, incaricava quel fedele operaio dell'ardita azione, ripromettendogli glorificazione e onore... il Cosenz fatalmente si partiva dal luogo. La leggera barchetta intanto aveva dato nel secco, e il muratore, messosi in acqua, cercava spingerla innanzi e faceva segni col cappello per mostrarsi ancora vivo ai suoi, i quali, ignari della sua missione, vedendo quest'uomo così lontano, lo ritennero ben altro e riferirono all'ufficiale sorvegliante, il quale spedì alcune barche a quella volta. Ricondotto, disse di essere stato spedito da un ufficiale in occhiali (i quali appunto Cosenz portava); ma Ulloa, comandante il circondario, non si ritiene abbastanza istruito ad interrogarlo e lo rimette alla Prefettura d'ordine pubblico. Corre voce intanto degli oggetti rinvenuti nella sacca, e la moltitudine inferocita lo assale...."
(Gabriele Fantoni: Biografie di dieci patrioti veneziani, 1898)
Il tragico equivoco che costò la vita all'eroico muratore di Budoja appartiene alla storia degli ultimi mesi dell'epopea veneziana quando, pur stremata dalla fame, dal colera e dai bombardamenti, anche la popolazione civile volle tener fede all'impegno di "resistere all'Austriaco ad ogni costo".
Venezia e la sua agonia trovarono il loro commosso cantore in Arnaldo Fusinato, autore della celebre Ode a Venezia:
Passa un gondola / della città
"Ehi della gondola / qual novità?"
"Il morbo infuria / il pan ci manca
sul ponte sventola / bandiera bianca".
No no, non spleder / su tanti guai,
sole d'Italia / non splender mai,
e sulla veneta / spenta fortuna
si eterna il gemito / della laguna.
Venezia, l'ultima / ora è venuta,
illustre martire / tu sei perduta,
il morbo infuria / il pan ci manca,
sul ponte sventola / bandiera bianca.
Nel 1849, quando apparve ormai imminente la distruzione di Marghera da parte degli austriaci, si decise di procedere alla demolizione del ponte sulla laguna. A tale missione parteciparono, sotto i bombardamenti austriaci, non solo operai salariati ma anche centinaia di volontari.
Il 31 maggio 1849 apparve sui giornali di Venezia la notizia che uno dei lavoranti addetti alla demolizione del ponte, identificato in Agostino Stefani da Budoja (in Friuli), aveva insospettito con il suo comportamento gli altri operai, i quali avevano avuto l'impressione che volesse scappare per porsi in salvo verso la parte austriaca. Raggiunto e interrogato, diede spiegazioni confuse. Durante il suo trasporto in Prefettura, nonostante la scorta dei gendarmi, fu assalito dalla popolazione. Il malcapitato si gettò in acqua per sfuggire alle violenze ma, colpito da pietre, sassi, colpi di remo e di badile, fu ucciso,
"Non pertanto nel giorno 2 luglio, avendo preso la parola nell'Assemblea Veneta Niccolò Tommaseo, fra il generale stupore s'intese che il muratore che nel 30 maggio venne massacrato a furore di popolo sul ponte della laguna, perché ritenuto sventuratamente reo di tradimento, per accurate investigazioni era stato riconosciuto innocente.
Era in realtà un eroe. Erasi infatti consacrato, per la testimonianza del tenente colonnello Enrico Cosenz, che quel muratore si offerse per accendere una mina sotto ad un arco presso gli avamposti nemici; che, generoso di sé, siccome l'impresa era azzardata, dava il proprio nome a Cosenz, il quale lo notava sul portafoglio, e, ammirato di tanta fortezza d'animo, incaricava quel fedele operaio dell'ardita azione, ripromettendogli glorificazione e onore... il Cosenz fatalmente si partiva dal luogo. La leggera barchetta intanto aveva dato nel secco, e il muratore, messosi in acqua, cercava spingerla innanzi e faceva segni col cappello per mostrarsi ancora vivo ai suoi, i quali, ignari della sua missione, vedendo quest'uomo così lontano, lo ritennero ben altro e riferirono all'ufficiale sorvegliante, il quale spedì alcune barche a quella volta. Ricondotto, disse di essere stato spedito da un ufficiale in occhiali (i quali appunto Cosenz portava); ma Ulloa, comandante il circondario, non si ritiene abbastanza istruito ad interrogarlo e lo rimette alla Prefettura d'ordine pubblico. Corre voce intanto degli oggetti rinvenuti nella sacca, e la moltitudine inferocita lo assale...."
(Gabriele Fantoni: Biografie di dieci patrioti veneziani, 1898)
Il tragico equivoco che costò la vita all'eroico muratore di Budoja appartiene alla storia degli ultimi mesi dell'epopea veneziana quando, pur stremata dalla fame, dal colera e dai bombardamenti, anche la popolazione civile volle tener fede all'impegno di "resistere all'Austriaco ad ogni costo".
