sabato 17 gennaio 2015

Ermolao Barbaro e la cultura pragmatica veneziana

Nel 1484, Ermolao Barbaro crea a Padova il primo orto botanico d'Italia.
Questo è solo un episodio nell'attività di un personaggio multiforme, attorno al quale di possono accennare i tratti salienti di una nuova cultura, con tendenze più scientifiche che letterarie, anzi, proprio pragmatiche e tecniche.
Il patriziato colto a Venezia non è un circolo accademico come nella Firenze medicea; o accademico-curiale come nella Roma pontificia; o cancelleresco-cortigiano come nella Milano viscontea-sforzesca o nella Napoli aragonese. E' invece un gruppo, attraverso le generazioni, di persone autorevoli, indipendenti moralmente e materialmente, che subordinano la loro attività di lettori e scrittori al servizio dello Stato, dedicando ai libri il tempo che risparmiano nell'attività politico-amministrativa e nelle missioni diplomatiche.
Ermolao Barbaro, figlio e nipote di personaggi di questo tipo, nasce a Venezia nel 1453, e fin da ragazzo intreccia ottimi studi a viaggi col padre, ambasciatore di Venezia a Napoli, a Milano e a Roma.
Entrato ben presto nelle massime magistrature di Venezia, è anche professore a Padova.
Coetaneo del Poliziano, ha con lui rapporti amichevoli e distesi, un poco più polemici ma di stima con Giovanni Pico della Mirandola.
Se a spanne, la cultura della Firenze medicea è “platonizzante”, Ermolao Barbaro studia piuttosto Aristotele e Plinio il Vecchio, e può considerarsi uno scienziato, un precursore del metodo sperimentale (almeno, tale lo considereranno Linneo e Leibniz).
Se si considera Ermolao Barbaro come un “umanista esclusivo” e si sfogliano certe sue opere piuttosto che altre, è impossibile rendersi conto della sua importanza; l'importanza stessa dell'intera cultura veneziana è difficile da cogliere in una prospettiva fiorentino-centrica come quella che la storia italiana ha ancora in gran parte al giorno d'oggi.
E' giusto sapere che sarà allievo di Ermolao Barbaro un certo Pietro Bembo.
Gli anni del Barbaro sono gli anni dei Bellini, di Carpaccio, di Giorgione,
Il quadro del Giorgione, I tre filosofi, mostra un giovane che dà le spalle a due gravi personaggi con barba e turbante (rappresentanti del pensiero greco ed arabo) e volge lo sguardo verso una grotta. Quel giovane è Ermolao Barbaro.



