Sulla facciata della Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (S.Zanipolo per i veneziani), si trovano alcune urne funerarie. La prima a destra del portale è di Marco Michiel, fondatore della chiesa domenicana di San Pietro Martire a Murano, riconoscibile per la presenza dello stemma di famiglia: uno scudo con ventun piccoli cerchi.
I Michiel erano tra le dodici più antiche famiglie di Venezia, il capostipite era Angelo Frangipane, senatore romano, venuto a Venezia con altri due fratelli. Venne soprannominato “el Michiel” per la forza e la bontà, paragonate a quelle dell’arcangelo Michele. Lo stemma venne modificato così come lo vediamo sulla tomba di Marco Michiel, da Domenico Michiel, uno dei più grandi dogi di Venezia.
Nell'aprile del 1123 egli partì con una flotta di ben 40 galere in soccorso di Baldovino II re di Gerusalemme, prigioniero dei saraceni. La flotta veneziana, giunta in prossimità del porto di Ascalona fu circondata dalla flotta egiziana accorsa a difesa del sultanato di Tiro; i veneziani riuscirono però a vincere. L'azione continuò quindi, muovendo assedio alla stessa Tiro che fu presa dopo cinque mesi. I crociati accolsero il doge da trionfatore e gli offersero il regno di Gerusalemme, disperando di poter liberare Baldovino II. Ma gli interessi dogali erano rivolti a Bisanzio che aveva nel frattempo disatteso gli editti e la "Bolla d'oro", consentendo ai pisani di avere un quartiere e liberi scambi in Costantinopoli. Stante la situazione Domenico Michiel volse la flotta verso i territori sotto l'ègida di Bisanzio e del suo Imperatore Calojanni. Attaccò e saccheggiò successivamente le isole di Rodi, Samo, Chio, Lesbo, Andros, Cefalonia e la citta di Modone. In Adriatico, attaccò l'Ungheria di Stefano II e riconquistò le città dalmate di Traù e Spalato nel maggio del 1125. Nello stesso mese Baldovino II fu liberato e concesse al doge i privilegi già concordati con il regno di Gerusalemme. L'imperatore di Bisanzio, messo alle strette, chiese la pace e nel 1126 emise una nuova "Bolla d'oro" nella quale si riaffermavano i privilegi di Venezia a Costantinopoli e nei territori imperiali.
Il ritorno del doge fu un trionfo. Fu in quella occasione che Domenico Michiel fece modificare lo stemma di famiglia (prima era uno scudo argentato con tre fasce azzurre) con i piccoli cerchi che rappresentano le monete fatte coniare a memoria della sua impresa.
Sempre in quella circostanza è rimasto famoso il gesto del Doge Michiel di spogliare le galee veneziane degli armamenti necessari alla navigazione per rassicurare i crociati che temevano di essere abbandonati dalla flotta veneziana in caso di sconfitta.
lunedì 23 aprile 2012
Domenico Michiel, uno dei più grandi dogi di Venezia
venerdì 20 aprile 2012
“Se tu leggi molto, nulla è mai cosi grande come lo avevi immaginato. Venezia sì. Venezia è meglio”
(Fran Lebowitz)
(Fran Lebowitz)
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lunedì 16 aprile 2012
Candele a Venezia
A due passi dall'Oratorio dei Crociferi si trova la piccola Corte delle Candele, con una vera da pozzo trecentesca in marmo rosa di Verona, dove compare lo stemma della famiglia Zen, il cui palazzo si affaccia sul vicino rio di Santa Caterina.
Qui infatti esisteva una fabbrica di candele, molto usate dai veneziani, in particolare per le funzioni religiose, ma anche esportate all'estero. Gli artigiani veneziani importavano la cera vergine dall'Oriente e dalla Moldavia. Grazie al clima la si poteva lavorare senza che la polvere la rovinasse. Tra il 1400 e il 1500 si contavano ventiquattro fabbriche in città, ma nel Seicento la produzione cominciò a diminuire e nel Settecento fu vera crisi a causa della grande cereria di Trieste, fornita di grossi capitali ed esente da dazi.