Venezia e la sua agonia trovarono il loro commosso cantore in Arnaldo Fusinato, autore della celebre Ode a Venezia:
Passa un gondola / della città
"Ehi della gondola / qual novità?"
"Il morbo infuria / il pan ci manca
sul ponte sventola / bandiera bianca".
No no, non spleder / su tanti guai,
sole d'Italia / non splender mai,
e sulla veneta / spenta fortuna
si eterna il gemito / della laguna.
Venezia, l'ultima / ora è venuta,
illustre martire / tu sei perduta,
il morbo infuria / il pan ci manca,
sul ponte sventola / bandiera bianca.
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lunedì 7 luglio 2014
Cattedrale Santa Maria Assunta di Torcello
Fondata nel 639, come ricorda l'iscrizione epigrafica a sinistra del coro (considerato il più antico documento in laguna), fu fatta ricostruire nel 1008 da Orso Orseolo, figlio del doge Pietro Orseolo II, quando divenne vescovo di Torcello.
L'edificio veneto-bizantino (in forma basilicale romanica) si presenta a tre navate, con pietre a vista, una facciata centrale sopraelevata scandita da sei lesene e un porticato antistante. Questo, originariamente sorretto da quattro colonne, ne vide aggiungersi altre da entrambi i lati, che lo portarono a congiungersi con quello di Santa Fosca nel corso del XIV e XV secolo.
Sul lato destro si erge la grande torre quadrata del campanile (XII secolo), emblema, come nelle contemporanee Pomposa e Aquileia, della potenza della città.
Anticamente la facciata era affiancata da un battistero a pianta circolare di cui ancora si possono vedere le fondamenta.
Sul fianco della chiesa sono interessanti le chiusure delle finestre centinate a grandi lastroni di pietra movibili su cardini anch'essi di pietra.
Il soffitto ligneo, ad incavallature scoperte, è rimasto forse quello originario.
L'ampia e luminosa navata tripla, con le alte colonne che sorreggono capitelli in parte romani e in parte imitati nelle officine veneziane, ricorda Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna.
Il pavimento in mosaico di marmo è sopraelevato di circa venti centimetri sul preesistente del IX secolo, lavorato con cubetti bianchi e neri i cui resti si possono ammirare attraverso due botole.
Il presbiterio, ai cui piedi è posta la pietra tombale del vescovo Paolo di Altino, è segnato dall'iconostasi con al centro la porta sacra, delimitata da tre sottili colonne, chiuse per metà da plutei marmorei bizantini dell'XI secolo, adorni, come merletti di pietra, da immagini di fiori, leoni e pavoni che si abbeverano alla fontana divina. Le colonne sorreggono tavole quattrocentesche che rappresentano la Madonna attorniata dai dodici apostoli, su cui si innalza il coevo crocifisso ligneo.
L'altare, il cui piano è di spesso marmo greco, è stato ricostruito nel 1939 in luogo di un deturpante impianto barocco. Ai suoi piedi, protetto da una grata, si trova un sarcofago romano del III secolo che contiene le spoglie del santo vescovo altinate Eliodoro (spoglie traslate a Torcello in seguito alla conquista di Altino da parte dei Longobardi).
La conca absidale si apre con il trono del vescovo addossato all'abside, come in Santa Maria delle Grazie a Grado (V secolo). Questo si erge su gradinate circolari e vi si accede salendo dieci scalini, simbolo dei dieci comandamenti.
Sopra il trono episcopale è rappresentato, a mosaico, Sant'Eliodoro. Gli apostoli, vestiti con il proprio simbolo come nelle chiese ravennati, procedono simmetricamente sotto i piedi della Vergine. Al centro della processione si apre una finestrella, simbolo della luce divina, e la Vergine bizantina Teotoga (XII secolo), regalmente vestita e isolata nello spazio dorato del catino absidale, rappresenta l'incontro tra l'umano e il divino.
Tre le sue braccia regge il Bambino, che porta il rotolo della legge, mentre dalle sue mani pende un fazzoletto bianco, simbolo della mater dolorosa.
Il loro sguardo dolcissimo rapisce l'osservatore.
L'abside della cappella laterale destra, decorata a mosaico nel IX secolo e rimaneggiata nel XII secolo, rappresenta quattro dottori della Chiesa: Agostino, Ambrogio, Martino e Gregorio. Sopra è il Cristo Pantocratore con la tavola delle leggi attorniato dagli arcangeli Michele e Gabriele.
Nella cappella laterale sinistra permangono resti di un affresco duecentesco, e sulla stessa navata trova posto la piccola pala di Maria Vergine dipinta da Tintoretto.
L'imponente mosaico del Giudizio universale (XI - XII secolo), che occupa l'intera parete ovest (controfacciata), doveva ricordare ai fedeli che uscivano dalla funzione il destino finale.
Il racconto articolato in sei sequenze si legge dall'alto verso il basso: dalla Crocifissione alla separazione degli eletti dai dannati. Proprio nella raffigurazione di questi ultimi vi è la ricerca di un carattere narrativo più naturalistico, intensamente espressivo e radicalmente veneto: lo stesso carattere che si ritroverà nella Basilica di San Marco dove i mosaicisti si trasferirono alla fine di questo imponente lavoro.