domenica 4 gennaio 2015

Ramusio e la nascita della geografia moderna

Nel 1439, Cosimo de' Medici il Vecchio riesce a manovrare affinché il concilio, iniziato a Ferrara, sia trasferito a Firenze. Cosimo sa che questo è essenziale per il prestigio suo e della sua città.
In quegli anni il papa Eugenio IV ha fissato la sede papale in Firenze.
Col concilio giunge a Firenze la schiuma della terra, potremmo fare molti nomi, che danno suoni più o meno altisonanti, per esempio il cardinale Bessarione e Giorgio Gemisto Pletòne: uomini dottissimi che da Costantinopoli portano sangue fresco nelle vene degli umanisti, avidi di aggiungere la conoscenza del greco a quella del latino.
Firenze (assieme a Venezia) è terra più grecizzante d'altre, fin dai tempi del Crisolòra.
Cosimo il Vecchio crede anche al greco come elemento di prestigio, e approfitta dell'occasione per porre le basi di una Accademia Platonica con interessi filosofici, della quale sarà gran capo, negli anni seguenti, Marsilio Ficino.
Mentre Cosimo il Vecchio pensa al prestigio che gli può venire dal concilio, dalla letteratura greca e dalla filosofia, altri vedono il mondo con colori diversi e pensano per esempio alla geografia.
Ci son persone di diversa, non minore intelligenza, a Firenze in quegli anni, che pensano alla geografia. Uno è Paolo Dal Pozzo Toscanelli, amico di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti.
Vien costretto ad occuparsi di geografia anche Poggio Bracciolini. Per ordine del papa Eugenio IV deve frequentare un mercante veneziano, Niccolò dei Conti.
Questo Niccolò dei Conti è nato verso la fine del Trecento e morirà, forse a Chioggia, nel 1469.
E' partito da Damasco in Siria nel 1414 per un viaggio commerciale in Oriente durato ventitré anni. Ventiquattro anni era durato il viaggio di Marco Polo.
A differenza di Marco Polo, Niccolò dei Conti ha ritenuto utile farsi musulmano, e viene qui a Firenze nell'anno 1439, per farsi perdonare dal papa. Il papa gli concede il perdono a patto che racconti a Poggio Bracciolini la storia del suo viaggio in Oriente.
Si riproduce dunque (anche se non spontaneamente, bensì per ordine pontificio) la situazione del 1298, quando Marco Polo raccontò la storia del suo viaggio in Oriente a Rustichello da Pisa.
Nel 1298 ne era nato un capolavoro, in questo anno 1439 (colpa di Niccolò dei Conti? colpa di Poggio Bracciolini?) ne nasce un libretto che ha un successo molto limitato.
Il libretto di Poggio Bracciolini, scritto in latino, entra in una delle sue opere, De varietate fortunae. Poi viene ristampato a sé, come estratto, sempre in latino, col titolo India recognita, da un tipografo tedesco che lavora a Cremona.
I libri che i tedeschi (inventori della stampa a caratteri mobili) stampano a Cremona in latino, li leggono in Portogallo. Il libro tedesco-cremonese-fiorentino-veneziano viene tradotto in portoghese.
Il grandissimo veneziano Giovan Battista Ramusio (1485-1557) ha sentito parlare del concittadino Niccolò dei Conti, e sa come cercare i libri, ma non riesce a trovare né il libro De varietate fortunae, né l'estratto tedesco-cremonese. Trova infine  l'edizione portoghese, e ritraduce dal portoghese al veneziano.
Oggi possiamo leggere Niccolò dei Conti nel testo del Ramusio.
Giovan Battista Ramusio fu diplomatico, geografo e umanista della Repubblica di Venezia e fu l'autore del primo trattato geografico dell'età moderna, titolato Delle navigationi et viaggi. L'idea di comporre questo trattato risale al periodo in cui Ramusio ebbe l'incarico di prendere contatti con il navigatore Sebastiano Caboto, figlio di Giovanni Caboto.
Nella descrizione del viaggio di Niccolò dei Conti ci troviamo diverse cose interessanti: egli giunge fino a Giava e Sumatra. Vediamo le mogli dei maragià salire sul rogo con la salma dello sposo, conosciamo la crudeltà dei malesi, e l'amok (c'è sulle enciclopedie, non c'è nei libri di Salgari... se non volete ch'io parli di Salgari, parlerò sanscrito: il maragià è il maha-raja, corrispondente al latino magnus rex).
Ma non abbiamo un capolavoro come il Milione. Sarà invece uno dei testi sui quali si baserà Ramusio per la stesura del suo testo fondamentale nella storia della geografia.


martedì 2 dicembre 2014

La nascita di Venezia

VENEZIA

"Con una forza di volontà panteista
Il piccolo artefice del Mar dei Coralli,
Eroico nell'abisso azzurro,
Erige una splendida galleria e una lunga arcata,
Costruzioni ricche di molti fregi, di ghirlande marmoree,
A riprova di ciò che un verme sa fare,
Faticando in un'acqua più bassa,
Esperto in un'arte simile,
Un essere intrepido mostrò la potenza di Pan,
Quando Venezia sorse in scogliere di palazzi"

(H. Melville)



ATTILA

"Tre mesi d'assedio, cibo scarso, l'esercito protesta,
Meditando sotto le mura di Aquileia
Egli vede le cicogne: Guardate! Se ne vanno!
Dio parla agli uccelli. La città è nostra".
Così è.
Non lasciano pietra su pietra dove passano,
Gli abitanti che sopravvivono, fuggono di qua di là,
E alcuni si volgono alla costa, alle paludi,
Alle isole sull'Adriatico. Qui.
Tre generazioni dopo, Cassiodoro,
Li trova, un popolo che, come uccelli acquatici,
Ha fissato il suo nido sul petto delle onde.
Un'economia cresce sul sale, e lo commercia,
Sorge, ed è Venezia. Che adesso sprofonda.
Lo Stato fondato inconsapevolmente dagli Unni"

