giovedì 26 maggio 2016

Francesco Petrarca a Venezia e le Corderie della Tana

Nell'estate del 1362, da Padova, Francesco Petrarca avvia trattative con la Repubblica di Venezia, queste le condizioni: Petrarca lascia in eredità la sua biblioteca alla Repubblica, qualora la Repubblica gli offra una casa in città.
Senza intralci burocratici vien presa subito la decisione (abbiamo i verbali della seduta del Maggior Consiglio, 4 settembre 1362), e viene offerta al Petrarca una casa che gli piace moltissimo: il palazzo Molin.
Chi conosce un po' Venezia sa che ancora al giorno d'oggi di palazzi Molin ce ne sono diversi. Quello dove viene a stare il Petrarca è un altro ancora che non c'è più. Possiamo immaginarlo sulla Riva degli Schiavoni. Venendo dal Palazzo Ducale, dopo il ponte della Paglia (con vista sul passaggio aereo detto “dei sospiri”), dopo il Danieli (grondante letteratura e pettegolezzi), dopo la chiesa della Pietà (dove non suonò mai Vivaldi), si scavalca il rio Sant'Antonin sul ponte del Sepolcro, subito a sinistra il palazzo Navagero, poi sede del Presidio Militare già caserma Aristide Cornoldi, già convento del Sepolcro. La casa del Petrarca era qui (lapide).
Il Petrarca ci lascerà opere in latino con la descrizione di quel che vede dalle sue finestre. Una volta vengono ad ormeggiare proprio qui due navi grandi come la casa, i loro alberi si ergono molto più in alto dei tetti. Poi una notte, stanco ed assonnato, ha appena cominciato a scrivere una lettera quando sente strepiti e grida. Sale di corsa in cima a una delle due torri che ha la casa e vede che una delle due navi sta salpando. Le stelle sono coperte dalle nubi, il vento scuote la casa dalle fondamenta, il bacino di San Marco è tutto un tumulto, ma la nave prende il largo. È carica di merci pesanti, gran parte dello scafo è immersa, eppure la nave sembra una montagna galleggiante. La nave, gli dicono, è diretta alle foci del Don. Mentalmente il Petrarca le augura buon viaggio, e torna a finire la lettera che stava scrivendo.
Cosa pensate voi quando pensate al Don? Fiume russo, uno dei più lunghi d'Europa. Allora però si chiamava Tanai (dal greco Tánaïs, dal nome della città di “Tana”). In quel sonetto, che nel Canzoniere come lo conosciamo noi, porta il numero 148 inaugura la tradizione di flatus vocis che durerà almeno fino ad Alessandro Manzoni: “scoppiò da Scilla al Tànai / dall'uno all'altro mar”.
I veneziani a Tana, lungo il fiume Tanai (oggi Don), ci andavano ad acquistare la canapa (ma non solo), che poi avrebbero usato in una grande area coperta dell'Arsenale, per fabbricare le corde per le navi (ma non solo).
Lungo i muri esterni delle Corderie (edificio a tre navate, con 84 colonne, avente una lunghezza di 316 metri), troviamo calle e campo della Tana
 
Per inciso, della biblioteca di Petrarca a Venezia rimase ben poco e di quel poco quasi nulla è sopravvissuto all'umidità...

Quale città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirrannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita. Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura”
(Francesco Petrarca) 



(fonte: G. Dossena) 

