martedì 20 luglio 2010

Una veneziana sul trono di Costantinopoli

Nel 1559 un certo Hasan, che si dice inviato del principe turco Selim II, arriva a Venezia con l'incarico di raccogliere notizie sul casato della moglie del suo signore.
La storia è curiosa. Una patrizia veneziana, Cecilia, rapita da Barbarossa a Paros nel 1537, è finita nel serraglio del sultano dei turchi. E' figlia di Nicolò Venier, che governa l'isola per conto della Serenissima, e di Violante Baffo.
Fatta schiava, la giovane viene condotta a Costantinopoli, impara il turco, diventa musulmana e prende il nome di Nur Banu, "Signora Luce".
Il suo splendore tramortisce Selim, Principe Ottomano, un uomo non facile e a quanto pare non proprio gradevole, smodato nel bere e tanto grasso da non poter stare neanche a cavallo.
Nur s'impone con intelligenza e nel 1546 l'unione viene cementata dalla nascita di Murat.
La personalità di Nur si delinea nitidamente con gli anni, per esprimersi a pieno durante il regno del figlio, il piccolo e tozzo Murat, non spiacente nel volto, ma debole di carattere e non incline agli affari di Stato. E' allora che la potente sultana comincia ad intervenire nella condizione dell'impero: propone ministri e gran visir, si mantiene in contatto con i governi europei (in particolare con Venezia), e corrisponde con altre signore dell'epoca, come Caterina de' Medici, reggente del regno di Francia.
Nur Banu personifica l'essenza della cultura ottomana, e se in privato coltiva abitudini e convinzioni d'altro genere non lo sapremo mai. Visita i santi musulmani, fa devozione, promuove la costruzione di opere pie, finanza fondazioni religiose.
Muore il 7 dicembre del 1538, dopo una breve ma devastante malattia, circondata dal sospetto di avvelenamento.
Secondo il suo volere viene seppellita nel complesso della Basilica di Santa Sofia, in un piccolo mausoleo decorato con splendide ceramiche di Iznik.
Un estremo desiderio, forse espresso per riannodare il filo spezzato della sua origine cristiana ed europea
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giovedì 15 luglio 2010

Voga alla veneziana

Nel mio precedente post ho citato una breve poesia del Busanelli che conclude con questo verso: "Se va gridando sempre o stali o premi", che, per chi non è pratico di voga veneta, risulta incomprensibile.
Vengo allora a spiegare.
A Venezia c'è una particolare tecnica, un modo specifico di vogare, specialmente, ma non solo, in gondola, così che il vogatore ha l'aria di assecondare il movimento anziché produrlo, ma la cosa non è così facile come sembra, giacché il rematore deve combinare due operazioni, una per imprimere la spinta alla barca, l'altra per mantere la rotta, appunto perché essendo prive di timone, è sempre il remo che assolve entrambi i compiti.
Del resto la terminologia rematoria veneziana si riassume nella coniugazione di tre verbi: premare, stagare e sciare. La vogata premando è quella basilare: tuffata la pala del remo obliquamente, subito bisogna spingere sul remo che è appoggiato alla forcola, in modo da eccitare la resistenza del mezzo. Ma allora onde evitare che la barca finisca per girare su se stessa, il rematore deve leggermente ruotare il remo sulla forcola in modo che la pala, costretta sott'acqua, compia un movimento inverso al primo, così la contromanovra neutralizza le conseguenze della spinta quel tanto che basta a rettificare la direzione del natante, che fila dritto.
Il secondo tempo della vogata è quasi un riposo del remo, d'onde la voce stagare che significa stare o sostare. E di qui gli strani avvertimenti che i vogatori si lanciano alle svolte dei canali: premi o stai, che devono interpretarsi come un suggerimento di manovra al vogatore che viene incontro.
Ma se occorre arrestare la barca all'improvviso, come si fa? Sciando, cioè ponendo il remo davanti alla forcola, la quale servirà come leva per sviluppare una forza contraria.
Anche la direzione della marea è un elemento di cui tener conto: la barca che va a seconda, cioè segue la marea, è in condizione privilegiata rispetto all'imbarcazione che va a contraria, cioè che rimonta la marea, e di qui la facoltà a questa di disporre di più ampia manovra.