(P. Martin)




martedì 18 novembre 2014

Le Pasque veronesi e la fine della Repubblica veneziana

La parola pasqua, che trae origine dal latino ecclesiastico pascua (a sua volta derivante da una voce ebraica che significa "passaggio"), ha sempre avuto un contorno di gioia e di augurio. Non così le Pasque veronesi (al plurale, all'uso francese) che sono invece un ricordo di rivolta e di morte.
Le vicende si svolgono nell'aprile 1797: ancora circa un mese e la Repubblica di Venezia cadrà di fronte ad una brusca ingiunzione di Bonaparte, che, dopo averlo messo in ginocchio, sta cercando i pretesti necessari per abbattere l'antico Stato veneto;  tra questi il più noto fu appunto rappresentato dai fatti di Verona, subito chiamati "pasque veronesi".
Inseguendo l'esercito austriaco, l'armata francese viola spesso il territorio della Repubblica che, in omaggio ad una dichiarata neutralità (l'anno prima aveva rifiutato la proposta di Vittorio Amedeo III di Savoia, re di Sardegna, per un'alleanza contro la Francia), sopporta le ingiurie francesi sempre più cocenti, le ruberie continue, le requisizioni e le violazioni della sovranità di uno Stato indipendente.
Così Lonato, Sirmione e Desenzano vengono occupate dagli uomini di Napoleone; a Peschiera viene arrestato il comandante veneto Colonnello Carrara, mentre Bardolino, San Vigilio e Salò sono saccheggiate.
A Verona, il 17 aprile 1797, lunedì di Pasqua, la situazione già pesante divenne tragica quando, senza alcun preavviso, il generale francese Belliard fa aprire, dai castelli occupati dai suoi uomini, il fuoco dei cannoni sulla città. Il pretesto, dichiarato solo al termine della giornata, si riferisce all'uccisione di quattro francesi, che risulta poi mai avvenuta.
Abbiamo tra le mani la relazione (viva, anche se sintatticamente deplorevole) del giorno seguente del Provveditore Giovannelli che dice "... una giusta brama di vendetta si sparse repentinamente tra il popolo, egli suonò campane a martello, lanciandosi contro i francesi, qua e là sparsi, soldati, gente d'amministrazione e donne, si attaccò la mischia e la strage fu rilevante, contandosi oltre cento gli estinti francesi e 26 veronesi".
Il Provveditore cerca di portare la calma ma, non riuscendovi, si ritira (per non compromettere il governo) a Vicenza, volendo i popolani assaltare i castelli, dopo aver inutilmente chiamato in aiuto gli austriaci (il 18 aprile vengono infatti firmato da Napoleone i preliminari di Leoben).
Poi il Provveditore ritorna, insieme ad Andrea Erizzo di Vicenza, e la tragedia continua con uccisioni, distruzioni e saccheggi fino al 24 aprile, quando il generale francese Victor ottiene la capitolazione della città affamata e sanguinante.
Un altro episodio fornirà pretesto a Bonaparte per attaccare Venezia: il 20 aprile, un naviglio armato corsaro francese (Liberateur d'Italie) entra, contro le consuetudini ed i trattati internazionali, nel porto del Lido. In ossequio agli ordini ricevuti, il N.H. Pizzamano fa intervenire il Forte di Sant'Andrea, la galea francese viene catturata e i marinai sono in gran parte uccisi, compreso il suo capitano Laugier.
A seguito delle minacce francesi, nella seduta del 12 maggio 1797, il Doge e i magistrati deposero le insegne del comando, mentre il Maggior Consiglio abdicò e dichiarò decaduta la Repubblica.


lunedì 27 ottobre 2014

La Festa della Sensa, meraviglia e orgoglio di Venezia

E venne la Festa della Sensa.
Occasione buona, nelle campagne venete, per fare un po' di baldoria alla buona e ficcare le gambe sotto una tavolata con rustici mangiari: il cotechino e la lingua di maiale per esempio; un piatto saporito da rifar la bocca anche dei siori.
La Sensa a Venezia, però, era tutt'altra cosa: il festival dell'universo, la fine del mondo.
Perché combinava la festa religiosa con quella civile, ricordando il giorno che Pietro Orseolo II s'era mosso con la flotta della città per la conquista della Dalmazia: il primo passo della potenza veneta sul dominio dei mari.