mercoledì 16 marzo 2016

Gentile Bellini alla corte dell'Impero Ottomano

Durante il Rinascimento gli europei hanno un rapporto quasi schizofrenico con l'impero ottomano, da un lato temuto come la minaccia più spaventosa e dall'altro rispettato, ammirato e da qualcuno anche desiderato come modello sociale/politico alternativo rispetto all'intollerante e guerresco Occidente.
Ma anche gli Ottomani hanno un rapporto schizofrenico nei confronti dell'Europa, dove si uniscono da un lato il fascino e il desiderio di apprendere la loro tecnologia, e dall'altro la repulsione, il senso di superiorità indotto dalla fede islamica verso quei barbari dei cristiani.
La fascinazione per l'Occidente è legata in gran parte alle tecnologie occidentali, perché molto presto ci si rende conto che, anche se l'impero è perfettamente in grado di affrontare i cristiani alla pari sul campo di battaglia e ha una cultura altrettanto complessa, tuttavia ci sono tanti aspetti in cui l'Occidente ha un margine di superiorità. Basta guardare gli acquisti dei sultani, delle loro famiglie, delle loro donne, gli acquisti dei gran visir e dei pascià: c'è tutta una serie di merci che nel Cinquecento e nel Seicento gli ottomani sono costretti a comprare in Occidente, perché nel loro impero non si producono. Sono commerci che non si interrompono mai, e proseguono con estrema disinvoltura anche in tempo di guerra. Sultani e gran visir ordinano a Venezia occhiali, carte geografiche, orologi, vetri, lampade. Le lampade per le grandi moschee di Costantinopoli sono comprate a Venezia, perché nessuno produce vetri come quelli che si fanno qui.
Ci sono anche consumi voluttuari che rendono i turchi dipendenti dall'Occidente: per esempio a Costantinopoli è di gran moda il formaggio parmigiano, che però a quell'epoca si chiamava "piacentino".
Quando la figlia del sultano Solimano, Mihrimah, decide di offrire un nuovo acquedotto per la Mecca, per dare da bere ai pellegrini, gli attrezzi per i lavori li deve ordinare in Occidente, perché nell'impero nessuno sa produrre acciaio di così buona qualità.
Succede perfino che quando sta per scoppiare la guerra tra Venezia e gli Ottomani (è la guerra che poi porterà alla battaglia di Lepanto), il comandante della flotta imperiale turca, il kapudan pascià, abbia la faccia tosta di andare dall'ambasciatore veneziano per comprare dei fanali dai mercanti veneziani da mettere sulla sua galera!
Del resto la flotta del sultano era fornita di cannoni fabbricati con la consulenza di tecnici occidentali.
L'impero ottomano compensava questa sua arretratezza tecnologica con altri punti di forza, culturali, sociali e politici, ma non c'è dubbio che abbiano sempre percepito il fatto che vi erano degli aspetti in cui i barbari occidentali, misteriosamente, per volere di Dio, avevano un margine di superiorità.
Un esempio straordinario di questa fascinazione contraddittoria, è rappresentato dalle arti figurative. La civiltà occidentale nel Medioevo e ancor più nel Rinascimento, punta moltissimo sulla pittura e sulle arti figurative in genere, sia sul piano comunicativo sia della conoscenza della realtà che ci circonda.
Il mondo islamico invece ha un rapporto molto più difficile con le arti figurative, perché in teoria, se si dovessero ascoltare i dettami della legge islamica, raffigurare degli esseri viventi è un atto di empietà: significa riprodurre qualcosa che Dio ha creato e di cui lui solo è il padrone. Per cui solo il miscredente cristiano può pensare di rappresentare Dio con la barba bianca e non rendersi conto che sta commettendo un atto vergognoso nei suoi confronti.
Tuttavia i turchi musulmani sanno benissimo che i barbari occidentali hanno inventato delle tecniche di pittura straordinarie, e ne sono affascinati.
Non è forse un caso che il sultano che più di tutti si è interessato alla pittura europea, sia proprio quello straordinario personaggio che è Maometto II il Conquistatore, il quale chiama a Costantinopoli (in questa città che lui sta trasformando di nuovo in una grande capitale mondiale) dei pittori rinascimentali, tra cui Gentile Bellini da Venezia, il quale esegue il suo ritratto.
Questo quadro esiste ancora oggi (o almeno la critica lo riconosce come tale) e rappresenta la fisionomia turca di Maometto II, con la sua barbetta a punta.
Alla morte del sultano, il successore Beyazit II, che è un pio musulmano, trova vergognosa la faccenda del ritratto e lo fa vendere al bazar.
Il quadro poi andrà perso e, dopo chissà quali peripezie, ritrovato (oggi si trova a Londra), ma quel che è certo è che a Costantinopoli non ne seguirà alcuna tradizione pittorica.


(fonte: A. Barbero)

lunedì 7 marzo 2016

Il Doge Andrea Gritti e il rinnovamento politico culturale veneziano.

