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lunedì 6 gennaio 2014

Il sistema fognario veneziano

La laguna, si sa, è da sempre le difesa naturale di Venezia, che difatti non ha mai avuto bisogno di costruire mura difensive. Ma le sue acque hanno però anche un altro, fondamentale, pur se più umile, compito: quello di ripulire la città.
Tutto il sistema fognario di Venezia è affidato all'acqua dei suoi canali che due volte al giorno, con il ritmo della marea, portano via l'acqua sporca e riportano l'acqua pulita dal mare: "l'acqua va in mar" e "il mar va in acqua" dicono i veneziani per descrivere questo processo.
Oggi il mare è forse meno limpido di un tempo, ma tuttora la marea crescente porta un fiume di acqua pulita in ogni rio della città e trascina via lordure d'ogni genere.
Venezia era considerata città pulita e salubre, almeno sino a che le nuove tecniche non dotarono le altre città di sistemi fognari più moderni ed efficienti.
Tutte le abitazioni erano dotate di un sistema di tubature di ceramica, dette canoni da necessario (sembra evidente che cosa si intendesse per necessario...), inserite all'interno dei muri, che scaricavano le acque nere nei gatoli, canalizzazioni sottostanti le pavimentazioni stradali. Da qui venivano convogliate nei canali. Il sistema funziona in gran parte ancora oggi, con qualche cautela in più: prima di arrivare nei rii, il materiale si deposita e decanta nelle vasche biologiche, mentre altre misure igieniche si prendono per gli alberghi e altre sedi.
Fondamentale rimane comunque la funzione di igiene urbana operata dalle acque lagunari.

(Fonte: G. Gianighian, P. Pavanini)

mercoledì 4 settembre 2013

Lo scialle veneziano, un simbolo scomparso

Già al tempo in cui E.M. Baroni scriveva (nel 1921)), con passione di veneziano e commozione d'artista, un libretto-elogio dello scialle veneziano, il bel costume caratteristico andava scomparendo dalle calli di Venezia:

"Ora, questo originale adornamento femminile, questo stupendo ed elegante capo del corredo della donna, accenna a scomparire. Le fanciulle veneziane, specie le più giovani, sembra quasi abbiano in disprezzo lo scialle, e si direbbe che il sogno più roseo di una gaia sartina o di una piccola operaia sia quello di poter indossare la camicetta e sfoggiare il cappello, in luogo di offrire all'ammirazione della folla le ben salde spalle ammantate di nero e al bacio del sole le folte e belle capellature bionde, brune, castane o tizianesche... Lo scialle sta per scomparire... Quel magnifico scialle decorativo dalle ampie pieghe artistiche, dalla foggia che carezza le forme e dava ad esse una seducente flessuosità, una insuperata morbidezza, ed abbelliva il corpo femminile di misteriosi fascini".

I lussuosi scialli adorni di fiori irreali, costituivano il mantello da sera preferito dalla belle ed eleganti dame veneziane. Ma fra tutti, il più semplice e insieme il più elegante, era pur sempre lo scialle nero, fine, adorno di pochi fiori di seta ricamati sul morbido tessuto all'origine delle lunghe, sottilissime frange.

Perché le donne veneziane abbandonarono quasi del tutto lo scialle?
Prima della guerra lo scialle si manteneva nell'uso generale delle popolane, perché la tradizione legava in certo qual modo il diritto di portare lo scialle (el fazuol, dei tempi antichi) all'onestà e alla rispettabilità delle dame, nei secoli passati el fazuol era infatti interdetto  alle meretrici, e la proibizione era rimasta nelle consuetudini.
E venne la guerra. Migliaia di veneziane furono costrette a cercar rifugio in altre città d'Italia, e a rimaner profughe per anni. Trovandosi in ambienti nuovi, dove le donne non portavano lo scialle, le veneziane si adeguarono. E una volta tornate a Venezia, molte di esse non lo indossarono più.
Nel frattempo la svalutazione della lira indusse parecchie donne del popolo a inalberare il cappellino, per contro il prezzo notevolmente aumentato degli scialli, divenuto oggetto relativamente di lusso in confronto dei cappellini e delle blouses, dissuase molte altre donne dal mantenersi fedeli ad un costume che forse avrebbero voluto serbare.
Così in pochi anni di dopo guerra, il caratteristico costume muliebre veneziano scomparve quasi totalmente dalla calli veneziane.

Non sarà possibile far rivivere il graziosissimo costume che s'intona squisitamente con i capelli corti e le gonne succinte voluti dalla moda contemporanea?
La risposta è sì, grazie a Sabrina e Betty della Sartoria dei Dogi, che tra i tanti antichi capi riportati in vita, realizzano magnifici scialli ricamati a mano, in perfetto stile veneziano.
La Sartoria è una delle tappe del tour degli artigiani proposto da L'altra Venezia.