Come ricorda il Tassini, era famoso a Venezia, nel Settecento, un certo Gian Battista Talamini, proprietario di una spezieria a Rialto all'insegna "della Fonte", il quale, precorrendo i tempi, riuscì per primo a colorare e lavorare la cera, dandole le forme più varie: piante, fiori, frutta, animali e rendendola tanto dura che sottoforma di tazze, bicchieri e vasi poteva reggere qualsiasi liquido.
La cera veniva anche usata per realizzare maschere mortuarie o veri e propri ritratti di persone a grandezza naturale. A tal riguardo è in corso a Venezia una mostra titolata "Avere una bella cera" presso Palazzo Fortuny.
Qui infatti esisteva una fabbrica di candele, molto usate dai veneziani, in particolare per le funzioni religiose, ma anche esportate all'estero. Gli artigiani veneziani importavano la cera vergine dall'Oriente e dalla Moldavia. Grazie al clima la si poteva lavorare senza che la polvere la rovinasse. Tra il 1400 e il 1500 si contavano ventiquattro fabbriche in città, ma nel Seicento la produzione cominciò a diminuire e nel Settecento fu vera crisi a causa della grande cereria di Trieste, fornita di grossi capitali ed esente da dazi.
Come ricorda il Tassini, era famoso a Venezia, nel Settecento, un certo Gian Battista Talamini, proprietario di una spezieria a Rialto all'insegna "della Fonte", il quale, precorrendo i tempi, riuscì per primo a colorare e lavorare la cera, dandole le forme più varie: piante, fiori, frutta, animali e rendendola tanto dura che sottoforma di tazze, bicchieri e vasi poteva reggere qualsiasi liquido.
La cera veniva anche usata per realizzare maschere mortuarie o veri e propri ritratti di persone a grandezza naturale. A tal riguardo è in corso a Venezia una mostra titolata "Avere una bella cera" presso Palazzo Fortuny.
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sabato 14 aprile 2012
"A Venezia la maggior parte della vita la si trascorre in attesa di cose che possono o non possono accadere, e questo viene accettato come una parte necessaria del tempo. Nessun veneziano ha il senso del tempo: non è mai preciso, arriva tardi agli appuntamenti o compare con interi giorni di ritardo senza il minimo imbarazzo. Si aspettano ore, giorni, settimane, persino mesi per la cosa più banale, o anche la più importante, e così si va avanti senza alcuna preoccupazione..."
(Peggy Guggenheim)
(Peggy Guggenheim)
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giovedì 12 aprile 2012
Ponte della Donna Onesta
Nel sestier di San Polo, nel muro sopra al civico 2935 si trova un altorilievo raffigurante un volto femminile, chiamato "Donna Onesta", termine traslato al vicino ponte.
La tradizione vuole che la denominazione di tale ponte risalga a questo episodio: un giorno due uomini passando per questo ponte, altercavano tra loro sull'onestà delle donne, al che uno dei due, alquanto incredulo in tale materia, dicesse al suo compagno: "Sai tu qual è l'unica onesta tra tante? Quella là che tu vedi!" e in ciò dire gli additò la piccola testa di dama, scolpita in pietra che tuttora si vede innestata nel muro sopra la casa vicino al ponte.
Secondo un'altra versione, il nome deriva semplicemente dal nome di una famiglia del quartiere, o addirittura dal fatto che in zona viveva una meretrice dalle tariffe ragionevoli e dunque "onesta"!
La tradizione vuole che la denominazione di tale ponte risalga a questo episodio: un giorno due uomini passando per questo ponte, altercavano tra loro sull'onestà delle donne, al che uno dei due, alquanto incredulo in tale materia, dicesse al suo compagno: "Sai tu qual è l'unica onesta tra tante? Quella là che tu vedi!" e in ciò dire gli additò la piccola testa di dama, scolpita in pietra che tuttora si vede innestata nel muro sopra la casa vicino al ponte.