Nel 1523 viene eletto doge Andrea Gritti. Questa data segna l’inizio di un breve, ma estremamente significativo periodo di riforme per la città di Venezia ed il suo territorio.
Il nuovo Doge, l’eroe di Padova e della riconquista dei territori veneziani ai tempi della lega di Cambrai, apre un’importante stagione di cambiamenti nell’amministrazione della Serenissima, che investe moltissimi settori dello stato.
Dal punto di vista economico, si registra una serie di riforme mirate alla razionalizzazione amministrativa ed affiancate da un’innovativa riorganizzazione del credito bancario. Nel 1526, con il divieto agli uffici pubblici di accettare qualsiasi divisa straniera, si attua un’unificazione monetaria all’interno dei territori veneti, dove precedentemente, le città soggette alla Serenissima utilizzavano ancora conii locali.
Due le importanti novità in campo economico introdotte nel 1528: la prima consiste nell’utilizzo, per la prima volta nella storia, della partita doppia nell’amministrazione pubblica: efficacissimo contributo di natura pratica suggerito dal grande matematico italiano amico di Leonardo da Vinci, Luca Pacioli.
Il secondo, innovativo provvedimento del 1528 vede la Zecca dello stato veneziano cambiare intimamente la sua natura e funzione. Da cassa di deposito dei prestiti obbligatori allo stato, legati alla decima e al catasto, è trasformata in banca di stato nella quale chiunque, anche forestiero, può effettuare depositi ad interesse, in cambio di ricevute trasferibili.
Un altro settore statale, oggetto di tentativi riformistici interessanti per quanto destinati all’insuccesso, è quello del diritto, nella cosiddetta “renovatio legis”
Già all’inizio del suo dogado il Gritti è fortemente orientato alla riforma del sistema giuridico veneziano; di antica fondazione e basato per lo più sull’arbitrio dei magistrati, la cui libertà interpretativa delle leggi è estremamente ampia. L’idea è quella di una riforma radicale dello Statuto, per una maggior razionalizzazione del sistema giudiziario, ad un tempo troppo poco rigoroso e mal codificato. È significativo che, nonostante la revisione giudiziaria sia tentata dal Gritti per l’intero corso del suo dogado, essa non vedrà mai una realizzazione. La resistenza della nobiltà veneziana a questa, come ad altre riforme è di natura conservatrice.
Da una parte infatti la nuova codificazione avrebbe reso il giudice un “tecnico del diritto”: si sarebbe in qualche modo negata la peculiarità del patriziato veneziano, che tradizionalmente ricopriva, per brevi periodi, le più diverse cariche pubbliche. Dall’altra, è ipotizzabile che la riforma del diritto mirasse a un rafforzamento dell’oligarchia, in linea con l’orientamento del Gritti, cosa anch’essa temuta dalla media e piccola nobiltà.
Questa opposizione era immagine di quel conflitto sotterraneo tra “Vecchio Mondo” e “Nuovo Mondo” che sarà elemento costante di tutto il dogado grittiano.
Un altro aspetto cruciale, per quanto riguarda le novità introdotte nell’‘era grittiana’, è la ‘renovatio rei militaris’, affidata dal Gritti al Capitano generale della Serenissima, Francesco Maria della Rovere, amico personale del Doge.
A pochi anni dalle ombre di Cambrai, quando Gritti stesso, prima di essere investito della carica di Doge, aveva dovuto misurare sul campo i limiti dell’organizzazione militare veneziana sulla terraferma, era impossibile non rendersi conto della debolezza della Serenissima sui campi di battaglia. E anche in questo settore la ricetta dell’entourage grittiano è la stessa: rinnovamento, razionalità e innovazione tecnica volte ad una maggiore efficienza.
Il territorio della Serenissima viene allora interamente coinvolto in un progetto che lo trasforma in un unico organismo difensivo, nel quale ogni roccaforte, ogni città, ogni collina sono sfruttate o ripensate secondo le loro potenzialità strategiche intrinseche e in relazione con gli altri elementi della unificante “macchina difensiva”. Venezia, in modo machiavellico, trovatasi scoperta dalla “pelle del leone”, ormai troppo ristretta, sceglie di proteggere le parti più fortemente esposte cucendoci sopra la “pelle della volpe” dell’ingegno tecnologico.
Un’altro episodio estremamente interessante, per cogliere il clima culturale, oserei dire rivoluzionario, di questa breve ma significativa stagione veneziana, è la famosa vicenda di Vettor Fausto. Letterato umanista, il Fausto è il promotore di un progetto, presentato al Doge Gritti nel 1525, che mira a “...introdurre nell’Arsenale [...] scientia fondata su methodus e litterae”. In pratica egli propone al Doge un progetto di una quinquereme, ricostruita attraverso la compenetrazione tra lo studio filologico dei testi latini e la conoscenza dell’architettura navale. E anche in questo campo i sogni di innovazione tecnologica dei “grittiani” si scontrano con le resistenze di ampie porzioni del patriziato veneto, sempre spaventato dalla minaccia che degli “specialisti del settore” lo possano scalzare dal suo tradizionale controllo sulle istituzioni veneziane.
Tuttavia, diversamente da quello che sarà l’esito negativo delle riforme legislative, in questo caso il progetto di Vettor Fausto registra una serie di successi. In primo luogo, già nel 1526, nonostante le forti opposizioni, Vettor Fausto ottiene uno squero nell’Arsenale, dove costruire la quinquereme romana, che sarà varata nel 1529.
Il 23 maggio dello stesso anno ha luogo, di fronte alle rive di San Francesco della Vigna, il collaudo dell’imponente nave, che gareggia contro una più esile galera, vincendo la gara a dispetto del suo maggior dislocamento. Il Bembo, entusiasta, scrive che, grazie all’impresa di Vettor Fausto “non si potrà più dire a niun di loro [gli umanisti] come per addietro si solea: va e statti nello scrittoio e nelle tue lettere”.
Il Doge, vedendo la vittoria del “nuovo-antico” sul vecchio, scoppia addirittura in lacrime di gioia.
L’età grittiana è quindi estremamente carica di fermenti culturali. Nel contesto veneziano degli anni 20-30 del Cinquecento, il Rinascimento sembra così fare un salto di qualità significativo. Se prima infatti gli umanisti rinascimentali erano inclini ad un rapporto stretto con il potere, ma sempre da una posizione esterna ad esso, ora nella Serenissima comincia a delinearsi un diverso ruolo per l’uomo di scienza e di lettere. Egli sembra chiamato ad entrare all’interno del meccanismo del potere istituzionale, per poterlo razionalizzare, per rendere più rapidi ed efficaci i suoi meccanismi, per aggiungergliene di nuovi.
Persa la partita sul piano della forza, Venezia cerca di gettare le basi di una sua vittoria futura, attraverso la celebrazione del matrimonio tra sapere e potere, chiamando gli umanisti alla cura della cosa pubblica.
E poiché i matrimoni, per generare figli legittimi, devono essere pubblici, viene affidato al Sansovino il compito di tracciare il segno eloquente di questa unione. E nel 1537 iniziano quindi i lavori di costruzione della Biblioteca Marciana. Nella zona della città deputata alla gestione del potere, da esibire alle rappresentanze diplomatiche, in cui sono organizzati e si svolgono i riti civili e della patria. Per la prima volta una biblioteca di stato entra, e in una posizione di estremo rilievo, all’interno dell’autocelebrazione del potere. L’edificio, che custodirà i testi del Petrarca e la biblioteca platonica del Bessarione, è posto di fronte al Palazzo Ducale, nel cuore politico della città. 

(fonte: F. Merlo) 
 