Per informazioni: info@laltravenezia.it

Fonte: "Lo scialle veneziano" di E.M.Baroni, edito da Filippi Editore Venezia


lunedì 18 marzo 2013

Chiesa e Ospedale di Santa Maria dei Derelitti

 All’inizio questa istituzione era piuttosto modesta, poi all’ospedale venne affiancato un ricovero per orfani: ai ragazzi si insegnava un mestiere e alle ragazze si insegnava musica; ma quello che era un intento solo educativo divenne presto fonte di notevoli entrate economiche, la gente faceva la fila per venire a ascoltare le voci soave delle fanciulle! Fu così che tra gli incassi della scuola di musica e il lascito testamentario di Bartolomeo Carnioni fu possibile ampliare l’ospedale e far costruire la facciata - realizzata dal Longhena - divisa in tre parti: quella inferiore in stile ionico, con mascheroni e festoni di frutta (la scultura sopra l’ingresso rappresenta la Madonna addolorata, un accenno al tema della sofferenza dei malati ospiti dell’ospedale annesso), la fascia centrale presenta dei telamoni con la Pecten Pilgrimea (cioè la conchiglia dei pellegrini) uno porta una borraccia ed un altro un rosario (allusioni alla funzione assistenziale e caritatevole dell’ospedale), nella nicchia centrale: busto di Bartolomeo Carnioni (ricco mercante che possedeva un negozio alle Mercerie e che alla morte, essendo senza eredi, lasciò tutto a questo Ospedale; egli aveva un negozio con insegna allo struzzo, animale che compare ai suo lati; le penne dello struzzo erano simboli di equità e giustizia per il fatto che hanno tutte la stessa lunghezza), la terza parte è l’attico, cioè quell’elemento architettonico continuo che si poneva attorno al tetto per nasconderlo, elemento usato per la prima volta appunto in “Attica” una regione della Grecia.
L'ospizio vero e proprio è un edificio a tre piani, addossato alla chiesa, e vi erano ospitate un centinaio di giovani. La corte interna, anch'essa opera del Longhena, detta "Corte delle quattro stagioni" presenta una vera da pozzo e alcune statue che ricordano lo stile delle ville venete lungo il Brenta. Nel 1770 i gestori dell'Ospedaletto decidono di trasformare la cucina in una prestigiosa sala da musica, che fu decorata da Jacopo Guarana e Agostino Mengozzi. Tutti gli affreschi sono naturalmente a tema musicale, il più notevole è senz'altro quello in fondo alla sala, titolato "Il concerto delle putte intorno ad Apollo". La sala della musica conobbe però una vita breve in quanto nel 1797, anche l'istituzione dell'Ospedaletto, così come di tutti gli altri ospedali, venne soppressa da Napoleone.

giovedì 6 dicembre 2012

L'Arte dei pasticceri veneziani

"Scaleter" è il termine col quale si indicavano i pasticceri a Venezia. Il nome deriva da alcuni dolci che si producevano in occasioni di feste particolari o matrimoni: erano come cialde con impressi dei segni simili a gradini di una scala.
La prima sede dell'Arte fu nella chiesa di S. Fantin, dove ancora oggi è custodito il loro stendardo con l'immagine di San Fantino, loro protettore. Poi passarono ai Frari e a S. Paternian. Nel Settecento ebbero ospitalità presso la magistratura del Fontego della Farina, a Rialto. Alla fine della Repubblica erano presenti in città 59 botteghe.
Come ogni mestiere aveva delle regole severe: si doveva lavorare quattro anni come garzoni, poi altri sei come lavoranti e infine si poteva affrontare la prova per diventare maestri di bottega; se bocciati bisognava continuare per altri due anni come lavoranti e poi si poteva ritentare. Tra le varie prove si ricordano: "impastar et cucinar dodici savoiardi, dodici pani di Spagna, dodici bozzoladi del Zane, dodici bozzoladi caneladi col marzapan e dodici sfogiade tutti da due soldi l'uno con dodici storti e dodici scalette".
Il Levi segnala che nella loro mariegola (statuto) si trovano alcune disposizioni curiose: "che niun Scaleter ardisca di lavorare o far lavorare in pasta done, cavali, gali, oseli, calisoni ne cesteli".

domenica 11 novembre 2012

Il Teatro di San Cassiano

Il Teatro Vecchio di San Cassian venne realizzato da Alvise Michiel nel 1580. Francesco Sansovinon afferma che era di forma ellittica, in legno, e ci operava la Compagnia dei Gelosi.
Era situato all'interno di una piccola corte, dietro al campanile dell'omonima chiesa, ma alla fine del secolo risulta già chiuso. Poco dopo nacque il Teatro Nuovo di San Cassian, gestito da Ettore Tron, che nella denuncia delle tasse scrive: "Un luoco da recitar del quale al presente non si cava niente". Era situato dove ora si trova il giardino di Palazzo Albrizzi, alle Carampane.
F. Sansovino lo descrive di forma rotonda, con gradinate per gli spettatori e la compagnia che vi recitava si chiamava "dei Confidenti". Nel 1629 un incendio lo distrusse completamente; la ricostruzione fu molto lenta a causa della peste del 1630; fu riaperto solo nel 1636 con un dramma musicale; la struttura non era più in legno ma in pietra, a ferro di cavallo con cinque ordini di palchi. Furono rappresentate opere di Francesco Cavalli e anche un'opera di Claudio Monteverdi.
Interessanti e curiosi erano alcuni comportamenti del pubblico a teatro.
Al comparire dell'attrice preferita, oltre alle grida di gioia si declamavano poesie in sua lode e dai palchi si lanciavano fiori, dolci e colombe. In una serata in onore della ballerina Grisellini, La Farinella, furono lanciati in platea pernici, anatre e fagiani, e la rappresentazione si trasformò in una battuta di caccia!
Il Teatro inoltre risultava utile per esercitarsi al tiro al bersaglio: infatti il pubblico dai palchi lanciava mozziconi di candela sulla genta in platea!