Per la Sensa dunque, sette giorni prima e sette giorni dopo, a Venezia:
"... l'oro e l'argento va per le scoazze.
Che galìe, che sciambecchi, che galiazze
drio la pubblica regia Maestà,
che peote in livrea, che infinità
de barcolame de tutte le razze!
Che popolo, che gran foresteria,
che Canal, che tragheti!
Oh Dio, che done!
"

E in Piazza e in Piazzetta si faceva la Fiera. Con l'esposizione in baracche di legno d'uno sterminio di mercanzia finissima, tirata fuori dal buio dei fondachi e delle botteghe. E c'erano ferri battuti, lacche, piatti di rame, ottoni, peltri, statue, fanò da galea, mosaici, filigrane d'oro e d'argento, pietre colorate, vetri di Muran, specchi, conterie, merletti buranei, piume, broccati, damaschi, velluti, drappi di seta, lampassi, libri, incisioni, miniature, burattini, maschere, giocattoli, medicinali, mobili, bestie feroci, rarità naturali, mostruosità umane.
E poi un baccanale di ambulanti, mercanti, compratori, popolani, ciarlatani, giocolieri, domatori, avventurieri, belle donne, turisti piovuti d'ogni dove. E ciacolessi a non finire.
E il Liston, su e giù per la Piazza, delle donne in zendà e dei nobili in tabarro.
E lo svolo dell'angelo: un ragazzo issato a forza di carrucole e di corde fin in cima al Campanile, donde si esibiva in salti e capriole inverosimili perfino sulla testa dell'angiolone d'oro che svetta lassù, per poi volare giù lungo la fune, con un mazzetto di fiori, sulla loggia del Palazzo Ducale.
E ancora tanti altri strambessi, una tal confusione, una calca, un'ammucchiata, tra Piazza San Marco e la Riva degli Schiavoni, dietro le colonne, negli angoli, di uomini e donne d'ogni età e d'ogni condizione sociale, che profittavano del buio per fare quello che in altri giorni non si permettevano di fare.
E le gnaghe, e il baccano, e la baraonda che andava alle stelle.









Ma il cuore della Sensa (lo si sapeva fino a Costantinopoli), era lo Sposalizio del Mare, lo spettacolo più gigantesco, più cinematografico di tutti i tempi.
Quando il Doge, preceduto dagli stendardi e dalle trombe d'argento, tutto ammantato d'oro dalla testa ai piedi, col bavero d'ermellino, la sottana azzurra e le calze rosse, con gli scudieri col cuscino e l'ombrello di damasco, un nobile che gli portava lo stocco, seguito dal Cancellier grando, il Nunzio apostolico, i Capi della Quarantia, i Consiglieri, i Procuratori, i Savi e gli Almiranti, saliva sul Bucintoro, "la più bella barca del mondo", la sua sfarzosissima nave da parata.
Ai 42 remi stavano 168 arsenalotti, scegli tra lo sterminato esercito di operai che lavoravano nel cantiere della Serenissima, l'Arsenale, che tanto impressionò Dante Alighieri.
Poi tra gli evviva del popolo, si mollavano gli ormeggi e la regale nave, tutta rosso e oro, parata di velluti traforati e sculture, stendardi e addobbi, col Doge seduto sul ponte superiore assieme ai 50 comandadori, ai canonici di San Marco, al maestro delle cerimonie, ai segretari del Senato, ai 100 capimastri dell'Arsenale, si moveva solenne e prendeva il largo nel palcoscenico "più strepitoso del mondo", il Bacino di San Marco.
Seguita e fiancheggiata dai peatoni, dalle galìe, dalle galeazze, dalle fuste, dai bragozzi, dalle gondole dorate degli ambasciatori. Mentre tutte le campane della città suonavano a festa e tuonavano le artiglierie delle navi, e dalle rive la folla si commuoveva fino alla lacrime, perché era la Serenissima Repubblica del Leone che andava a sposare il mare.

(fonte: A. Scandellari)

sabato 11 ottobre 2014

Stabilimenti balneari galleggianti nella Venezia dell'Ottocento

Nel 1833 il dott. Tomaso Rima inaugurava a Venezia i Bagni Galleggianti RIMA.
Si trattava di uno Stabilimento "mobile" attraccato nei pressi della Chiesa della Salute, dotato di attrezzature per “bagni caldi e freddi, dolci e salsi, semplici e medicati, a vapore e docciature”.
Lungo 123 metri e largo 17, contava una cinquantina di camerini a spogliatoio. Fu ampliato nel 1835 e dotato di “Sirene”, gondole da bagno con sotto la chiglia una gabbia di metallo per l'immersione  delle signore.