martedì 5 gennaio 2016

Venezia e la letteratura italiana

A Venezia nel marzo 1505 Aldo Manuzio stampa Gli Asolani di Pietro Bembo. Sono dialoghi in prosa, in tre giornate, nel giardino della ex regina di Cipro, Caterina Corner, a Asolo.
I dialoghi di Asolo si svolgono fra tre giovani e tre donne. Parlano dell'amore da tre punti di vista. L'amore fa soffrire ("amore senza amaro, non si puote"). L'amore è fonte di gioia. L'amore è desiderio di vera bellezza, e la bellezza "non è altro che una grazia che di proporzione e di convenienza nasce e d'armonia delle cose"; anzi la vera bellezza è quella divina. 
Siamo così ad una manifestazione di amor "platonico". Chi si interessa a queste cose ritroverà un personaggio chiamato Pietro Bembo che parla di amor platonico nel Cortegiano di Baldassar Castiglione.
Qui negli Asolani c'è qualcosa di più dei discorsi sull'amore; i dialoganti citano o recitano volta per volta poesie composte da loro stessi (cioè da Pietro Bembo).
Gli Asolani sono il manifesto del bembismo, o meglio del "petrarchismo bembesco". Fissato col Canzoniere aldino del 1501 il criterio linguistico e stilistico, Gli Asolani fissano i criteri di gusto, ideologici, antropologici della poesia. Il Bembo indica nel Petrarca (che aveva soggiornato a Venezia dal 1362 al 1367) un ideale di vita e di amori, oltre che di poesia e di lingua. Tale vita, tali amori, vanno imitati.
Questa operazione 1501-1505 di Manuzio-Bembo ha un successo immediato, ampio, profondo. Il modo di poetare, la lingua, gli ideali di vita e di amori così propugnati resteranno più o meno validi  in tutt'Italia per tre secoli almeno, con gli opportuni adattamenti regionali.
Dopo Petrarca pochi han potuto scrivere senza subirne l'influsso. La lingua, lo stile, la vita, gli amori del Petrarca mettono rami lunghi che arrivano per esempio a Giusto dei Conti e a Matteo Maria Boiardo.
Con il Canzoniere aldino nasce una certa unità d'Italia, con gli Asolani l'unità si consolida.
I seguaci del petrarchismo bembesco sono uguali in tutt'Italia. Può avere senso raggrupparli in area veneta e lombarda, area tosco-romana, area meridionale: ma quello che conta è proprio il fatto inverso, unitario, per cui si scrive nello stesso modo dalla valle del Sinni a Casale Monferrato.
Nell'uniformità del mucchio, ovviamente, se qualcosa si distingue sono i particolari biografici. Massimo interesse suscitano i particolari biografici delle poetesse (nessuna stagione della letteratura italiana ha tante poetesse come questa).
Vittoria Colonna è una gran dama (ritratta da Sebastiano del Piombo e da Michelangelo, con cui intrecciò un lungo rapporto di amicizia); è una vera signora anche Veronica Gambara (scrive della bellezza di Brescia, poi sale un po' nella nostra considerazione perché va a Correggio). La padovana Gaspara Stampa è di famiglia nobile ma fa la cantante e la cortigiana. L'altra padovana, Isabella Adreini, fa l'attrice. La romana Tullia d'Aragona è cortigiana ma viene dispensata dal portare il velo giallo per meriti poetici. La veneziana Veronica Franco è cortigiana senza dispense, e sulla sua professionalità sappiamo tante cose...
Tra questi poeti e poetesse nessuno è esente da un certo petrarchismo bembesco. Nei casi più estremi questi poeti non scrivono ma trascrivono. Prendono pari pari parole e frasi, emistichi e versi del Petrarca. Chi studia queste cose vi dirà, per esempio, che in due canzoni di Pietro Bembo (totale 136 versi) ci sono solo 8 parole che non hanno riscontro nel Petrarca. E andava a memoria...
Il petrarchismo bembesco è un movimento sociale serio. Guai a chi non riesce ad inserirsi.
Il veneziano Antonio Brocardo è amico di Pietro Bembo, e scrive come Pietro Bembo comanda. Poi entra in polemica col maestro, e tutti gli danno addosso con una tale ferocia che Antonio Brocardo muore di crepacuore.
C'è chi per lealtà vuole strafare: il veneziano Celio Magno scrive una canzone petrarchesca bembesca intitolata Deus che sembra sia la più lunga della letteratura italiana. 


Asolo (sdrucciolo, àsolo) è al giorno d'oggi un comune in provincia di Treviso. Il castello di Asolo, in gran parte demolito nel 1820, era il palazzo pretorio, riservato ai podestà veneziani. Venuto a morte nel 1473 Giacomo II di Lusignano, re di Cipro, la Serenissima costringe la vedova, Caterina Cornaro, ad abdicare a suo (della Serenissima) favore (1479), pagandole una pensione e dandole la signoria di Asolo. La vedova vive in questo castello.
Caterina è un donnone tizianesco (il ritratto agli Uffizi è di Tiziano e bottega), e sta qui con dodici damigelle, un nano nero chiamato Zavir con funzioni di giullare, e ottanta giovanotti con funzioni varie. Morirà nel 1510.
Alcuni dicono che nel castello di Asolo si fanno feste meravigliose, ma è dubbio, aggiungono, che vi si accolgano letterati e artisti a dialogare sull'amor platonico. Pietro Bembo può essere tra gli ospiti perché è parente della padrona di casa e ha fama di uomo di mondo.
Leggere su un'enciclopedia le voci dedicate ai Cornaro dà poco sugo. Di palazzi Corner, Venezia è piena. Il più famoso è progettato dal Sansovino per uno Jacopo Corner nipote di Caterina.
Affascinanti invece le voci che le enciclopedie dedicano ai Lusignano. Il castello di Lusignan nel Poitou risale al principio del IX secolo. Si sono proprio estinti con Giacomo II nel 1473. Quando Marcel Proust fa dire a uno dei suoi Guermantes "noi discendiamo in linea diretta dai Lusignano", scherza.
Insoddisfacente, generica la descrizione del giardino che dà il Bembo negli Asolani. Ad ogni buon conto il poeta inglese Robert Browning distruggerà il giardino per farcisi costruire una villa.
Pochi sono i ricordi di Caterina Cornaro che può scovare in Asolo il turista al giorno d'oggi. Al fantasma della regina di Cipro si è sovraimpresso quello dell'attrice Eleonora Duse, qui sepolta. Ma era morta a Pittsburgh (Pennsylvania), nel 1924. Era nata nel 1858 a Vigevano.

martedì 13 ottobre 2015

La Venexiana

A Venezia verso il 1536 in un circolo privato si rappresenta una commedia intitolata La Venexiana, che non vuol dire “la donna di Venezia” (i personaggi principali sono due donne veneziane), bensì “la commedia ambientata a Venezia” (come La Cortigiana di Pietro Aretino non vuol dire “la meretrice d'alto bordo” o “la donna di palazzo”, bensì “la commedia ambientata a corte”). 
 