L'edificio veneto-bizantino (in forma basilicale romanica) si presenta a tre navate, con pietre a vista, una facciata centrale sopraelevata scandita da sei lesene e un porticato antistante. Questo, originariamente sorretto da quattro colonne, ne vide aggiungersi altre da entrambi i lati, che lo portarono a congiungersi con quello di Santa Fosca nel corso del XIV e XV secolo.
Sul lato destro si erge la grande torre quadrata del campanile (XII secolo), emblema, come nelle contemporanee Pomposa e Aquileia, della potenza della città.
Anticamente la facciata era affiancata da un battistero a pianta circolare di cui ancora si possono vedere le fondamenta.
Sul fianco della chiesa sono interessanti le chiusure delle finestre centinate a grandi lastroni di pietra movibili su cardini anch'essi di pietra.
Il soffitto ligneo, ad incavallature scoperte, è rimasto forse quello originario.
L'ampia e luminosa navata tripla, con le alte colonne che sorreggono capitelli in parte romani e in parte imitati nelle officine veneziane, ricorda Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna.
Il pavimento in mosaico di marmo è sopraelevato di circa venti centimetri sul preesistente del IX secolo, lavorato con cubetti bianchi e neri i cui resti si possono ammirare attraverso due botole.
Il presbiterio, ai cui piedi è posta la pietra tombale del vescovo Paolo di Altino, è segnato dall'iconostasi con al centro la porta sacra, delimitata da tre sottili colonne, chiuse per metà da plutei marmorei bizantini dell'XI secolo, adorni, come merletti di pietra, da immagini di fiori, leoni e pavoni che si abbeverano alla fontana divina. Le colonne sorreggono tavole quattrocentesche che rappresentano la Madonna attorniata dai dodici apostoli, su cui si innalza il coevo crocifisso ligneo.
L'altare, il cui piano è di spesso marmo greco, è stato ricostruito nel 1939 in luogo di un deturpante impianto barocco. Ai suoi piedi, protetto da una grata, si trova un sarcofago romano del III secolo che contiene le spoglie del santo vescovo altinate Eliodoro (spoglie traslate a Torcello in seguito alla conquista di Altino da parte dei Longobardi).
La conca absidale si apre con il trono del vescovo addossato all'abside, come in Santa Maria delle Grazie a Grado (V secolo). Questo si erge su gradinate circolari e vi si accede salendo dieci scalini, simbolo dei dieci comandamenti.
Sopra il trono episcopale è rappresentato, a mosaico, Sant'Eliodoro. Gli apostoli, vestiti con il proprio simbolo come nelle chiese ravennati, procedono simmetricamente sotto i piedi della Vergine. Al centro della processione si apre una finestrella, simbolo della luce divina, e la Vergine bizantina Teotoga (XII secolo), regalmente vestita e isolata nello spazio dorato del catino absidale, rappresenta l'incontro tra l'umano e il divino.
Tre le sue braccia regge il Bambino, che porta il rotolo della legge, mentre dalle sue mani pende un fazzoletto bianco, simbolo della mater dolorosa.
Il loro sguardo dolcissimo rapisce l'osservatore.
L'abside della cappella laterale destra, decorata a mosaico nel IX secolo e rimaneggiata nel XII secolo, rappresenta quattro dottori della Chiesa: Agostino, Ambrogio, Martino e Gregorio. Sopra è il Cristo Pantocratore con la tavola delle leggi attorniato dagli arcangeli Michele e Gabriele.
Nella cappella laterale sinistra permangono resti di un affresco duecentesco, e sulla stessa navata trova posto la piccola pala di Maria Vergine dipinta da Tintoretto.
L'imponente mosaico del Giudizio universale (XI - XII secolo), che occupa l'intera parete ovest (controfacciata), doveva ricordare ai fedeli che uscivano dalla funzione il destino finale.
Il racconto articolato in sei sequenze si legge dall'alto verso il basso: dalla Crocifissione alla separazione degli eletti dai dannati. Proprio nella raffigurazione di questi ultimi vi è la ricerca di un carattere narrativo più naturalistico, intensamente espressivo e radicalmente veneto: lo stesso carattere che si ritroverà nella Basilica di San Marco dove i mosaicisti si trasferirono alla fine di questo imponente lavoro.
giovedì 19 giugno 2014
Francesco Hayez, un romantico veneziano
Francesco
Hayez nacque a Venezia, nella parrocchia di Santa Maria Mater Domini il 10 febbraio 1791. La sua famiglia era molto povera e venne allevato da uno zio, che lo avviò alla pittura (avendone manifestata una forte propensione fin da fanciullo).
Nel 1806 venne accettato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo insegnante era Teodoro Matteini, pittore preromantico, famoso come ritrattista, parzialmente influenzato dalla pittura inglese contemporanea.