... "Se va gridando sempre o stali o premi"

lunedì 12 luglio 2010

Fresco letterario in Canalasso

Giovedì scorso ho avuto l'opportunità di partecipare al "Fresco letterario in Canalasso 2010".
E' stata una bellissima esperienza: decine di barche a remi lungo il Canal Grande, veneziani appassionati e associazioni remiere, per non dimenticare il passato di Venezia, mangiando, bevendo, godendosi il tramonto e i racconti di Alberto Tosi Fei.
Io poi sono stato particolarmente fortunato giacché ero in compagnia di amici su una vera gondola!

Ma cos'è un "fresco"?
Si tratta di una antica tradizione veneziana, in pratica sono cortei di barche, così chiamati perché vi si prendeva il fresco nelle giornate calde. Tali incontri cominciavano dopo Pasqua e si svolgevano in occasione di feste o sagre, verso il calar del sole, vi si partecipava con la propria gondola, per mangiare, bere e ciacolare tra amici.

I freschi furono anche cantati dal poeta secentista Busanelli:

L'istae al fresco gondole a do remi 
Se vede in Canal Grande senza fin
E in mezzo l'armonia di un violin
Se va gridando sempre o stali o premi

Qui trovate alcune foto che ho scattato durante la serata
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venerdì 9 luglio 2010

Magia a Venezia


“Ma veniamo all’inizio della mia esistenza di essere pensante. Al principio d’agosto del 1733 mi si sviluppò la facoltà della memoria. Avevo dunque otto anni e quattro mesi. Di ciò che può essermi accaduto prima di quella data, non serbo alcun ricordo. Ecco come andò la cosa.

Me ne stavo in piedi nell’angolo di una stanza, a ridosso del muro, con il capo e gli occhi fissi sul sangue che mi usciva in gran copia dal naso e scorreva a terra. Mia nonna Marzia, della quale ero il beniamino, mi si accostò, mi lavò il viso con acqua fredda e, all’insaputa di tutti i famigliari, mi fece salire con lei su una gondola e mi condusse a Murano.

Scendemmo dalla gondola ed entrammo in una catapecchia dove trovammo una vecchia seduta su un misero giaciglio, con un gatto nero in braccio e altre cinque o sei di queste bestie intorno. Era una fattucchiera. Le due vecchie tennero tra loro un lungo conciliabolo di cui io dovevo essere il soggetto. Alla fine del dialogo, che si svolse in dialetto friulano, la strega, ricevuto che ebbe da mia nonna un ducato d’argento, aprì una cassa, mi prese tra le braccia, mi ci mise dentro e mi ci chiuse, raccomandandomi di non aver paura. In verità era proprio il modo di farmela venire, se solo avessi avuto un barlume di coscienza, ma ero come inebetito. Così me ne stetti cheto, con il fazzoletto pigiato sul naso perché perdevo sangue, del tutto indifferente al baccano che mi giungeva da fuori. Sentivo alternativamente ridere e piangere, gridare, cantare e picchiare sulla cassa.

Mi tirarono finalmente fuori e il mio sangue ristagnò. Allora, quella donna straordinaria, dopo avermi fatto una quantità di carezze, mi spoglia, mi adagia sul letto, brucia degli aromi, ne raccoglie il fumo in un lenzuolo, mi ci avviluppa strettamente, mi recita scongiuri, poi mi libera e mi dà da mangiare cinque confetti di gusto molto gradevole. Subito dopo mi sfrega le tempie e la nuca con un unguento che esala un soave profumo e mi riveste. Mi dice che la mia emorragia sarebbe andate sempre diminuendo, a patto che non raccontassi ad anima viva ciò che aveva fatto per guarirmi, e mi minaccia invece della perdita di tutto il sangue e della conseguente morte nel caso osassi svelare a qualcuno i suoi segreti.