Non si sa chi sia l'autore (o l'autrice).
E' certo che è stata scritta espressamente per la rappresentazione teatrale.
Viene rappresentata una volta sola, per un pubblico esclusivamente maschile.
Gli attori sono tutti uomini.

Due donne, Anzola (Angela) e Valiera (Valeria) si contendono l'amore di un giovane soldato di ventura lombardo, Giulio, venuto a Venezia a cercar fortuna. Anzola è vedova da poco. Valiera, più giovane, è sposata ad un vecchio. Entrambe hanno una serva. Parlano tutte in veneziano, Giulio parla un italiano lezioso. Un facchino parla bergamasco.
Le due donne stanno in due case vicine a quello che ancora oggi si chiama campo San Barnaba. Ci sono altre precisazioni topografiche: San Marco, Rialto, calle di Gallipoli che dà sul campo dei Frari.
Si è potuto precisare che le due donne sono di due rami della famiglia Valier. Anzola è vedova di un Marco Barbarigo, capo del Consiglio dei Dieci, Valiera ha sposato un Giacomo Semitecolo, “Avogador di Comun” (all'Avvocatura di Stato competono tra l'altro i delitti d'onore e gli adulteri). Valiera ha una sorella, Laura, sposata ad un Berbarigo, cognata quindi di Anzola.
Queste minuzie contribuiscono al colore locale e ci aiutano a capire che la commedia ha un tono diffamatorio, piccatamente libellistico, nel gusto di Pietro Aretino (che è arrivato a Venezia nel 1527, e in questo anno 1536 è ben vivo – morirà qui nel 1556). 
 
La sensualità delle due donne, che dà nel torbido, è a metà strada tra l'eleganza di Leonardo Giustinian e gli eccessi di Maffio Venier. 
 
E' facile dire che La Veneixiana è la più bella commedia d'area veneta del Cinquecento. I confronti con le commedie di Pietro Aretino e di Angelo Beolco sono appropriati. Si può anche dire che La Veneixiana è la più bella commedia italiana del Cinquecento, ma prima di far graduatorie su scale di merito è opportuno sentire su scala geografica la lontananza delle aree in cui nascono le commedie ferraresi di Ludovico Ariosto e le commedie fiorentine di Niccolò Macchiavelli.

La Veneixiana, dopo la sua prima e unica rappresentazione cinquecentesca, viene poi dimenticata, e riscoperta e pubblicata solo nel 1928.
Gli studi hanno fatto notevoli progressi negli ultimi decenni, eppure, o forse proprio per questo, si resta col sospetto che nell'area veneziana ci sia ancora da scavare e da scoprire, e che sia opportuno vederla come un'area lontana da altre, più ricca di altre, da considerare in una prospettiva di maggior autonomia letteraria.

domenica 30 agosto 2015

Viaggio a Venezia, 1914

Les valises dans la gondole, 
qu'elle prenait la main de son mari : Tu as eu raison, dit-elle. 

On en peut varier a l'infini l'occasion, 
le vertige spontané qui saisit le voyageur 
débarquant à Venise reste toujours de cette qualité-là. 
Instantanément tout a disparu. 
Plus de souvenirs, plus de soucis, plus rien de la vie qui s'interpose. 
L'ivresse est immédiate, totale et profonde. 
On est pris, entraîné, arraché à la terre, enlevé sur des 
ailes — on a soi-même des ailes ; les coussins si doux de la gondole 
semblent des nuages sur lesquels on repose. 
Demain? Nous verrons bien, il sera temps encore. 
Mais soyons heureux, grisons-nous, glissons comme on court dans les rêves, 
balançons-nous dans la souple barque noire comme on se berce au son des valses. 
Et les palais défilent le long du canal, ainsi qu'au théâtre la toile roulée, 
et qui simule un paysage traversé par un héros en marche. 
Un monde irréel s'offre à nous ; pour la première fois, l'impossible est arrivé. 
Tendons les mains pour le saisir! 
Et il ne s'enfuit pas, il ne s'évanouit pas en fumée ; notre étreinte le serre ; 
nous le tenons, le touchons, le caressons, il est à nous enfin.  
 
(André Maurel)
 
 
 
Le valigie in gondola, lei prese la mano del marito:
- Avevi ragione, disse.

Si può cambiare l'occasione all'infinito, ma la vertigine spontanea 
che coglie il viaggiatore quando sbarca a Venezia, rimane di questa qualità. 
Immediatamente tutto scompare. 
Niente ricordi, niente preoccupazioni, 
nulla della vita che si interpone. 
L'ubriachezza è immediata, totale e profonda. 
Si è catturati, trascinati, strappati dalla terra, sollevati da ali 
- abbiamo in noi stessi le ali;  i cuscini morbidi della gondola 
sembrano nubi su cui riposare. Domani? Vedremo, ci sarà tempo. 
Ma cerchiamo di essere felici, noi così grigi, scivolando 
come si corre nei sogni, ondeggiando nella morbida barca nera 
come cullandosi a suon di valzer. 
E i palazzi che sfilano lungo il canale, come una tappezzeria teatrale 
che simula un paesaggio attraversato da un eroe in cammino. 
Un mondo irreale si offre a noi; per la prima volta, 
l'impossibile è accaduto.
Tendiamo le mani per afferrarlo! Non fugge, non svanisce come fumo, 
il nostro abbraccio lo trattiene; lo tocchiamo, lo accarezziamo, 
finalmente è nostro.
 