Secondo un'altra versione, il nome deriva semplicemente dal nome di una famiglia del quartiere, o addirittura dal fatto che in zona viveva una meretrice dalle tariffe ragionevoli e dunque "onesta"!
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giovedì 5 aprile 2012
Scuola d'Arte dei Botteri a Venezia
La Corporazione dei fabbricatori di botti a Venezia si costituì nel 1271 e non conobbe mai periodi di crisi, in quanto tutti i liquidi erano trasportati e conservati nelle botti.
Le botti si costruivano posizionando le doghe all'interno di un cerchio guida, posto a metà altezza; finita la struttura di base si poneva all'interno uno scaldino per curvare più facilmente il legno. Poi si realizzavano i fondi e ogni maestro doveva porre il proprio marchio sul cocchiume (foro con tappo posto sulla doga di massimo diametro) della botte. Ogni maestro non poteva possedere più di 1500 doghe.
Le doghe in rovere, fin dal 1278, dovevano essere acquistate esclusivamente sulle rive tra il Ponte di Rialto e il traghetto di Santa Sofia, mentre quelle di abete si acquistavano in Barbaria delle Tole e a San Basilio; le botti invece erano vendute a Rialto e a San Marco nel giorno di sabato.
Era proibito lavorare di notte e tenere il legname vicino ai camini per timore degli incendi. Per far parte dell'arte era richiesta l'età minima di 17 anni, e per diventare Gastaldo almeno 35. Il Gastaldo, massimo responsabile della Confraternita, non poteva assentarsi da Venezia per più di 15 giorni consecutivi, pena la perdita della carica e di un anno di paga, inoltre doveva provvedere alla riparazione di tutte le botti di Palazzo Ducale gratuitamente; il doge in cambio forniva il cibo e i cerchi per le botti.
Le botti si costruivano posizionando le doghe all'interno di un cerchio guida, posto a metà altezza; finita la struttura di base si poneva all'interno uno scaldino per curvare più facilmente il legno. Poi si realizzavano i fondi e ogni maestro doveva porre il proprio marchio sul cocchiume (foro con tappo posto sulla doga di massimo diametro) della botte. Ogni maestro non poteva possedere più di 1500 doghe.
Le doghe in rovere, fin dal 1278, dovevano essere acquistate esclusivamente sulle rive tra il Ponte di Rialto e il traghetto di Santa Sofia, mentre quelle di abete si acquistavano in Barbaria delle Tole e a San Basilio; le botti invece erano vendute a Rialto e a San Marco nel giorno di sabato.
Era proibito lavorare di notte e tenere il legname vicino ai camini per timore degli incendi. Per far parte dell'arte era richiesta l'età minima di 17 anni, e per diventare Gastaldo almeno 35. Il Gastaldo, massimo responsabile della Confraternita, non poteva assentarsi da Venezia per più di 15 giorni consecutivi, pena la perdita della carica e di un anno di paga, inoltre doveva provvedere alla riparazione di tutte le botti di Palazzo Ducale gratuitamente; il doge in cambio forniva il cibo e i cerchi per le botti.
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venerdì 30 marzo 2012
Pier Fortunato Calvi, patriota veneziano
Pier Fortunato Calvi, nato a Briana di Noale nel 1817, fu impiccato a Belfiore nel 1855 per aver organizzato un'insurrezione contro gli austriaci.
Aveva iniziato la sua carriera come ufficiale dell'esercito austriaco, dal quale si dismise nel 1848 assumendo il comando delle truppe insorte contro l'Austria in Cadore; nonostante gli sforzi i cadorini furono costretti a cedere e Calvi si rifugiò a Venezia, dove il governo neo-repubblicano (istituito da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo) gli affidò il comando della legione dei "Cacciatori delle Alpi". Il Calvi si coprì di gloria a Venas e a Oltrechiusa, dove combatté contro duemila Austriaci, e poi ancora nei pressi di Longarone; sconfisse i nemici a Rovalgo, al Boite, in Val di Rendimera. Ma la mancanza di armi, di munizioni e di viveri lo costrinse ad abbandonare il Cadore, e il Calvi, con la generosità consueta, corse a difendere Venezia. Caduta la città nel 1849, andò in esilio in Grecia e, successivamente, in Piemonte (dove entrò in contatto con Mazzini) e in Lombardia, dove venne arrestato dalla polizia austriaca.