Nel 1809 partecipa ad un concorso e vince una borsa di studio a Roma, dove viene accolto da Canova. il quale lo indirizza allo studio dei classici del passato. Francesco Hayez a Roma vive come in un bosco incantato.
Stringe amicizia anche con Ingres, che all'epoca era già piuttosto celebrato, ma lo batterà qualche anno più tardi alla competizione dell'Accademia di San Luca. dove vincerà il suo primo premio.
Nel 1820 il suo dipinto Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, presentato a Brera, diventerà una sorta di manifesto del nuovo stile Romantico italiano. Grazie a questa e alle seguenti opere, Hayez entra a far parte dei più importanti pittori che cercavano di liberarsi dai classicismi per illustrare temi storici e letterali legati al movimento contemporaneo del Risorgimento.
All'età di quarantanni Hayez è pittore affermato e riconosciuto.
Si stabilisce stabilmente a Milano dove apre un grande studio e diventa amico di Manzoni e Rossini.
Oltre alle opere di carattere storico, Hayez diventa famoso per alcuni dipinti più intimistici, a volte tendenti alla retorica, come il celebre Bacio del 1859. Ma ci lascia anche alcune lucide introspettive e rigorosi e perfetti ritratti, come quello di Gioacchino Rossini del 1870.
I suoi ritratti femminili sono tra le più alte espressioni della pittura del diciannovesimo secolo.
Muore a Milano nel 1882.
A Venezia una targa ricorda la sua casa natia in Corte Rota, nel sestiere di Santa Croce.
(fonte: Aldo Andreolo)
Nel 1806 venne accettato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo insegnante era Teodoro Matteini, pittore preromantico, famoso come ritrattista, parzialmente influenzato dalla pittura inglese contemporanea.
Nel 1809 partecipa ad un concorso e vince una borsa di studio a Roma, dove viene accolto da Canova. il quale lo indirizza allo studio dei classici del passato. Francesco Hayez a Roma vive come in un bosco incantato.
Stringe amicizia anche con Ingres, che all'epoca era già piuttosto celebrato, ma lo batterà qualche anno più tardi alla competizione dell'Accademia di San Luca. dove vincerà il suo primo premio.
Nel 1820 il suo dipinto Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, presentato a Brera, diventerà una sorta di manifesto del nuovo stile Romantico italiano. Grazie a questa e alle seguenti opere, Hayez entra a far parte dei più importanti pittori che cercavano di liberarsi dai classicismi per illustrare temi storici e letterali legati al movimento contemporaneo del Risorgimento.
All'età di quarantanni Hayez è pittore affermato e riconosciuto.
Si stabilisce stabilmente a Milano dove apre un grande studio e diventa amico di Manzoni e Rossini.
Oltre alle opere di carattere storico, Hayez diventa famoso per alcuni dipinti più intimistici, a volte tendenti alla retorica, come il celebre Bacio del 1859. Ma ci lascia anche alcune lucide introspettive e rigorosi e perfetti ritratti, come quello di Gioacchino Rossini del 1870.
I suoi ritratti femminili sono tra le più alte espressioni della pittura del diciannovesimo secolo.
Muore a Milano nel 1882.
A Venezia una targa ricorda la sua casa natia in Corte Rota, nel sestiere di Santa Croce.
(fonte: Aldo Andreolo)
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mercoledì 21 maggio 2014
L'isola di Poveglia
L'isola di Poveglia è situata a sud-ovest della laguna veneziana, di fronte a Malamocco.
Anticamente era denominata "Popilia", forse a causa della presenza di numerosi alberi di pioppo, o forse in onore del Console romano Popilio Lena, che aveva fatto costruire la parte settentrionale della via Emilia-Altinate.
Nel 421 l'isola fu occupata dai profughi fuggiti dalle città di Padova e d'Este a causa delle invasioni barbariche. Nell'anno 809 gli abitanti dell'isola si trasferirono nella zona di Rivoalto (attuale Rialto) a causa della guerra di Pipino re di Francia contro Venezia.
Nell'864 venne ucciso il doge Pietro Tradonico (13° doge) a seguito di una congiura. I servi del doge si barricarono nel Palazzo Ducale chiedendo "giustizia" per l'avvenuto omicidio. Il nuovo doge, Orso Partecipazio, riuscì a trattare con la servitù del suo predecessore e permise loro di abitare nell'isola di Poveglia, concedendo ai nuovo abitanti diversi privilegi.
Nell'isola venne costruita una chiesa, con campanile, convento e cavana. L'isola si popolò di circa duecento famiglie, che dopo un secolo si erano moltiplicate ed avevano edificato più d'ottocento case, avviando la coltivazione di campi e orti. Fu anche realizzata la costruzione di un castello fortificato.
L'amministrazione dell'isola era anticamente tenuta da un Tribuno, poi da un Gastaldo Ducale ed infine da un Podestà. Nel 1379 fu deciso dal Senato lo smantellamento del castello fortificato.