("Quindici giorni a Venezia", André Maurel)
 

venerdì 24 luglio 2015

La voga alla veneta

Ci fa obbligo soffermarci, seppur brevemente, per sottolineare la nobiltà della voga alla veneta, che si differenzia da quella praticata in tutte le altre città di mare del mondo.
Già la posizione eretta e non seduta conferisce un'immagine di fierezza sconosciuta nelle altre realtà marine.
Se poi consideriamo la gondola, imbarcazione che incarna perfettamente questo concetto, non troviamo nessun natante che le si possa solo avvicinare per sviluppo tecnologico. Tredici essenze di legno diverse concorrono alla realizzazioni di questa magnifica barca, lunga circa 11 metri e costruita con forma asimmetrica per consentire una perfetta manovrabilità anche governandola da soli.
Prendiamo le forcole, gli scalmi dei nostri remi, sembrano meravigliose sculture che non trovano nessun paragone nelle altre culture marine.

Si può ben dire che la potenza della Serenissima si fondasse oltre che su uno spregiudicato spirito mercantile, sulle braccia delle su genti che, non bisogna dimenticarlo, fino al sedicesimo secolo vogavano nelle galee per libera scelta.
Potenti braccia avevano i nostri isolani che trasportavano le varie merci da una parte all'altra della laguna spingendo sui remi delle loro barche.

Chissà se erano giunte in città notizie circa Camus de Lorraine, geniale meccanico che costruiva automi per il re di Francia e che, nel primo Settecento, nel porto di Tolosa, sperimentò un gigantesco remo meccanico in grado di muovere grandi battelli in condizioni di acque calme. Nonostante il buon esito non fu incoraggiato dal suo sovrano e finì in miseria ramingo per l'Europa.
Non passò da Venezia, forse temeva di fare una brutta fine nella mani dei gondolieri!
Questi esosi rematori restituiscono l'incanto dell'esser trasportati per il canali della città accompagnati dallo sciabordio del remo.

Ci si domanda se, come era in uso in tutte le grandi città d'Europa per i portantini e i codega nel XVII secolo, anche i gondolieri portassero alla cintura la clessidra per valutare le proprie prestazioni.
Oggi, nella motorizzazione generale, oltre ai gondolieri, restano gruppi di appassionati che si raccolgono nelle associazioni sportive remiere, dove è anche possibile prendere lezioni di voga veneta, perpetuando quindi una tradizione millenaria.



(Fonte: Navigar in laguna. Fuga e Vianello. Edito da Mare di Carta)

venerdì 19 giugno 2015

Venezia è una regata

Ho fantasticato molto leggendo il libro “Venezia è una regata”. Ho fantasticato in lungo e in largo nello spazio: ho immaginato di tracciare dentro e intorno a Venezia, tutti i percorsi delle innumerevoli regate, e li ho immaginati simultaneamente, decine e decine di linee in movimento, tracciati, flussi, come una specie di circolazione sanguigna che solca l'organismo in cui la città è immersa, irrorando e ossigenando la sua vita.
Le regate sono simboli attivi, una pratica necessaria tanto quanto la manutenzione urbana, il restauro degli edifici, lo scavo del fondale fangoso dei rii. Le regate svolgono un compito di manutenzione della comunità, di tutte le comunità sparse fra il centro e le isole della laguna.
L'esperienza della voga veneta non ha molti eguali. E' difficile da confrontare con qualcos'altro. Apparentemente si potrebbe paragonare alla bicicletta, in fin dei conti, anche in quel caso il pilota è allo stesso tempo il carico e il motore del mezzo di trasporto. Ma in barca, vogando alla veneta, si sta in piedi, si avanza da fermi a forza di braccia. Le gambe non camminano, non pedalano, Danno anche loro una spinta, sì, ma puntellandosi senza fare un passo. Sono le braccia a far muovere tutto, e in avanti, non all'indietro come nella voga all'inglese. Ci si getta in avanti con le mani e le braccia, quasi abbozzando la fase iniziale di un tuffo.
Vogando all'inglese, la forza motrice corporea si ottiene raccogliendo le braccia al torace, richiamandole a sé. Nella voga alla veneziana si fa il contrario, si allontanano le braccia, via, con tutta la forza. E' un doppio pugno sferrato al mondo che ottiene l'effetto di attraversarlo scorrendoci sopra.
E' un gesto fossile, che viene da epoche lontane, ma che è ancora vivo e in buona salute.
Una necessità quotidiana che trovava e continua a trovare nella regata la sua festa, la sua forma assoluta, il suo fasto svincolato da scopi pratici ancora in vigore, come traghettare passeggeri da una riva all'altra del Canal Grande o portare in giro i turisti.

(dalla prefazione di Tiziano Scarpa – libro edito da San Marco Press Ltd e Supernova edizioni srl)

domenica 26 aprile 2015

Pietro Aretino, il cortigiano letterato nella Venezia del Cinquecento

Arriva a Roma nel 1517 un uomo di venticinque anni, nato ad Arezzo. Non s'è mai saputo il nome del padre e non ci ha mai tenuto neanche lui a saperlo. L'han battezzato Pietro, e si fa chiamare Aretino dal nome della città natale. Passa l'adolescenza a Perugia, dove probabilmente fa buoni studi, ma non studi latini. Un letterato italiano che non sa il latino. Digiuno di educazione umanistica.