mercoledì 31 ottobre 2012

Palazzo Grassi e il Cavalier Servente

Palazzo Grassi sorge a fianco della Chiesa di San Samuele, sul Canal Grande. I Grassi erano d'origine bolognese, presenti a Chioggia già dalla fine del 1200. Nel Seicento furono iscritti nel "Libro d'Argento" come cittadini veneziani e ottennero il patriziato nel 1718, pagando una somma di 60.000 ducati. Nel 1732 "in data 12 maggio, i patrizi Giovanni e Angelo Grassi acquistarono per 22000 ducati, dalla famiglia Tribellini, le case poste nella contrada San Samuele, sopra il campo".
Sull'area di quelle case, poi abbattute, sorse, non senza difficoltà, il Palazzo Grassi. L'incarico fu dato all'architetto Giorgio Massari nel 1748 e fu terminato nel 1772, anno del matrimonio tra Giovanni Grassi e Margherita Condulmer. Il 20 gennaio 1779, Margherita si ritirò nel monastero di S. Lucia. Il motivo fu il divieto avuto dal marito di avere per cavalier servente il nobiluomo Giacomo Dolfin, giovane di bell'aspetto e assai istruito.
Il Cavalier Servente era un figura tipica del Settecento. Ogni nobildonna maritata che si rispettasse doveva averne uno e la presenza del cavalier servente era addirittura patteggiata nei contratti nuziali. Questa figura era anche chiamata "cicisbeo", termine che deriva da "cicisbeare", anticamente usato per "bisbigliare"; ancora oggi il bisbigliare spettegolando delle donne viene a volte indicato come "fare cicì e cocò". Ma forse invece deriva dal greco "cicys" (forza) e "sbeo" (estinguere, spegnere), nel senso di "effeminato".
Il cavalier servente andava al mattino a svegliare la dama, ad augurarle buon giorno, a servirle la colazione e ad aiutarla ad allacciarsi il busto. Poi la portava a passeggio, quindi a teatro o al ridotto, infine la riaccompagnava a casa, ad aspettare che si addormentasse...

giovedì 4 ottobre 2012

La caccia dei tori

D'origine antichissima ed incerta, si rinnovò per secoli ad ogni Carnevale, non solo nei campi più spaziosi ma anche, in occasioni straordinarie, in Piazza San Marco.
Le cacce ai tori si realizzarono fino al 1802, quando in Campo Santo Stefano, a causa del panico provocato da un toro imbizzarrito, crollò una gradinata costruita per l'occasione davanti a Palazzo Morosini e ci furono morti e feriti.
La festa era organizzata in modo sapiente e con regole precise da un uomo ricco di spirito oltreché di denaro, che conosceva le leggi e le buone maniere. Sua primaria urgenza era quella di chiedere al parroco di zona il permesso di svolgere la caccia.
Risolti gli aspetti burocratici, si pubblicizzava la data attraverso una sorta di manifesto affisso nel campo. Da quel momento in poi tutti coloro che abitavano o lavoravano in zona si prodigavano per il buon esito della festa. I proprietari dei palazzi prospicienti sul campo affittavano i propri balconi; i commercianti si rifornivano di merci ed erano garantiti buoni affari per tutti i luoghi di mescita del vino.
Gli attori che davano vita alla festa erano per lo più macellai, garzoni di bottega e gondolieri. Costoro sceglievano presso il macello i buoi di più fiero aspetto, tanto da giustificarne il nome di toro a loro dato. Il giorno della festa gli animali erano condotti nel campo; già l'arrivo era motivo di ilarità: scivolavano dalle barche, scappavano o cadevano in acqua.
Ma in cosa consisteva il gioco vero e proprio? I tiratori reggevano lunghe corde legate alle corna del bue per evitare che i cani addestrati azzannassero le orecchie dell'animale. In pratica era un gioco di tira e molla con i cani che aizzavano i buoi.
Questi giochi suscitarono perfino l'interesse di Torquato Tasso. Egli infatti assistette da un caccia ai tori in onore di Enrico III di Francia e nella Gerusalemme Liberata paragona Clorinda, che si sottrae ai cavalieri cristiani, al bue che si sottrae ai cani:
Tal gran tauro talor ne l'ampio agone
se volge il corno ai cani ond'è seguito
s'arretran essi; e s'a fuggir si pone
ciascun ritorna a seguitarlo ardito
 

lunedì 17 settembre 2012

Morosini: palazzi, dogi, amanti e gatti

Palazzo Morosini fu portato in dote da Laura Priuli, vedova di Francesco Malipiero, quando sposò Pietro Morosini, rimasto vedovo di Maria Morosini.
La sontuosa dimora era composta da due edifici separati da un cortile interno; le facciate di terra e di acqua presentavano caratteri diversi e quella sul campo era affrescata da Antonio Aliense.
A fine Settecento, Gianantonio Selva aveva rimodernato l'intero edificio che raccoglieva armi, trofei, sculture e dipinti preziosi. Tra i suoi ospiti si ricorda Casanova, amico di Lorenzo II Morosini. Tra i due era nata una sincera amicizia e lo stesso Lorenzo invitava Casanova a frequentare il suo casin in Calle Casselleria, dove il Morosini incontrava l'amante, Paolina Stratico, sorella del suo professore!
I tesori di Palazzo Morosini furono dispersi nell'asta del 1894. Diverse opere si trovano oggi al Museo Correr e a Ca' Rezzonico; mentre l'affresco di G.B. Tiepolo "L'apoteosi del Peloponnesiaco" si trova a Milano, in Palazzo Isimbardi.
Naturalmente il personaggio più illustre della famiglia fu Francesco Morosini. Francesco veniva descritto come uomo di alta statura, carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondo rossicci, particolare comune a vari membri della famiglia.
Il futuro doge si fece valere nella guerra di Candia e nella famosa riconquista del Peloponneso (durante la quale fece bombardare il Partenone di Atene che i Turchi avevano trasformato in polveriera). L'elezione al dogado avvenne nell'aprile 1688, mentre Francesco era ancora impegnato nella campagna del Peloponneso. Solo alla conclusione dell'impresa tornò in città, dove venne accolto in modo trionfale l'11 gennaio 1690.
Morosini però è ricordato anche per alcune sue particolarità: era molto ambizioso, facile all'ira ma anche al perdono; non accavallava mai le gambe, considerandolo gesto poco dignitoso, mangiava con posate d'argento dorato, e amò a tal punto il suo gatto che alla sua morte lo fece imbalsamare!