Durante la guerra di Chioggia (contro i genovesi), gli abitanti di Poveglia si trasferirono alla Giudecca. Finita la guerra, i povegliani ritornarono in isola, ma la trovarono erosa dalle acque. In seguito la popolazione diminuì sensibilmente, ma per chi decideva di restare furono offerti molti privilegi, come quello di non pagare le tasse, di fare la scorta d'onore al Bucintoro durante la Festa della Sensa, la libera compravendita del pesce per gli anziani e l'esenzione dal servizio militare.
Nel 1527, il magistrato alle Rason Vecchie, che controllava gli interessi di Poveglia, offrì l'isola ai Camaldolesi, che però non l'accettarono. Nel 1777 l'isola passò sotto la giurisdizione del Magistrato alla Sanità. Dal 1793 al 1799, Poveglia fu trasformata in un lazzaretto provvisorio, in quanto su due navi in transito in laguna era scoppiata la peste.
Tra il 1805 e il 1814 l'isola venne nuovamente utilizzata come lazzaretto, essendo tra l'altro piuttosto distante da Venezia. Sotto la dominazione francese, la chiesa venne chiusa. Al suo interno c'era un bel pavimento di marmo, un Crocefisso e una tavola del Tiziano. Il Crocefisso ora è conservato nella chiesa di Malamocco.
Durante l'occupazione austriaca, il campanile della chiesa venne utilizzato come faro.
All'inizio del Novecento l'isola fu utilizzata come luogo di convalescenza per lunghe malattie e come casa di riposo per anziani, ma dal 1968 anche questo utilizzo venne dismesso e l'isola fu ceduta al Demanio.
Nel 2013, assieme a San Giacomo in Paludo, Poveglia è stata messa in vendita per essere recuperata a fini turistici. Nell'aprile del 2014 è nata un'associazione senza fini di lucro, Poveglia per tutti, con lo scopo di partecipare al bando del demanio per aggiudicarsi il possesso dell'isola per 99 anni e permetterne l'uso pubblico. Il 13 maggio 2014 l'imprenditore Luigi Brugnaro, patron di Umana, si è aggiudicato all'asta l'isola per il prezzo di 513mila euro. L’affidamento definitivo è stato però rinviato al 13 giugno, e in questi giorni i tecnici dovranno valutare con attenzione la «congruità dell’offerta».
Anticamente era denominata "Popilia", forse a causa della presenza di numerosi alberi di pioppo, o forse in onore del Console romano Popilio Lena, che aveva fatto costruire la parte settentrionale della via Emilia-Altinate.
Nel 421 l'isola fu occupata dai profughi fuggiti dalle città di Padova e d'Este a causa delle invasioni barbariche. Nell'anno 809 gli abitanti dell'isola si trasferirono nella zona di Rivoalto (attuale Rialto) a causa della guerra di Pipino re di Francia contro Venezia.
Nell'864 venne ucciso il doge Pietro Tradonico (13° doge) a seguito di una congiura. I servi del doge si barricarono nel Palazzo Ducale chiedendo "giustizia" per l'avvenuto omicidio. Il nuovo doge, Orso Partecipazio, riuscì a trattare con la servitù del suo predecessore e permise loro di abitare nell'isola di Poveglia, concedendo ai nuovo abitanti diversi privilegi.
Nell'isola venne costruita una chiesa, con campanile, convento e cavana. L'isola si popolò di circa duecento famiglie, che dopo un secolo si erano moltiplicate ed avevano edificato più d'ottocento case, avviando la coltivazione di campi e orti. Fu anche realizzata la costruzione di un castello fortificato.
L'amministrazione dell'isola era anticamente tenuta da un Tribuno, poi da un Gastaldo Ducale ed infine da un Podestà. Nel 1379 fu deciso dal Senato lo smantellamento del castello fortificato.
Durante la guerra di Chioggia (contro i genovesi), gli abitanti di Poveglia si trasferirono alla Giudecca. Finita la guerra, i povegliani ritornarono in isola, ma la trovarono erosa dalle acque. In seguito la popolazione diminuì sensibilmente, ma per chi decideva di restare furono offerti molti privilegi, come quello di non pagare le tasse, di fare la scorta d'onore al Bucintoro durante la Festa della Sensa, la libera compravendita del pesce per gli anziani e l'esenzione dal servizio militare.
Nel 1527, il magistrato alle Rason Vecchie, che controllava gli interessi di Poveglia, offrì l'isola ai Camaldolesi, che però non l'accettarono. Nel 1777 l'isola passò sotto la giurisdizione del Magistrato alla Sanità. Dal 1793 al 1799, Poveglia fu trasformata in un lazzaretto provvisorio, in quanto su due navi in transito in laguna era scoppiata la peste.
Tra il 1805 e il 1814 l'isola venne nuovamente utilizzata come lazzaretto, essendo tra l'altro piuttosto distante da Venezia. Sotto la dominazione francese, la chiesa venne chiusa. Al suo interno c'era un bel pavimento di marmo, un Crocefisso e una tavola del Tiziano. Il Crocefisso ora è conservato nella chiesa di Malamocco.