Ecco come il tenente Remigio seduce la contessa veneziana Livia, in Senso di Camillo Boito:

"Ora ecco in qual modo principiò la mia terribile passione per l'Alcide, per l'Adone in assisa bianca, il quale si chiamava con un nome che non m'andava a' versi - Remigio.
Costumavo tutte le mattine di recarmi al bagno galleggiante di Rima, posto fra il giardinetto del Palazzo Reale e la punta della Dogana. Avevo preso per un'ora, dalle sette alle otto, una Sirena, cioè una delle due vasche per donne, grande quanto bastava per nuotarvi qualche poco ...
La vasca, chiusa intorno da pareti di legno e coperta da una tenda cenerognola a larghe zone rosse, aveva il fondo di assi accomodato a tale profondità sott'acqua che alle signore di piccola statura rimanesse fuori la testa. A me restavano fuori le spalle intiere.
... Nuotavo quant'era lunga la Sirena; battevo l'acqua con le mani aperte,
... Molte larghe aperture, appena sotto il livello dell'acqua, lasciavano entrare e passare l'acqua liberamente, e le pareti, mal commesse, permettevano, attraverso le fessure, di vedere, applicandovi l'occhio, qualche cosa al di fuori - il campanile rosso di San Giorgio, una linea di laguna, dove fuggivano leste le barche, una fetta sottile del Bagno militare, che galleggiava a piccola distanza della mia Sirena.
Sapevo che tutte le mattine, alle sette, il tenente Remigio vi andava a nuotare. In acqua era un eroe: saltava dall'alto a capo fitto, ripescava una bottiglia sul fondo, usciva dal recinto attraversando di sotto lo spazio dei camerini. Avrei dato non so che cosa per poterlo vedere, tanto m'attraevano l'agilità e la forza.
Una mattina, mentre guardavo sulla mia coscia destra una macchietta livida, forse una contusione leggiera, che deturpava un poco la bianchezza rosea della pelle, udii fuori un romore come di persona, la quale nuotasse rapidamente. L'acqua si agitò, la ondulazione fresca mi fece correre un brivido per le membra, e da uno dei larghi fori tra il suolo e le pareti entrò improvviso nella Sirena un uomo. Non gridai, non ebbi paura. Mi parve fatto di marmo, tanto era candido e bello; ma il suo ampio torace si agitava per il respiro profondo, e i suoi occhi celesti brillavano, e dai capelli biondi cadevano le gocciole come pioggia di lucenti perle. Ritto in piedi, mezzo velato dall'acqua ancora tremolante, alzò le braccia muscolose e morbide: pareva che ringraziasse i numi e dicesse: - Finalmente!
Così principiò la nostra relazione".



giovedì 11 settembre 2014

La Venezia di Diego Valeri

"E poi c'è tutta l'altra Venezia: quella interna, delle calli, dei campi, dei rii, delle rive remote, quella che forma il gran corpo della città. Città sempre un poco strana e segreta, anche a chi l'abbia in antica consuetudine, che non si lascia comprendere intera neppure da chi ne abbia la labirintica topografia stampata nella testa e sotto la pianta dei piedi...
Una cosa mi par di capire e di poter dire con certezza (una cosa evidente, del resto): che codesta ragione o legge è di origine acquatica. Una città fabbricata in mezzo all'acqua, su cento isolotti, separati l'un dall'altro da centocinquanta canali, non può avere la forma organica di un'altra, fabbricata sul monte, o nella pianura, o sia pure in riva al lago o al mare.
Prima la necessità materiale, poi quell'altra, d'ordine spirituale, ch'è la fantasia, hanno condotto i costruttori di Venezia a obbedire all'elemento dominante nella loro sfera di vita, rifiutando tutti i modelli esistenti, ascoltando solo i precetti urbanistici  delle maree, delle correnti, dei flussi e riflussi; e delle fasi lunari, e dei venti e della mutevole luce".