lunedì 10 settembre 2012

Antichi mestieri veneziani: pistori e calegheri

La chiesa di Santo Stefano a Venezia ospitò per un certo periodo la Scuola dei pistori (fornai).
I fornai erano molto abili nel confezionare il pan-biscotto, elemento indispensabile sulle navi che trascorrevano in mare settimane quando non mesi. Così dal 1402 il Consiglio dei X permise loro di radunarsi prima nella Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo e poi a Santo Stefano, più vicino ad alcune loro proprietà immobiliari.
Un'altra confraternita si radunava in quella chiesa già dal 1383: i calegheri (calzolai).
Non era una vera e propria Scuola d'Arte, ma piuttosto di assistenza e devozione, riservata ai calzolai operanti in Venezia in caso di malattia, per questo motivo dipendeva direttamente dai Provveditori sopra gli Ospedali.
Nel 1482 un membro della confraternita, Enrico Corrado, donò alla Corporazione un edificio in Calle delle Botteghe (n.c. 3127-3133); qui ebbero la loro sede, contraddistinta da alcune calzature scolpite sui pilastri, e il loro ospedale. Una lapide ricorda un restauro secentesco. Molto eleganti i due bassorilievi con le raffigurazioni di calzature e il rilievo con l'Annunciazione sopra il portale d'ingresso.
Piccola curiosità: dal 1737 tutti i calegheri che risiedevano in città dovevano accorrere sul posto dove scoppiava un incendio. Muniti di spago, cuoio ed altri strumenti del mestiere erano a disposizione per riparare eventuali guasti alle manichette delle pompe dell'acqua.

domenica 8 luglio 2012

Giorgio Baffo, poeta erotico veneziano

Sulla facciata di Palazzo Bellavite, in Campo San Maurizio, si trovano due targhe che ricordano il soggiorno di due personaggi importanti: Alessandro Manzoni e Giorgio Baffo. Entrambi poeti ma di diversa ispirazione.
La famiglia Baffo giunse a Venezia nell'anno 827 e fu inscritta nella nobiltà nel 1297. Essi contribuirono alla costruzione della Chiesa della Maddalena e di San Secondo (nell'isola omonima) e Giorgio non perdonò mai ai suoi antenati di aver speso parte del capitale di famiglia a favore del clero. Le sue invettive contro preti e frati furono assai accese:

De povertà fè voto e castitae,
e po' ve volè tior tutt'i trastuli,
se ziogadori, puttanieri e buli,
e questa xe la vostra santitae.


La sua avversione al clero si spiega con la grande corruzione e i cattivi costumi che serpeggiavano nella Venezia del Settecento.
Giorgio nacque nel 1694 da Andrea Baffo e Chiara Querini: studiò scienze, storia e filosofia. "Fu uomo robusto e di forte complessione, sebbene piccolo di statura e grosso... Era faceto ed allegro nel parlare e trattare, facile ed affabile con tutti, egli era la delizia della conversazione, ne v'era alcun cittadinesco passatempo cui il nostro Autore non intervenisse e non rallegrase co' suoi lepidi versi ora studiati ed ora improvvisati che a gara gli dettavano le Muse e il suo libero genio".
Le poesie di di Giorgio Baffo, pur suscitando polemiche per il loro erotismo e anticlericalismo, erano lette ovunque in quanto affrontavano temi di grande attualità, quali il libertinaggio a Venezia. E Baffo, sebbene membro della Quarantia, scriveva moltissimo:

Me lambicco el cervello zorno e notte
per far sonetti grassi e buttirosi
per divertir le donne e i so morosi
ma mi fazzo sonetti e i altri fotte.


I suoi versi nascevano dall'osservazione della vita cittadina in giro per caffè, sale da gioco e bordelli:

Amigo vol contarve in t'un sonetto
la mia gran bela vita buzarada
tutta la sera vago per la strada
ma vago per toccar qualche culetto.


Baffo fu amico di personaggi illustri suoi contemporanei ed ebbe molta influenza negli anni dell'infanzia di Giacomo Casanova. Fu lui infatti che convinse la famiglia a mandare Giacomo a studiare a Padova e sempre lui lo presentò al senatore Malipiero che divenne suo protettore per un lungo periodo della sua vita.
Nel 1727 Baffo sposò Cecilia Sagredo, suonatrice di clavicembalo, dalla quale ebbe un'unica figlia. L'unione fu voluta dai Baffo perché Giorgio era l'unico maschio rimasto; il poeta ebbe sempre una certa ritrosia verso il matrimonio. Pare che i rapporti tra marito e moglie non fossero buoni, o almeno così traspare dalle sue parole:

Pur a mi la me tocca de sta' fatta
e se la soffro e la sopporto in pase
perché digo, gramassa la xè matta.
La Mona el ciel a ella l'ha fatta
e più darmela adesso no ghe piase
e mi vago a puttane, ed ecco fatto.


Fu definito poeta osceno, trasgressivo, licenzioso e morboso, ma è palese che questo suo scrivere è una spia dei disagi sociali, umani e politici degli anni che precedettero la caduta della Serenissima, quando tutti i valori del passato vennero meno.
Stanco di ipocrisie e falsità, durante un attacco di ira diede alle fiamme tutta la raccolta dei suoi scritti. Fortunatamente erano però stati trascritti da chi lo ascoltava e sono così giunti fino a noi.