Durante l'occupazione austriaca, il campanile della chiesa venne utilizzato come faro.
All'inizio del Novecento l'isola fu utilizzata come luogo di convalescenza per lunghe malattie e come casa di riposo per anziani, ma dal 1968 anche questo utilizzo venne dismesso e l'isola fu ceduta al Demanio.
Nel 2013, assieme a San Giacomo in Paludo, Poveglia è stata messa in vendita per essere recuperata a fini turistici. Nell'aprile del 2014 è nata un'associazione senza fini di lucro, Poveglia per tutti, con lo scopo di partecipare al bando del demanio per aggiudicarsi il possesso dell'isola per 99 anni e permetterne l'uso pubblico. Il 13 maggio 2014 l'imprenditore Luigi Brugnaro, patron di Umana, si è aggiudicato all'asta l'isola per il prezzo di 513mila euro. L’affidamento definitivo è stato però rinviato al 13 giugno, e in questi giorni i tecnici dovranno valutare con attenzione la «congruità dell’offerta».
giovedì 15 maggio 2014
Marco Polo e il Milione
A Genova, nell'autunno del 1298, dopo la battaglia di Curzola, il "nobile cuore dei genovesi ha la gentile saggezza di fare a Marco Polo, tra gli altri cinquemila prigionieri in attesa di riscatto, onorevole cortesia" (Anonimo Genovese).
La prigionia di Marco Polo a Genova è una prigionia dorata, analoga a quella di Re Enzo a Bologna (molto diversa da quella del conte Ugolino a Pisa o da quella di Iacopone da Todi...).
In prigione Marco Polo si ritrova come compagno di cella Rustichello da Pisa, che era lì dal 1284.
Rustichello da Pisa è uno scrittore abbastanza noto, specializzato in rifacimenti di romanzi della Tavola Rotonda. Rustichello non scrive in questo o quel neo-latino d'Italia, né in latino, bensì in "francese di Lombardia" (derivato dalla lingua d'oil).
Nella dorata prigionia di Genova, il veneziano Marco Polo parla e parla col pisano Rustichello, e può darsi che parlino proprio in "francese di Lombardia" (forse Marco parla in "franco-veneto"... è sempre affascinante immaginare in quali lingue comunicassero le persone nei secoli passati).
Verosimilmente Marco Polo è un bravo narratore, a voce. Raccontare le cose oralmente a volte, a certe persone, vien meglio che per iscritto. Per esempio Giovanni da Pian del Carpine raccontava meglio i suoi viaggi a voce che per iscritto. Ma Giovanni da Pian del Carpine era anche uno che provava a scriverli (senza troppo successo) i suoi racconti (in latino); forse qualche impaccio della sua inettitudine di scrittore si riverberava nel parlare. Marco Polo non aveva nemmeno questo impaccio, probabilmente Marco Polo non aveva mai preso la penna in mano, se non per i suoi conti da mercante.
Così, per nostra grandissima fortuna, Marco Polo parla liberamente, a braccio, e Rustichello da Pisa, ascolta, socchiudendo gli occhi. Che storie straordinarie! Come assomigliano ai romanzi della Tavola Rotonda che Rustichello da Pisa ha nelle orecchie!
Poi Rustichello inizierà a scrivere quel che Marco Polo gli racconta.
Che un libro possa nascere così lo vediamo tutti i giorni. Un uomo politico, un capitano d'industria, un campione sportivo o un'attrice, firmano un libro di memorie che è stato scritto per loro incarico da un romanziere o da un giornalista. A volte in copertina figurano i due nomi, a volte ne figura solo uno: il nome di chi non ha scritto il libro...
Fiumi di inchiostro son corsi ponendosi il problema della vera paternità del libro che nasce a Genova sotto la penna di Rustichello da Pisa, seguendo (come?) le labbra di Marco Polo. Una cosa è certa, il libro ha molto l'aria di esser stato scritto da un rifacitore professionista di romanzi della Tavola Rotonda.
Il libro ha subito un'immensa fortuna, proprio perché si fa leggere come un libro di intrattenimento. Uno dei titoli che ha nei codici rimastici è Le divisament dou monde (in "francese di Lombardia" significa: "La descrizione del mondo"). Viene poi riscritto in francese e assume il titolo di Livre des merveilles ("Libro delle meraviglie"). Ha immediatamente una traduzione in latino: De mirabilibus mundi ("Le meraviglie del mondo"). In traduzione latina leggerà questo libro, scritto a Genova, il (forse) genovese Cristoforo Colombo, e ci si scalderà la fantasia, e ci farà delle note (il codice postillato da Cristoforo Colombo si conserva nella Biblioteca di Siviglia). Seguiranno traduzioni in neo-latino veneziano e in neo-latino fiorentino. Titolo: Libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione. Il soprannome "milione" sembra derivare dal fatto che la gente non creda minimamente ai suoi racconti, e ritiene che siano un milione di frottole. Ma tutti ritengono che il libro sia davvero molto bello da leggere.