Dopo avermi così catechizzato, mi predice per la notte la visita di un’incantevole dama, dalla quale sarebbe dipesa la mia felicità, se fossi stato capace di non dire a nessuno di averla ricevuta. Quindi, io e la nonna partimmo e facemmo ritorno a casa.

Appena a letto, mi addormentai senza neanche ricordarmi della dolce visita che dovevo ricevere; ma quando mi sveglia qualche ora dopo, vidi o credetti di veder scendere dal camino una splendida donna in crinolina, tutta elegante e con in testa una corona costellata di pietre preziose che mi pareva mandassero faville infuocate. A passi lenti e con un’aria dolce e maestosa, venne a sedersi sul mio letto. Trasse di tasca alcune scatolette e me ne rovesciò il contenuto sul capo, mormorando alcune parole. Quindi, dopo avermi rivolto un lungo discorso, di cui non compresi una parola, e dopo avermi baciato sulla testa, se ne andò per dove era venuta, e io mi riaddormentai.”

(Memorie di Giacomo Casanova)

lunedì 5 luglio 2010

Indiani in Laguna

Da sempre i veneziani sono considerati dei validi navigatori. Sembra che alcuni di essi facessero parte dell'equipaggio della piccola flotta di Erik il Rosso quando, all'inizio del XI secolo, superati l'Islanda e i banchi di Terranova raggiunse l'attuale Maine per fondare la mitica Vinland, "terra del vino e del miele", la prima comunità bianca del Mondo Nuovo.
Tutto questo molto prima di Colombo e dei Caboto...
Quella piccola colonia seppe convivere con gli indigeni per parecchi anni, finché, sembra per una storia di donne, i rapporti con gli indiani si guastarono e i bianchi dovettero fuggire.
Si racconta che uno di questi marinai di origine veneziana ritornò a Mazzorbo, completamente tatuato, accompagnato da una donna dai grandi orecchini e dai lunghi capelli nerissimi. La si vedeva spesso avvolta nella sua colorata coperta guardare lontano oltre le barene...
I due ebbero molti figli, che non tatuarono. Sembra inoltre che la donna fosse bravissima a conciare le pelli. Quell'inverno quasi tutti a Mazzorbo circolavano con dei vistosi berretti di pelle di coniglio...

Fonte: Fuga e Vianello

venerdì 2 luglio 2010

Visitare Venezia in barca

La mia attività a Venezia si è arricchita di un nuovo servizio:
Percorsi in barca

Si tratta di due (per adesso) percorsi in barche a remi, su imbarcazioni tipiche della laguna veneta, con uno o due vogatori ed un accompagnatore (che sarei io), grazie ai quali è possibile ammirare Venezia dai suoi rii e rivivere al contempo l'antica consuetudine veneziana di muoversi via acqua.

Per maggiori info:
http://www.laltravenezia.it/percorsi-in-barca.php

E' una possibilità quasi unica dato che l'alternativa ad oggi è data solo dalle costosissime gondole. Con in più, rispetto a queste ultime, la possibilità di avere un profondo conoscitore della città che spiega cosa si sta vedendo (con la stessa logica dei miei già avviati percorsi a piedi).

Non da ultimo il fine di far rivivere, usandole, delle tipiche barche a remi che altrimenti resterebbero abbandonate, soppiantate dalle inquinanti e rumorose barche a motore.