(Diego Valeri, Guida sentimentale di Venezia)

Dalla targa a lui dedicata in Fondamenta dei Cereri:
"Qui c'è sempre un poco di vento, a tutte le ore di ogni stagione, un soffio, almeno un respiro. Qui da tanti anni io ci vivo e giorno dopo giorno scrivo il mio nome sul vento" (1975)

giovedì 4 settembre 2014

Breve storia della cucina veneziana

Costruita su scampoli di terre, isolata dalle acque della laguna, senza poter coltivare grano e frumento, né "cosa alcuna al viver degli uomini", Venezia ha malgrado tutto detenuto per secoli una posizione primaria nell'arte della gastronomia.
Facendo di necessità virtù, i veneziani diventano presto abili mercanti, per procurarsi quei beni primari che in Laguna non c'erano, ma quella che inizialmente doveva essere una semplice fonte di sussistenza si trasforma presto in una fonte di guadagno, in quanto si comincia ad importare da mercati lontani non solo grano e frumento ma anche spezie, zucchero ed altre merci culinarie sconosciute in Europa.
In anticipo di diversi secoli Venezia intuisce presto la potenzialità di queste merci e inventa letteralmente il marketing, capendo che per poter vendere bene un prodotto bisogna creare la domanda e non aspettare che questa si formi da sola. Ecco quindi che Venezia stessa "inventa" il lusso delle spezie. Ma non solo, sempre in forte anticipo sui tempi, inventa anche il packaging, immettendo sul mercato i famosi "sacchetti veneziani", cioè spezie miste già confezionate e pronte all'uso!
Erede diretta della tradizione bizantina e romana, la gastronomia lagunare è tra le prime a confrontarsi con le altre cucine del mondo: da quella musulmana a quella austroungarica, passando per quella spagnola e francese. Sono incontri che nascono dalla convivenza con le popolazioni islamiche sui mercati di Levante e dal confronto con le minoranze straniere presenti in città fin dai tempi più antichi.
Tra il Quattro e il Cinquecento nuovi e significativi prodotti vanno ad aggiungersi a questa ricchezza di base: dalle gelide acque dei mari del Nord arriva il baccalà, alias stoccafisso, un'autentica rivoluzione culinaria, in un'epoca in cui non esiste il frigorifero.
In una situazione già di per se privilegiata, il Rinascimento investe Venezia con tutta la sua energia innovatrice, e come poteva essere diversamente in una città che sa usare tutte le armi della seduzione, compresa quella del cibo, raffinato e lussuoso, lanciando messaggi di potenza politica a regali ospiti stranieri tramortendoli con fiumi di spezie, zucchero e foglie d'oro su ostriche?
Ma la vera grandezza di Venezia è stata quella di saper uscire dalle cucine e di arrivare alle biblioteche, che poi significa uscire dalle dimensioni dell'effimero per restare nei secoli. Caso unico in tutta la penisola, qui si sviluppa una grande editoria gastronomica con la pubblicazione di ricettari, traduzioni di libri di dietetica dall'arabo e dal greco, trattati di agricoltura e resoconti di viaggio che informano sulla scoperta di nuovi prodotti.
La fine del Cinquecento chiude l'epoca delle pietanze sotterrate da una montagna di spezie, e il vento di nuovi gusti moderni portati dai francesi giunge anche a Venezia. Il consumo del lusso prende altre strade, e per i mercanti veneziani non ha più senso riempire le stive delle navi di quelle spezie che hanno fatto la loro fortuna. Ma i patrizi non si perdono certo d'animo e si riciclano imboccando la via della terraferma, con le grandi bonifiche, gli investimenti agricoli, e la coltura di quelle primizie che rivoluzionano il territorio veneto nella forma che ancora oggi vediamo.
Tra osterie e finger food, tra cioccolate illuministiche e chef francesi si arriva al Settecento. Si spegne la Repubblica ma non la gastronomia, che si fa tentare dai gusti mitteleuropei importati dagli austriaci. Si stampano i primi ricettari borghesi ottocenteschi e la cucina si internazionalizza.
Nel Novecento, legata con un ponte di cemento e di ferro alla terraferma, Venezia perde la sua insularità. Il turista rimpiazza il viaggiatore, i bacari si trasformano in bar tutti uguali, il cicchetto troppo spesso lascia il posto a pizze e panini surgelati.
L'invasione del gusto globalizzato non cancella comunque la buona cucina veneziana, che rimane arroccata in pochi locali e nella dimensione intima della casa.