Il Milione vive quindi molte vite e avrà innumerevoli traduzioni. In molti manoscritti viene trascritto insieme ai romanzi della Tavola Rotonda o ai romanzi del "ciclo classico" (tratti da Omero e Virgilio). Non è forse un caso se Matteo Maria Boiardo, scrivendo l'Orlando Innamorato, fa provenire la bellissima Angelica proprio dal Catai...
Resta da dire che Il Milione, per chi ha gusti letterari, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Oscar Wilde lo metteva nel numero ristrettissimo dei libri che val la pena di leggere, anzi, nel numero ancor più ristretto dei libri che val la pena di rileggere.
Vi consigliamo pertanto di leggere e rileggere il Milione, e non abbiamo altro da dire.
(fonte: G. Dossena)
La prigionia di Marco Polo a Genova è una prigionia dorata, analoga a quella di Re Enzo a Bologna (molto diversa da quella del conte Ugolino a Pisa o da quella di Iacopone da Todi...).
In prigione Marco Polo si ritrova come compagno di cella Rustichello da Pisa, che era lì dal 1284.
Rustichello da Pisa è uno scrittore abbastanza noto, specializzato in rifacimenti di romanzi della Tavola Rotonda. Rustichello non scrive in questo o quel neo-latino d'Italia, né in latino, bensì in "francese di Lombardia" (derivato dalla lingua d'oil).
Nella dorata prigionia di Genova, il veneziano Marco Polo parla e parla col pisano Rustichello, e può darsi che parlino proprio in "francese di Lombardia" (forse Marco parla in "franco-veneto"... è sempre affascinante immaginare in quali lingue comunicassero le persone nei secoli passati).
Verosimilmente Marco Polo è un bravo narratore, a voce. Raccontare le cose oralmente a volte, a certe persone, vien meglio che per iscritto. Per esempio Giovanni da Pian del Carpine raccontava meglio i suoi viaggi a voce che per iscritto. Ma Giovanni da Pian del Carpine era anche uno che provava a scriverli (senza troppo successo) i suoi racconti (in latino); forse qualche impaccio della sua inettitudine di scrittore si riverberava nel parlare. Marco Polo non aveva nemmeno questo impaccio, probabilmente Marco Polo non aveva mai preso la penna in mano, se non per i suoi conti da mercante.
Così, per nostra grandissima fortuna, Marco Polo parla liberamente, a braccio, e Rustichello da Pisa, ascolta, socchiudendo gli occhi. Che storie straordinarie! Come assomigliano ai romanzi della Tavola Rotonda che Rustichello da Pisa ha nelle orecchie!
Poi Rustichello inizierà a scrivere quel che Marco Polo gli racconta.
Che un libro possa nascere così lo vediamo tutti i giorni. Un uomo politico, un capitano d'industria, un campione sportivo o un'attrice, firmano un libro di memorie che è stato scritto per loro incarico da un romanziere o da un giornalista. A volte in copertina figurano i due nomi, a volte ne figura solo uno: il nome di chi non ha scritto il libro...
Fiumi di inchiostro son corsi ponendosi il problema della vera paternità del libro che nasce a Genova sotto la penna di Rustichello da Pisa, seguendo (come?) le labbra di Marco Polo. Una cosa è certa, il libro ha molto l'aria di esser stato scritto da un rifacitore professionista di romanzi della Tavola Rotonda.
Il libro ha subito un'immensa fortuna, proprio perché si fa leggere come un libro di intrattenimento. Uno dei titoli che ha nei codici rimastici è Le divisament dou monde (in "francese di Lombardia" significa: "La descrizione del mondo"). Viene poi riscritto in francese e assume il titolo di Livre des merveilles ("Libro delle meraviglie"). Ha immediatamente una traduzione in latino: De mirabilibus mundi ("Le meraviglie del mondo"). In traduzione latina leggerà questo libro, scritto a Genova, il (forse) genovese Cristoforo Colombo, e ci si scalderà la fantasia, e ci farà delle note (il codice postillato da Cristoforo Colombo si conserva nella Biblioteca di Siviglia). Seguiranno traduzioni in neo-latino veneziano e in neo-latino fiorentino. Titolo: Libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione. Il soprannome "milione" sembra derivare dal fatto che la gente non creda minimamente ai suoi racconti, e ritiene che siano un milione di frottole. Ma tutti ritengono che il libro sia davvero molto bello da leggere.
Il Milione vive quindi molte vite e avrà innumerevoli traduzioni. In molti manoscritti viene trascritto insieme ai romanzi della Tavola Rotonda o ai romanzi del "ciclo classico" (tratti da Omero e Virgilio). Non è forse un caso se Matteo Maria Boiardo, scrivendo l'Orlando Innamorato, fa provenire la bellissima Angelica proprio dal Catai...
Resta da dire che Il Milione, per chi ha gusti letterari, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Oscar Wilde lo metteva nel numero ristrettissimo dei libri che val la pena di leggere, anzi, nel numero ancor più ristretto dei libri che val la pena di rileggere.