(Fonte: M.C. Bizio)

lunedì 25 giugno 2012

Le tre colonne di San Marco

"Le due colonne che s'ergono alte assai in sul molo di San Marco, de le quali regge l'una l'effigie di Santo Todare co il dracone, l'altra il bronzeo lione, arebber dovuto essere tre. Noto gli è che, terminato quasi il periglioso viaggio dall'Oriente, giunse in vista del Molo, da cui festanti li veneziani s'apparecchiavano ad accoglierle, le navi che trasportavano le tre colonne consorelle, ed eran tre esse pure, furono colte da incommensurabile isbigottimento alla vista di cotanto popolo e quella d'esse ch'era di complessione più cagionevole sbandò tanto da sprofondare col carico trionfale.
Salvati li homeni de lo equipaggio, de quali nonnulla erasi in completo deliquio e galleggiava sull'acqua a mo' di cadavaro, la terza colonna non parlò neppure di trarla su, ché l'era poderosa alquanto. Pochi sanno che cosa essa avria dovuto reggere e dove la saria stata posta, e noi non siam di tra costoro. Ma sappiamo ben altro.
SI narra infatti che, guardacaso proprio all'interno di quella colonna, fussero stati celati i più audaci guerrieri dell'esercito turcomanno, acciocché nottetempo uscissero ad approntar l'offensiva di contra all'odiata Serenissima. Ma accadde che li serramenti de la porticina per la quale sarebbero usciti que' ribaldi s'arugginissero repentinamente, a cagione dell'immersione in acqua salsa, e non s'aprissero più.
Grande fu l'agitazione de li Turchi rinchiusi, già ispaventati dell'affondamento, al momento della discoverta, e li s'udì concitatamente confabulare a lungo, tanto che alcuno elucubrò si trattasse di colloqui subterranei di morti in preparazione della fine del mondo.
Come ognun sa, li Turchi aman fumare uno istrumento borbottante chiamato narghiglio, dal quale essi traggono le più complete staisfationi. Ne la gravitante cotanta del frangente, il loro comandante Mustafà Kebeli prendette parola e disse: 'Non molto tarderanno li nostri compatriotti a venirci a tra fuora da questo cottego, ovverosia trappola per pantegane, allieteremo  pertanto l'attesa co i generosi effluvi del nerghiglio'.
Ed essi stanno ancora suggendo di quel narghiglio sul fondo del Bacin de San Marco.
"

lunedì 18 giugno 2012

Cibo, vino e proverbi veneziani

"Chi varda el cartelo, no magna vedelo"
Chi guarda il cartello, non mangia vitello. Il detto si presta a diverse possibili interpretazioni, la più comune è: colui che guarda il cartello (in questo caso il menu) troppo a lungo, è solitamente persona insicura, con poca fiducia in se stessa, che esita a lungo prima di accingersi alle imprese desiderate, e nel far ciò, spesso non coglie l'occasione e si ritrova nell'impossibilità di raggiungere il risultato anelato (cioè dopo troppo lungo tentennamento, decide di ordinare al cameriere il vitello quando ormai in cucina il vitello è terminato!). Il detto quindi ci ammonisce dicendoci che colui che prende troppo tempo per decidersi ad intraprendere un'azione, alla fine non concluderà nulla.
"Strasse, ossi, de toccar bessi"
Stracci, ossa, da prendere soldi. Era questo il breve canto che per calli e campielli veneziani lanciava un vecchio venditore ambulante intorno agli anni trenta e quaranta. Un invito alle donne di casa perché uscissero alla porta e gli vendessero arnesi usati, mobili vecchi, vestiti smessi, tutta roba insomma di cui volessero disfarsi. Uno dei tanti mestieri scomparsi. Ignoriamo da dove venisse, giacché non aveva accento veneziano, forse veniva dalla campagna, forse era friulano. Peraltro è da ricordare che per i veneziani d'una volta (ma forse è un poco così ancor oggi), tutto ciò che non era Venezia, era campagna. Tutti quelli che non fossero veneziani erano campagnoli, venissero da Padova, da Udine od anche da Parigi, ad un dipresso come per gli ateniesi, tutti quelli che non erano della loro città erano semplicemente barbari.

Si sa che in laguna il pesce non è mai mancato, e qualora sia abbia l'opportunità di gustarne di appena pescato e cucina ad arte, si dice che: "xe da licarse i barboni" (è da leccarsi le dita). Sia per bontà, sia perché taluni pesci non possono esser mangiati altro che con le dita.
Poter mangiare quindi del pesce fresco e cucinato a dovere, è una cosa deliziosa e quindi "el xe un balar de Carneval", cosa piacevole, che non impegna e dona allegrezza.
Se lo si mangia al ristorante, il pesce è piuttosto costoso, ma talvolta può capitare di doverlo "pagar sora la broca", cioè di pagarlo più del suo valore. Il detto ha tratto motivo dal vino che era versato dalla brocca, "pagarlo sopra la brocca" voleva quindi dire pagare più vino di quanto ne potesse contenere la caraffa.
Per fortuna ci sono anche cibi che costano poco. Ove costassero pochissimo, si direbbe: "costar come 'na cantada de imbriago" (costare come un canto di ubriaco), cioè quasi nulla, appena quello che costa un bicchiere di vino, che alcuni bontemponi sono soliti offrire agli ubriachi per indurli a proseguire nei loro canti.
A questo proposito non sarà inutile ricordare come il vino venga bevuto a Venezia a singolo bicchiere, che un tempo corrispondeva esattamente ad un decimo di litro. Tale bicchiere viene chiamato "un'ombra de vin".
L'ombra di vino si degusta normalmente prima in un'osteria e subito dopo un un'altra e così via. Questo pellegrinaggio si chiama "andar per bacari". Sport assai praticato dai veneziani!
Non manca certo chi accompagna l'ombra di vino con cicchetti ed altri gustosi bocconi, per poi finire la serata "co i pie soto la tola" (con i piedi sotto la tavola), ricordando sempre che "quelo che no strangola, ingrassa" (quello che non strozza, ingrassa), per converso è opportuno non dimenticare che "dove sta Piero no sta Paolo" (dove sta Pietro non sta Paolo), cioè quando la pancia è piena è inutile aggiungere altro (il proverbio però si adatta a diverse situazioni).
in ogni caso si tornerà a casa esclamando: "Gnanca per ancuo no morimo de fame" (neanche oggi si muore di fame).