(fonte: C. Coco)

sabato 23 agosto 2014

Francesco Guardi, non solo vedutismo

Francesco Guardi (Venezia, 1712 - 1793) si formò artisticamente nella bottega di famiglia, condotta dal fratello maggiore Giovanni Antonio fino al 1760, anno della morte di quest'ultimo.
Gran parte delle opere di quel periodo sono di difficile attribuzione, in quanto frutto della collaborazione fra i due.
Le opere di Francesco rivelano tuttavia una maggiore propensione al paesaggio e ai suoi valori atmosferici. Le sue opere di vedutista risentono inizialmente sia dei capricci di Marco Ricci, sia delle luminose prospettive del Canaletto, ma ben presto Francesco si libererà dell'influenza dei due grandi maestri per un vedutismo dal tocco rapido e guizzante, spesso indicato come anticipatore di metriche impressioniste, e che rivela una costruzione distorta e a volte allucinata delle figure, di un espressionismo accentuato e con una struttura anticonvenzionale del dipinto stesso.
La sua fase tarda conosce diverse ma coerenti esperienze: nel gennaio 1782 gli arciduchi russi Paolo Petrovic e Maria Teodorovna, chiamati Conti del Nord, visitano Venezia, onorati con festeggiamenti pubblici e Guardi ottiene dal governo veneziano di ricordare l'avvenimento in sei tele. Il processo di costruzione della forma per via puramente cromatica è evidente in tutte le opere tarde, come nell'Incendio degli olii a San Marcuola, che rievoca un dramma realmente avvenuto il 29 dicembre 1789 attraverso animati accenti di cromatismo magico.
Pittore prolifico continua a realizzare capolavori anche in età estrema come la Regata sul Canal Grande davanti Palazzo Mocenigo della Trezza vibrante e luminosa ripresa del passaggio delle gondole in gara davanti all'Ambasciata di Francia, datata 1791.
Francesco Guardi muore il primo gennaio 1793 nella sua casa veneziana di Cannaregio, in campiello de la Madonna.
"Nel gelo dei primi giorni del 1793 un corteo funebre attraversa il campo della Madonna delle Grazie a San Cancian. Dalle Fondamente Nuove, nell'atmosfera umida e opaca, le isole della laguna, i campanili, le cupole, sono contorni appena accennati; il limite tra acqua e cielo si perde in un orizzonte grigio. I lugubri rintocchi del requiem sono per Francesco Guardi, il pittore ottantenne divenuto celebre per le sue vedute della città, spesso appena abbozzate, accennate. proprio come accade nella luce malcerta e triste di questa mattina d'inverno. Sotto i mantelli neri, coloro che partecipano alla modesta cerimonia rabbrividiscono, ma non solo per il freddo di gennaio. Molti sanno che è morto l'ultimo grande pittore della Serenissima; forse qualcuno intuisce che anche l'antica Repubblica sta ormai agonizzando".
(Stefano Zuffi)


domenica 3 agosto 2014

L'altana del poeta

Nel 1899 Henri de Régnier arriva per la prima volta a Venezia e soggiorna a Ca' Dario, ospite delle due proprietarie di allora, la contessa de la Baume e M.me Bulteau.
Ecco come il poeta racconta la sua scoperta dell'altana del palazzo, che gli ispirerà poi il titolo del libro dedicato a Venezia:
"Non ho voglia di dormire. Dove può portare questa scaletta, di cui ho intravisto sul pianerottolo, entrando nella mia camera, i primi gradini? Forse a qualche soffitta? Proviamo.
Arrivo davanti ad una porta, chiusa da un semplice catenaccio. La apro e mi trovo all'aperto su una piattaforma di legno, delimitata da un parapetto. Questa terrazza, questo belvedere, è posato sul tetto del Palazzo. Da qui io domino il pendio delle sue vecchie tegole e sono vicino ai suoi alti camini, uno dei quali termina a forma di dado e l'altro a imbuto.
Che vedo ancora? Un angolo luccicante del Canal Grande, la cupola tondeggiante d'una chiesa, poi altri tetti, altri camini, tutto questo bagnato dal chiarore d'una luna splendente, avvolto in un silenzio profondo, in cui percepisco ora, lontano e come sordamente ritmato, un sussurro che è una presenza e che saprò più tardi essere il mormorio del mare che s'infrange sulla spiaggia del Lido.
Ma questa sera, questo sussurro, non è per me che il respiro della maga addormentata e il vivo sospiro della sua bellezza.
So solamente una cosa in questa bella notte di settembre, ed è che questo silenzio, questo chiaro di luna, questo palazzo, questa terrazza sospesa, che io non chiamo ancora altana, tutto questo è Venezia, e io sono felice".

(Henri de Régnier, "L'altana ou la vie vénitienne")