Fa il pittore, poi smette. Comincia a scrivere, poi smette.
A Roma non trova un protettore, cerca di farsi largo scrivendo cose varie: conquista una buona notorietà scrivendo delle pasquinate tra il 1521 e il 1522.
Le pasquinate dell'Aretino sono eccellenti, perché l'Aretino ha grandi doti di scrittore satirico; ma solo a Roma si ha questa occasione di scrivere cose da appiccicare alla statua di Pasquino.
Con il nuovo papa Adriano VI, l'Aretino non sente tirare aria buona e se ne va in giro tra Bologna, Arezzo, Firenze, Mantova, Reggio nell'Emilia; ora comincia ad avere dei protettori: il cardinale Giulio de' Medici, il capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere.
Torna a Roma nel 1523. Comincia ad essere sulla trentina e fa un passo avanti: dopo le pasquinate che gli avevano dato i primi successi, si butta sul filone erotico.
L'erotismo, nella letteratura italiana di questi anni, non è merce né rara né clandestina. Ma Pietro Aretino fa qualcosa di più, come chi faccia fumetti o fotoromanzi anziché racconti: parte da una base di erotismo figurativo. Scrive sedici sonetti a commento di sedici incisioni che Marcantonio Raimondi ha cavato da sedici figure di Giulio Romano. Suoi coetanei, suoi amici.
Questi sonetti sono noti con il titolo di Sonetti lussuriosi o Le Posizioni o I Modi. Il secondo titolo fa capire che costituiscono un piccolo Kama-sutra.
Sapete tutti che il Kama-sutra (“aforismi sull'amore”) è un trattato scritto in sanscrito fra il IV e il VII secolo dc, attribuito a Vatsyayana, e rientra nella letteratura religiosa indiana facendo del Kama, amore fisico, uno dei tre fini dell'esistenza.
Mentre del Kama-sutra tutti parlano tranquillamente, c'è ancora qualcuno che parla con qualche imbarazzo dei Modi dell'Aretino. Forse gli fa senso che siano scritti nella sua lingua materna. Alcuni libri di Storia della letteratura italiana non fanno menzione di questa opera di Pietro Aretino.
Chi vuol seguire il filone erotico nella storia della letteratura italiana trova i Modi dell'Aretino un poco freddi in confronto a certe poesie di Maffio Venier (Venezia, 1550 – 1586) o del grande Giorgio Baffo (Venezia, 1694 – 1768).
Anche nella disinvolta Roma di questi anni, i Modi fanno comunque scandalo. Un vescovo lo fa accoltellare il 28 luglio 1525. Questo vescovo si chiama Gian Matteo Giberti (certi suoi scritti avranno peso sulle decisioni del Concilio di Trento).
Dello stesso anno è la prima redazione di una commedia, La Cortigiana, che Pietro Aretino completerà e stamperà solo in seguito. E' il rovescio degli ideali del Cortegiano di Baldassar Castiglione, che circola in questi anni, manoscritto.
Dunque Pietro Aretino non vola solo nei cieli astratti dell'erotismo, ma si impiglia anche in questioni ideologiche che toccano i fondamenti della società dell'epoca. Così le coltellate si spiegano un po' meglio.
Come nel 1517 aveva dovuto lasciare Roma per colpa delle pasquinate, così per colpa dei Modi e della Cortigiana e forse di qualcos'altro che non sappiamo, Pietro Aretino deve nuovamente lasciare Roma.
Arriva a Venezia nel marzo del 1527. Ha trentacinque anni. Si sistema bene, con la protezione di potenti patrizi e impianta una dinamica attività editoriale con vari stampatori, tra cui Francesco Marcolini (della cui moglie diventerà amante).
Questo Marcolini stampa anche libri musicali con tipi mobili secondo un sistema di sua invenzione.
Pietro Aretino per primo riconosce nella stampa uno strumento economico e politico, E' il primo manager dell'industria culturale.
Fa stampare opere proprie, scrive opere proprie in funzione della loro pubblicazione a stampa, e scrive cose diverse a seconda dei momenti, cercando di indovinare i gusti del pubblico e tenendo conto dell'aria che tira a livello politico.
Le cose che scrive Pietro Aretino vanno dalla letteratura erotica a quella religiosa o agiografica. Tocca tutte le forme: sonetti e versi vari, commedie, tragedie, poemi cavallereschi, dialoghi, lettere.
Per le lettere, inventa qualcosa di nuovo: raccoglie in volumi lettere che scrive e lettere che riceve, come un editorialista d'oggi. E' una corrispondenza che coinvolge tutti i personaggi illustri del suo tempo, papi, imperatori e re. Pietro Aretino definisce se stesso “segretario del mondo”. Ludovico Ariosto lo definisce “flagello dei principi”, perché sa adulare ma anche minacciare e ricattare personaggi come Francesco I e Carlo V.
Nel campo delle arti conosce tutti e intrattiene rapporti eccellenti con Tiziano, che gli fa un ritratto spettacoloso (agli Uffizi di Firenze). Pietro Aretino ha gusti precisi ed è bravissimo a descrivere opere d'arte. Bisognerà arrivare a Giovan Battista Marino (nel Seicento) per trovare cose simili, ma l'Aretino è più bravo.
La casa di Pietro Aretino a Venezia è un centro di potere. E' una casa bella, luminosa, allegra, piena di donne e di figli di Pietro Aretino e di amici fidati, che entrano ed escono, come entra ed esce, a fiumi, il denaro.
La casa sta sul Canal Grande, fra rio di San Grisostomo e rio dei Santi Apostoli; dalle finestre si vede il ponte di Rialto, non quello che vediamo noi oggi, che sarà costruito tra il 1588 e il 1592; ma quello in legno che si vede nel celebre dipinto di Vittore Carpaccio (alle Gallerie dell'Accademia).
Pietro Aretino, vede, quando si affaccia alla finestra:
mille persone e altrettante gondole su l'hora dei mercati. Le piazze del mio occhio dritto sono le beccarie e la pescaria, e il campo del mancino, il ponte e il fondaco dei Tedeschi, a l'incontro di tutti e due ho il Rialto, calcato d'huomini da faccende. Sonvi le vigne ne i burchi, le caccie e l'uccellagioni nelle botteghe, gli orti nello spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a l'alba miro l'acqua coperta d'ogni ragion di cosa, che si trova nelle sue stagioni.
Nel 1551 trasloca a Palazzo Dandolo, sempre sul Canal Grande (poco lontano da Palazzo Bembo, dove abita Pietro Bembo).
Il rio che bagna un lato della sua casa, vien detto “rio de l'Aretino” e le donne che transitano a casa sua, per piacere o per dovere, si fan chiamare “le Aretine”.
Secondo una leggenda a palazzo Dandolo Pietro Aretino tanto ride per una storia che gli son venuti a raccontare sulle sue sorelle, ospiti di un bordello di Arezzo, tanto e tanto ride che casca dalla seggiola e muore.