Una magia, quella di Venezia via acqua, che meritava tutto l'impegno che abbiamo profuso al fine di proporre questo nuovo servizio.

giovedì 1 luglio 2010

L'anello del pescatore

Il 15 febbraio 1340 a Venezia si ebbe una gravissima inondazione.
La tradizione narra che quella notte, durante l'infuriare della tempesta, un anziano pescatore che con la sua barca si era riparato sotto il Ponte della Paglia, venne avvicinato da un elegante vegliardo che lo invitò a portarlo prima sull'isola di San Giorgio, dove salì un guerriero in armi e poi al Lido, a San Nicolò, dove, davanti all'abbazia, li attendeva un anziano prelato in abiti vescovili.
I tre chiesero quindi al pescatore di portarli fuori dalla bocca di porto di San Nicolò, in mare aperto, senza dare nessuna spiegazione. Seppur impaurito, il pescatore condusse con la propria imbarcazione i tre sconosciuti verso il mare, dove, tra flutti, spruzzi, venti impetuosi e lampi accecanti era comparsa una galea armata completamente nera, perfino le vele e il fasciame erano neri, piena di diavoli urlanti e guidata da Belzebù in persona, con l'intento di entrare in Venezia.
Avvicinatisi alla nave che, minacciosa, attentava alla città, il primo dei tre sconosciuti, che altri non era se non San Marco in persona, con un semplice segno della mano la fece naufragare con gran folgore di vento, inghiottita in un vortice d'acqua.
Rientrati, il pescatore fece sbarcare il primo dei tre personaggi a San Nicolò del Lido, il secondo nell'isola di San Giorgio e l'ultimo dinanzi al Palazzo Ducale. Quest'ultimo, l'evangelista, rivolgendosi al pescatore, spiegò che il primo a scendere era San Nicola, il protettore dei marinai, e il secondo San Giorgio, l'uccisore del drago. E perché tutti potessero credere al miracolo, consegnò al pescatore un anello col compito di portarlo ai procuratori della Basilica di San Marco e di spiegare l'accaduto.
L'uomo vi si recò e, come prova del miracolo, mostrò l'anello che essi subito riconobbero come quello celato nella Chiesa, conservato nel Tesoro di San Marco, e che mai nessuno avrebbe potuto prendere.
Accompagnarono quindi il vecchio pescatore dinanzi al Doge, il quale riconosciuto l'anello ordinò una pubblica processione di ringraziamento. Il pescatore, devoto e coraggioso, venne ricompensato con una ricca pensione.

La leggenda dell'anello del pescatore è illustrata in un quadro del pittore cinquecentesco Paris Bordon, oggi conservato alle Gallerie dell'Accademia. Anche nel Tesoro Marciano della Basilica vi è una rappresentazione artistica di questa leggenda, si tratta di un magnifico arazzo eseguito dal fiammingo Giovanni Rost.

martedì 29 giugno 2010

Quiz veneziano

Quiz per veri esperti di Venezia:
su quale edificio si trova la patera qua a fianco?

(la risposta giusta, se nessuno indovina prima, sarà data domani)

lunedì 28 giugno 2010

Qualcuno dice che Venezia sta morendo...

L'altra sera ero a cena da una cugina di mia mamma che abita vicino a San Pietro in Castello.
Nata e cresciuta in campagna si trasferì a Venezia una ventina d'anni fa. All'inizio era preoccupata, temeva di non riuscire, abituata com'era alla campagna, ad adattarsi alla città.
Oggi dice che non andrebbe via da Venezia per nessun motivo al mondo.
Le ho chiesto perché, e lei mi ha risposto così:
"Perche qui non mi sento mai sola. Quando esco trovo sempre qualcuno che conosco e anche se incontro persone sconosciute ci si saluta e si scambiano due parole. C'è solidarietà tra vicini di casa, ci si aiuta. Nel campo sotto casa ci sono sempre i bambini che giocano (tra di loro, non con i videogame... nda), senza pericoli di sorta, e ogni tanto si organizzano feste alle quali partecipano anche tanti giovani"
Vi sembra la descrizione di una città che sta morendo??