(Fonte: Federico Fontanella)

martedì 29 maggio 2012

Mercerie: le botteghe di Venezia

Le Mercerie a Venezia occupano quell'area strategicamente posta tra il centro politico-religioso di San Marco e quello commerciale-mercantile di Rialto. Per la loro importanza, già nel Duecento erano pavimentate in cotto.
Lungo le Mercerie di San Salvador avevano bottega i principali editori musicali e liutai:  i Gardano all'insegna "del Leone e dell'Orso", il liutaio Sigismondo Mahler, i Tieffenbrucker all'insegna "dell'Aquila nera", Francesco Bonafin, costruttore di clavicembali, Giorgio Sellas all'insegna "alla Stella" famoso per le sue chitarre, Luigi Hoffer costruttore di fortepiani.
La vita lungo le Mercerie fu sempre molto attiva: su di esse affacciavano numerosi negozi e costantemente si svolgeva un andirivieni di prodotti d'ogni tipo, da cui il detto "far marsaria" per indicare un trasloco.
La Merceria San Salvador prende il nome dall'omonima chiesa posta all'inizio della strada, verso il Canal Grande, la cui facciata principale volge verso il campo, mentre l'ingresso laterale si trova lungo la calle, tramite un sotoportego che attraversa il blocco edilizio di proprietà del Capitolo della Chiesa. Questo giustifica l'altezza delle case in questa zona: più erano numerosi gli appartamenti e maggiori erano le entrate per il clero! Gli stessi monaci di San Salvador scrissero nel 1507: "da queste case trazemo non mediocre utilità".
Poco più avanti prospetta la Calle degli Stagneri. Gli stagneri erano artigiani che lavoravano lo stagno con una tale abilità da farlo sembrare argento. Nacque il detto "xè passà per la cale degli stagneri", usato quando si dubitava dell'autenticità di un oggetto prezioso.
Lungo le Mercerie del Capitello si trova invece la Calle de le Balote. Qui esisteva la fabbrica delle speciali palline destinate alle votazioni delle magistrature veneziane e alla elezione del doge. Inizialmente fabbricate in cera e poi in tela di lino pressata, queste "balote" sono all'origine del termine "ballottaggio" usato ancora oggi per le votazioni.

lunedì 21 maggio 2012

La chiesa di Santa Giustina a Venezia

La chiesa di Santa Giustina sarebbe stata fondata da San Magno (Altino, 580-670), ma come al solito la storia posticipa la fondazione all'anno 1106, data della prima documentazione riguardante l'edificio. Fu consacrata nel 1207 ed assegnata prima ai monaci di Santa Brigida e poi alle monache agostiniane di S. Maria degli Angeli di Murano. La chiesa fu completamente rifatta nel 1500, e subì ulteriori rimaneggiamenti nel 1600.
Nei documenti dell'epoca si ricorda un tabernacolo dell'altare maggiore "di marmo fino in due ordini di colonne corinzie e composite con nicchi di agate e corniole, il tutto in fondo di lapislazzuli".
Vi era custodito inoltre un sasso con l'impronta delle ginocchia di S. Giustina, genuflessa su di esso in preghiera.
L'interno della chiesa era ricco di opere di diversi artisti, tra cui Palma il Giovane, Marco Vecellio e Liberi. Durante le soppressioni napoleoniche la chiesa venne completamente spogliata. Nel 1844 la chiesa perse il coronamento curvilineo superiore (vedi immagine), quando fu trasformata in scuola militare.
Un tempo la chiesa di Santa Giustina era visitata solennemente dal doge il 7 di ottobre, data della vittoria navale di Lepanto avvenuta nel 1571.
Oggi è sede del Liceo Scientifico titolato a Giambattista Benedetti, matematico veneziano morto nel 1590. Fu allievo di Nicolò Tartaglia e a soli 23 anni pubblicò un'opera dove insegnava a risolvere tutti i problemi geometrici per mezzo di un compasso ad apertura fissa. Nell'opera sua più di rilievo "Il libro di diverse speculazioni fisiche e matematiche", espose la teoria della caduta dei gravi che ebbe influenza anche su Galileo Galilei.