Vi consigliamo pertanto di leggere e rileggere il Milione, e non abbiamo altro da dire.
(fonte: G. Dossena)
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lunedì 31 marzo 2014
Le origini di Venezia
Sfatiamo subito un mito, e
cioè quello della città nata dal nulla da libere genti.
Il termine
“Venetia” infatti, insieme all’Istria era inizialmente una
delle regioni in cui l’imperatore Augusto aveva diviso il
territorio italico, e da quella regione si sarebbe venuta
distinguendo una seconda Venetia, questa volta lagunare composta da
isole e lidi sparsi tra le foci dell’Isonzo e del Po.
Ad avviare il processo per
cui dalla Venetia continentale veniva creandosi la nuova Venetia
marittima erano stati fattori esterni legati all’invasione
longobarda del 569. In realtà già nel secolo precedente con le
scorrerie degli Unni le lagune avevano offerto un rifugio sicuro alle
popolazioni della terraferma, ma in fondo la tempesta barbarica era
passata abbastanza rapidamente e le genti profughe avevano potuto
rientrare alle loro case. Le cose andarono diversamente invece con i
Longobardi, in quanto stavolta si trattava della migrazione vera e
propria di un intero popolo ben deciso a fermarsi in Italia, cosicché
per le genti che si ritiravano in laguna non si sarebbe più riaperta
la via del ritorno. Il primo passo quindi nella costruzione di una
Venetia diversa ebbe luogo con l’animo del profugo. In sostanza la
difesa del vecchio mondo pre-longobardo (e quindi “bizantino”)
divenne motivo per la nascita della nuova civiltà veneziana.
In ogni caso gli
insediamenti dei profughi sparsi per la laguna non erano certo
ancora identificabili come unità urbana e non lo saranno fino al IX
secolo.
E’ importante ricordare
che le lagune non erano disabitate prima dell’arrivo dei profughi e
già il prefetto Cassiodoro nel V sec. aveva lasciato una descrizione
precisa delle zone lagunari, le quali erano pienamente inserite nel
sistema organizzativo romano.
Che fosse nata dal nulla
quindi, come una Venere dalle acque del mare, ad opera di libere
genti che fuggivano dai barbari invasori su isole vuote e selvagge, è
un’invenzione costruita per ragioni molto concrete, con un’abilità
tale per cui ancora oggi quella leggenda è accettata come verità.
I Veneziani, dai massimi
vertici dello Stato fino all’ultimo pescatore avevano ogni
interesse ad accreditare un racconto del genere, perché se non c’era
nulla non c’erano nemmeno subordinazioni e servitù, sicché il
mito delle origini dal nulla rende plausibile e porta con sé quello
politicamente assai più rilevante dell’originaria libertà di
Venezia, ed è dunque la base del programma ideologico destinato ad
impedire ogni pretesa o rivendicazione da parte di qualsiasi autorità
esterna, uno status che Venezia difenderà fino alla fine dei suoi
giorni, mille anni dopo.
La difesa di questa
ideologia avverrà a volte con la forza ma molto più spesso con la
diplomazia o con abili mosse politiche, basti ricordare la tempestiva
trafugazione del corpo di San Marco ad Alessandria d’Egitto
nell’828, avvenuta proprio mentre nel sinodo di Mantova si
discuteva la giurisdizione spirituale tra Grado (chiesa lagunare
legata alle sorti venetiche) e Aquileia (sede patriarcale in sintonia
con le autorità politiche del Papato e città di cui la leggenda
narra fosse stata fondata proprio da San Marco…). L’arrivo in
città della salma marciana affermò dunque definitivamente
l’indipendenza di Venezia dall’autorità politica e religiosa di
Roma.
La vera e propria nascita
della Venezia urbana si fa risalire al 810 quando Agnello
Partecipazio, il primo doge della Repubblica, trasferisce la sede del
governo da Malamocco a Rivoalto.
Ma per capire appieno
l’unicità della storia veneziana è importante ricordare le radici
della sua stessa aristocrazia, che non era legata alla nobiltà di
sangue come nel resto dell’Europa, ma era invece nata dalle
famiglie dei mercanti locali, mercanti che in prima persona
rischiavano per creare nuovi commerci, anche molto lontani, e portare
redditi alla città stessa. Quasi sempre infatti Venezia deciderà di
usare guerra solo per ragioni di commercio, per difendere quindi il
proprio diritto e la propria libertà di commerciare. Fatto questo
che colpisce ancor di più se si pensa che nel resto del mondo
europeo il trattar denaro era considerato nient’affatto nobile,
solo i possedimenti terrieri e lo sfruttamento erano considerate
attività aristocratiche.
Ecco quindi che la difesa
dei propri interessi, e la possibilità di trarne vantaggio per tutte
le fasce sociali, compatta l’intero popolo veneziano in una
identificazione statale impossibile altrove.
(Fonte: Ortalli e Scarabello)
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