lunedì 16 febbraio 2015

San Marco, il leone alato e la Repubblica di Venezia

Il leone alato (con il libro, ma anche alle volte con un calamaio) è il simbolo dell'evangelista San Marco, patrono della Serenissima Repubblica di Venezia. 
I quattro evangelisti sono tutti accompagnati da un simbolo preciso: oltre al leone di San Marco, l'iconografia ricorda il toro di San Luca, l'angelo di Matteo e l'aquila di Giovanni.
L'origine di questi simboli è antichissima e sembra doversi trovare in un brano di Ezechiele (1, 5-14) con la visione di Dio in trono circondato da quattro esseri animati (tetramorfo). Nell'Apocalisse la visione è di Cristo in trono circondato da 24 vegliardi, ciascuno con un'arpa, da sette lampade di fuoco e dalle stesse quattro creature di Ezechiele che divengono poi i simboli degli evangelisti.
Nel Medioevo, gli esegeti trovarono anche la giustificazione dei simboli e precisarono che San Marco è rappresentato dal leone in quanto il suo Vangelo (il più breve) inizia con la voce maestosa di Giovanni Battista che "ruggisce" nel deserto "conforme a quanto sta scritto in Isaia profeta".
Avventurosa la vita di questo santo, compagno degli Apostoli, figlio di una Maria vedova, proprietario di una casa a Gerusalemme ove si rifugia Pietro uscito miracolosamente di prigione. Iniziato alla vita apostolica dal cugino Barnaba, Pietro lo considera come un figlio, mentre i rapporti con Paolo sono più difficili (e come dargli torto...).
Antiochia, Cipro, Roma sono alcune delle tappe dei viaggi di Marco, il quale avrebbe poi predicato in Alessandria d'Egitto dove sarebbe stato martirizzato al tempo di Traiano, col fuoco o forse trascinato per le vie con una fune legata al collo.
Intorno all'anno 828, Buono (tribuno di Malamocco e Rustico da Torcello (mercante) sbarcano, con altri compagni, in Egitto e trafugano il corpo di San Marco, già allora venerato dai cristiani in Oriente, sostituendolo nell'urna con quello della Beata Claudia. Per sfuggire ai controlli, la reliquia viene nascosta tra carni di maiale, considerata immonda dai Saraceni.
L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 829, San Marco viene accolto trionfalmente dal Doge e dai veneziani, e diviene il simbolo della nascente Repubblica, sostituendo San Teodoro di origine greca, anche in un empito di autonomia nei confronti dell'Impero d'Oriente.
Comincia subito la costruzione della basilica ad in essa viene posto il corpo di San Marco, forse nella cripta; poi ritrovato nel 1094 in un'urna dentro ad un pilastro. Davanti a questo pilastro è accesa una lampada perenne a ricordo dell'avvenimento. La scoperta del 1811, in epoca napoleonica, e la ricognizione del 1835, durante il dominio austriaco, completano la storia della reliquia che adesso è deposta sotto l'altare maggiore della basilica.
La leggenda narra che Marco, prima di recarsi ad Alessandria, sarebbe stato ad Aquileia (di cui alcuni lo vogliono vescovo). Partendo da questa località, si ferma nella laguna veneta per riposarsi (proprio dove oggi sorge la chiesa di San Francesco della Vigna, alle cui spalle ancora c'è una piccola cappella a ricordo dell'avvenimento, oggi trasformata in magazzino...). Durante la notte ivi trascorsa, gli appare un angelo che gli predice che in quelle isole vi sarebbero stati abitanti straordinari, a lui devoti, e che le sue ossa qui avrebbero trovato riposo, e lo saluta a nome di Cristo, con la celebre frase: "Pax tibi Marce evangelista meus". Sono appunto le parole che appaiono sul libro aperto del leone alato. L'esistenza della parola "pax" porta a chiudere il libro in caso di guerra.
San Marco è dagli storici spesso identificato nel Vangelo, al momento dell'arresto di Gesù, nel ragazzo che stava seguendolo "avvolto solo di un panno di lino. Tentarono di afferrarlo, ma lui, lasciato cadere il panno, se ne fuggi via nudo".