sabato 5 maggio 2012

I funerali dogali

I primi funerali dei dogi si svolgevano senza grande pompa, ma col tempo la cerimonia divenne sempre più complessa e solenne.
Quando un doge moriva, l'addetto alle cerimonie comunicava la notizia al Collegio e il più anziano dei Consiglieri rispondeva: "Con molto dispiacere avemo sentido la morte del Serenissimo Principe di tanta bontà e pietà. Però ne faremo un altro".
Poi la morte veniva annunciata a tutta la cittadinanza dal suono a doppio per nove volte delle campane di San Marco e delle altre chiese della città. Da quel momento erano sospese tutte le attività delle magistrature ad eccezione dei Signori della Notte, e nelle chiese si celebravano messe a suffragio per tre giorni.
Il doge, subito dopo la morte, veniva imbalsamato e avvolto nel mantello d'oro, col corno ducale in testa, gli speroni calzati alla rovescia e lo stocco del comando a lato, con l'impugnatura verso i piedi; poi veniva esposto in una sala del suo appartamento in Palazzo Ducale, sopra una tavola coperta da tappeti e la sera successiva era trasferito sopra un cataletto, da marinai scelti, nella Sala del Piovego. Passati tre giorni dalla morte, si svolgevano i funerali, verso sera.
Il corteo, formato da migliaia di persone, entrava in Palazzo Ducale, attraversava la Sala del Piovego e usciva in Piazza San Marco. In testa sfilavano le Scuole piccole, seguite dalle Scuole grandi, gli ordini monastici e religiosi, il clero secolare, i chierici e i capitoli di San Pietro in Castello e di San Marco.
Sopra il cataletto, portato da ufficiali della Marina, si alzava un baldacchino di velluto color cremisi con ricami d'oro, sorretto da quattro confratelli della Scuola alla quale apparteneva il doge. Il cataletto era seguito dai parenti del doge che sfilavano vestiti completamente di nero, avvolti in lunghi mantelli con cappuccio, mentre le varie magistrature vestivano di rosso, a significare che il lutto era privato e la Serenissima eterna.
Il lungo corteo, concluso dai bambini dei quattro Ospedali cittadini, entrava in Piazza al suono delle campane di San Marco, girava intorno al pozzo posto davanti alla chiesa di San Giminiano (oggi non più esistente) e quando il cataletto giungeva davanti alla Basilica, le campane smettevano di suonare e i marinai, in segno di lutto, lo alzavano nove volte gridando, nel silenzio generale, "misericordia".
Dopo quel gesto, chiamato salto del morto, le campane riprendevano a suonare e il corteo imboccava le Mercerie per poi dirigersi verso S.S. Giovanni e Paolo. Lungo tutto il percorso le finestre delle case erano abbellite da tappeti ed arazzi e i soldati dalmati facevano doppio cordone da Piazza San Marco al Campo S.S. Giovanni e Paolo.
Arrivati all'interno della Chiesa, la bara veniva posta sopra un alto catafalco; attorno si disponevano i soldati e i marinai, mentre i parenti sedevano nel coro. Terminata l'orazione funebre, tutti si allontanavano in barca, mentre il Patriarca dava l'assoluzione alla salma.
Alla cerimonia dentro la chiesa c'era poca affluenza di pubblico, forse a causa di una strana profezia: la Chiesa sarebbe crollata in un giorno solenne!

lunedì 16 aprile 2012

Candele a Venezia

A due passi dall'Oratorio dei Crociferi si trova la piccola Corte delle Candele, con una vera da pozzo trecentesca in marmo rosa di Verona, dove compare lo stemma della famiglia Zen, il cui palazzo si affaccia sul vicino rio di Santa Caterina.
Qui infatti esisteva una fabbrica di candele, molto usate dai veneziani, in particolare per le funzioni religiose, ma anche esportate all'estero. Gli artigiani veneziani importavano la cera vergine dall'Oriente e dalla Moldavia. Grazie al clima la si poteva lavorare senza che la polvere la rovinasse. Tra il 1400 e il 1500 si contavano ventiquattro fabbriche in città, ma nel Seicento la produzione cominciò a diminuire e nel Settecento fu vera crisi a causa della grande cereria di Trieste, fornita di grossi capitali ed esente da dazi.
Come ricorda il Tassini, era famoso a Venezia, nel Settecento, un certo Gian Battista Talamini, proprietario di una spezieria a Rialto all'insegna "della Fonte", il quale, precorrendo i tempi, riuscì per primo a colorare e lavorare la cera, dandole le forme più varie: piante, fiori, frutta, animali e rendendola tanto dura che sottoforma di tazze, bicchieri e vasi poteva reggere qualsiasi liquido.
La cera veniva anche usata per realizzare maschere mortuarie o veri e propri ritratti di persone a grandezza naturale. A tal riguardo è in corso a Venezia una mostra titolata "Avere una bella cera" presso Palazzo Fortuny.

giovedì 5 aprile 2012

Scuola d'Arte dei Botteri a Venezia

La Corporazione dei fabbricatori di botti a Venezia si costituì nel 1271 e non conobbe mai periodi di crisi, in quanto tutti i liquidi erano trasportati e conservati nelle botti.
Le botti si costruivano posizionando le doghe all'interno di un cerchio guida, posto a metà altezza; finita la struttura di base si poneva all'interno uno scaldino per curvare più facilmente il legno. Poi si realizzavano i fondi e ogni maestro doveva porre il proprio marchio sul cocchiume (foro con tappo posto sulla doga di massimo diametro) della botte. Ogni maestro non poteva possedere più di 1500 doghe.
Le doghe in rovere, fin dal 1278, dovevano essere acquistate esclusivamente sulle rive tra il Ponte di Rialto e il traghetto di Santa Sofia, mentre quelle di abete si acquistavano in Barbaria delle Tole e a San Basilio; le botti invece erano vendute a Rialto e a San Marco nel giorno di sabato.
Era proibito lavorare di notte e tenere il legname vicino ai camini per timore degli incendi. Per far parte dell'arte era richiesta l'età minima di 17 anni, e per diventare Gastaldo almeno 35. Il Gastaldo, massimo responsabile della Confraternita, non poteva assentarsi da Venezia per più di 15 giorni consecutivi, pena la perdita della carica e di un anno di paga, inoltre doveva provvedere alla riparazione di tutte le botti di Palazzo Ducale gratuitamente; il doge in cambio forniva il cibo e i cerchi per le botti.