giovedì 24 giugno 2010

Venezia e il suo mito

"Nobilissima" qualifica Venezia, nel titolo della sua celebre guida uscita nel 1581, Francesco Sansovino (figlio del più noto architetto Jacopo), volendo, nell'aggettivo, fondere l'idea di bellezza eletta con quella di gestione politica socialmente selezionata. Non solo: Venezia è anche "singolare". In effetti la singolarità sembra il connotato principe della città. Spiccatissima la sua individualità, percepita via via come unica, irripetibile, strana, turbante.
Un ambiente insomma non omologabile. Persino i suoi abitanti paiono una sorta d'anomalia antropologica: essi non arano, non seminano, non vendemmiano. I suoi nobili non hanno niente in comune coi tratti costitutivi dei ceti nobiliari: questi suppongono possesso di terre e castelli con prerogative feudali, quelli invece navigano e mercanteggiano. Già la lettera di Cassiodoro evoca la stranezza di un popolo le cui case hanno legata fuori dall'uscio un'imbarcazione al posto del cavallo.
Nel secolo XIV Frà Nicolò da Poggibonsi si emoziona alla vista di "Vinegia, fatta in altro modo, con le strade che sono canali d'acqua". Sempre l'acqua campeggia, quasi confondendosi e confrontandosi col cielo, attorno e dentro, cornice e sostanza, habitat biofisico. Diaframma e sutura le pietre tra specchio liquido e volta celeste. In questo sta la sua diversità di facies urbana reale e irreale, in certo qual modo alternativa e perciò sempre più caricabile di significati, sempre più satura di stimoli,  sempre più dislocabile sul versante dell'immaginazione. Si dilata, nel definirsi modellarsi e complicarsi della sua forma, a dimensioni esistenziali estreme, da quelle dell'amore a quella della morte.
Venezia è se stessa e, nel contempo, è sempre qualcos'altro, è sempre ulteriorità possibile.
I dotti fuggiti da Costantinopoli caduta, nel 1453, in mano turca v'approdano come ad una seconda Bisanzio, gli umanisti la salutano come un' Atene rediviva.
S'attivano altresì, in sintonia col concreto esercizio del potere, i due meccanismi ideologici più efficaci: quello della presupposizione della sua legittimità e bontà e quello, conseguente, della sua valorizzazione: mitizzabile e perciò mitizzata.
C'è la convinzione del superiore destino della città: essa si sente una seconda Roma, anzi di Roma migliore perché senza le agitazioni sociali del periodo repubblicano, senza le dispotiche degenerazioni di quello imperiale.
L'aristocrazia lagunare non ha remore in fatto di autogratificazione: il suo governo non è soltanto il migliore tra gli esistenti, ma anche tra i concepibili. Essa è la "città felice", la "vera forma di perfetto governo", sintetizza Paolo Paruta.
Ma se il mito del perfetto reggimento politico finisce con lo sfaldarsi nell'età dei lumi, resiste quello della città di sogno appagante e anticipante le fantasie dei poeti. Rimane lo scenario urbano con tutta la sua carica di suggestioni psichiche.
La storia, si può obiettare, bada ai fatti, non s'attarda con ideologismi mitizzatori, né con fantasticherie esistenziali. Ma sarebbe ingiusto applicare a Venezia un'ottica così riduttiva: sfuggirebbero persino i meri fatti. Anzi, mito e realtà, verità e deformazione, si confondono e si compenetrano inscindibilmente.
Le trine marmoree degli edifici specchiantisi nei canali e inquadrati dai campi, i labirintici andirivieni del tessuto viario, l'inarcarsi dei ponti, il rimbalzare delle voci tra pietre ed acque, il subitaneo subentrare del silenzio all'eccitato brusio, i colori movimentati nel cangiare della luce, sono anch'essi storia.
La città è anche quello che significa e che ha significato. Si monca la traccia della sua vicenda se si dimentica la trasformazione in mito della propria civiltà.
Di bellissime città è piena l'Italia, ma Venezia è anche paesaggio mentale, luogo dell'anima, referente attivo e passivo dell'immaginazione, involucro e contenuto per il desiderio.
Tutto ciò s'incorpora nella sua storia.
Proprio perché unica al mondo è la città di cui il mondo ha bisogno.
Senza di lei il mondo sarebbe più povero.