lunedì 12 marzo 2012

Modi di dire veneziani legati all'abbigliamento

Esistono diversi modi di dire tipici veneziani legati all'abbigliamento, vediamone alcuni:
- "Xè un altro per de maneghe" = quando l'oggetto in questione è lo stesso ma sembra nuovo, Nacque nel Settecento quando le possibilità economiche non permettevano di cambiare troppo spesso l'abito e così si modificavano solo le maniche: l'abito era sempre lo stesso ma sembrava nuovo!
- "La par la poereta del sabo" = quando una persona veste male. Ebbe origine dalla consuetudine dei mendicanti che chiedevano l'elemosina il sabato vicino alle chiese e, per impietosire la gente, vestivano di stracci.
- "De meza vigogna" = di poco pregio. La vigogna era un tessuto pregiato, così chiamato dall'animale che vive nelle Ande e dal quale si ricava una lana di alta qualità. Ma se si mescola questa lana con quella di pecora si ottiene un tessuto mediocre.
- "Tagiar tabarri" = spettegolare. Il tabarro era il mantello indossato dalle classi abbienti nel Settecento che i meno ricchi tagliavano da dietro, senza che il proprietario se n'accorgesse, per poi prenderlo il giro e denigrarlo, giacché malgrado la sua apparente ricchezza usava un abito a brandelli.
- "A giugno cavite 'l codegugno, ma no stalo impegnar parché no ti sa in lugio cosa che te pol capitar", è un invito a tenere sempre a portata di mano la vestaglia da casa (codegugno) perché il clima può sempre cambiare all'improvviso.
- "Guantiera" = nome dato al vassoio. Il termine deriva dall'abitudine d'offrire agli ospiti, durante le feste settecentesche, dei guanti bianchi distribuiti su vassoi d'argento.

(Fonte: M.C. Bizio)

martedì 6 marzo 2012

Palazzo Tiepolo e l'impresa audace di Sansovino

All'angolo tra Rio Noale e Rio San Felice si nota un giardino murato. Anticamente quell'area era occupata da un palazzo di proprietà di Alvise Tiepolo, Procuratore di San Marco.
Francesco Sansovino, nel suo libro Venetia, città nobilissima et singolare, descritta in XII libri, racconta dell'impresa audace del padre Jacopo: "... consumato dal tempo, il palazzo fu con artifitio non più per avanti udito, rifondato di sotto, mentre chi si abitava di sopra, senza moto alcuno e con meraviglia della città; poi che stando la fabbrica in piedi, e sostenendola in aria, si possono gettar nuove fondamenta senza disconcio degli abitanti, e ciò fu ritrovato dal Sansovino". Possiamo a stento immaginare lo stupore dei veneziani nel vedere simile opera!
Giustiniano Martinioni ricorda che nella seconda metà del Seicento in questo palazzo abitava il senatore Marino Tiepolo. In un'incisione di Domenico Lovisa (1720) si evidenzia come l'intervento del Sansovino si fosse limitato ai piani inferiori che presentavano linee cinquecentesche a differenza del piano superiore gotico.
Il Palazzo Tiepolo venne distrutto a fine Settecento.

martedì 21 febbraio 2012

Palazzo Foscarini Giovanelli

Accanto all'antica sede della Scuola dei Tiraoro e Battioro (a San Stae), scorre il rio Mocenigo, e al di là del rio sorge il Palazzo Foscarini Giovanelli, affacciato sul Canal Grande.
L'edificio venne realizzato a metà del Cinquecento per volere dalla famiglia Coccina, commercianti in gioielli. Nel 1581 fu venduto a Luca Antonio Giunta, di origini fiorentine, la cui famiglia esercitava l'arte della stampa a Venezia dal 1482. Nel 1625 Lucrezia e Bianca Giunta sposarono i fratelli Nicolò e Renier Foscarini. Da allora il palazzo fu abitato da quel ramo della  famiglia Foscarini, fino al 1755, quando il palazzo venne affittato ala famiglia Giovanelli, di origine bergamasca.
Nel 1771 i Giovanelli vi ospitarono Leopold Mozart e suo figlio Wolfgang in visita in città. In questa splendida dimora abitò anche il re di Danimarca, Federico Cristiano IV.
Il palazzo aveva le pareti della corte interna affrescate dallo Zelotti con rappresentazioni di figure nude e di suonatori affacciati a finte finestre intervallate da finestre vere.
La famiglia Foscarini è presente nei documenti veneziani fin dal XII secolo ed era originaria di Altino. Uno dei suoi membri più interessanti fu Marco, nato nel 1696. Uomo di vasta cultura, studiò all'Accademia di Bologna e quando tornò a Venezia si dedicò alla raccolta di volumi preziosi, anche ricorrendo a volte ad astuti sotterfugi pur di ottenere rari manoscritti.
La sua biblioteca divenne col tempo una delle più ricche in città, non solo per i numerosi volumi, ma anche per la ricercatezza ed eleganza della rilegatura, tutti i testi infatti erano rilegati in cuoio rosso con lo stemma dei Foscarini.
Purtroppo nell'Ottocento la biblioteca fu dispersa assieme alle fortune della casata. Lo stato austriaco s'appropriò di ben 497 codici, inviati alla Biblioteca Imperiale di Vienna, mentre i libri stampati furono venduti alla spicciolata.
Marco Foscarini, oltre a raccogliere libri e manoscritti, si dilettava con lo studio della poesia latina e italiana, egli stesso scrisse componimenti poetici. Quando Marco raggiunse l'età prestabilita, entrò nella carriera politica, raggiungendo i più alti vertici. Nel 1762 venne eletto doge, ma il suo dogado fu breve: egli infatti, appena eletto, si sentì male e la sua salute continuò a peggiorare.  Al suo letto furono convocati nove medici e quattro chirurghi che lo sottoposero alle cure più assurde: fu salassato cinque volte, gli furono imposti quaranta clisteri, innumerevoli frizioni e medicine per bocca, gli vennero estratti i calcoli alla vescica e asportate emorroidi, tutti interventi che gli procurarono febbri altissime, capogiri, dolori, difficoltà respiratorie e ovviamente... la morte!