La fierezza e la gentilezza di Calvi rimasero leggendarie: al giudice che gli lesse la sentenza di morte offrì un sigaro e al boia che lo voleva aiutare a salire i gradini del patibolo disse: "Grazie, le mie gambe non tremano".
Una lapide in Campo dei Gesuiti è a lui dedicata.
Aveva iniziato la sua carriera come ufficiale dell'esercito austriaco, dal quale si dismise nel 1848 assumendo il comando delle truppe insorte contro l'Austria in Cadore; nonostante gli sforzi i cadorini furono costretti a cedere e Calvi si rifugiò a Venezia, dove il governo neo-repubblicano (istituito da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo) gli affidò il comando della legione dei "Cacciatori delle Alpi". Il Calvi si coprì di gloria a Venas e a Oltrechiusa, dove combatté contro duemila Austriaci, e poi ancora nei pressi di Longarone; sconfisse i nemici a Rovalgo, al Boite, in Val di Rendimera. Ma la mancanza di armi, di munizioni e di viveri lo costrinse ad abbandonare il Cadore, e il Calvi, con la generosità consueta, corse a difendere Venezia. Caduta la città nel 1849, andò in esilio in Grecia e, successivamente, in Piemonte (dove entrò in contatto con Mazzini) e in Lombardia, dove venne arrestato dalla polizia austriaca.
La fierezza e la gentilezza di Calvi rimasero leggendarie: al giudice che gli lesse la sentenza di morte offrì un sigaro e al boia che lo voleva aiutare a salire i gradini del patibolo disse: "Grazie, le mie gambe non tremano".
Una lapide in Campo dei Gesuiti è a lui dedicata.
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lunedì 19 marzo 2012
L'avventura della seta a Venezia
In Campo dei Gesuiti, al civico 4877, aveva sede la Scuola dei tessitori di panni di seta, i cui santi patroni erano la Vergine Annunciata e San Cristoforo.
E' difficile stabilire in quale data ebbe inizio l'arte serica a Venezia, Una leggenda narra che durante il dogado di Vitale Falier (1084-1096), l'Imperatore Enrico IV fu in visita a Venezia e tra i suoi accompagnatori c'era un certo Antinope, un sarto greco che aveva confezionato il mantello dell'Imperatore. Il manufatto era di rara bellezza e fu apprezzato anche dal doge stesso. Durante il suo soggiorno a Venezia, Enrico IV si infatuò di una dama veneziana, Polissina Michiel, alla quale fece dono di un mantello simile al suo. E così la seta fu conosciuta in città.
Al di là della leggenda, si sa che in realtà tale tessuto era già noto, ma non si lavorava a Venezia. Sicuramente l'arte serica fu introdotta nella Serenissima dopo la conquista di Costantinopoli (1204) e la Corporazione dei samiteri ebbe il primo statuto nel 1265. Il nome samiteri deriva da sciamitum, il tessuto di seta più pregiato e diffuso nel Duecento. Il lavoro si svolgeva sotto forma d'artigianato domestico, ma la merce prodotta non poteva essere venduta direttamente al cliente, doveva invece essere ceduta prima ad un mercante.
Per ogni tipo di tessuto serico era fissata la dimensione delle pezze, il tono e l'intensità del colore che doveva essere costante per tutta la pezza, e i tessuti ritenuti difettosi erano bruciati sul Ponte di Rialto.
Il setificio veneziano ebbe un notevole impulso con l'arrivo dei maestri lucchesi. Lucca era il centro più fiorente di drappi di seta, con ben tremila telai, ma il saccheggio della città nel 1314 per opera dei Ghibellini, costrinse alla fuga molti artigiani, i quali trovarono rifugio a Venezia. portando con sé oltre alla cultura serica anche l'arte del velluto.
La produzione tessile a Venezia raggiunse il suo apice nel 1400, con ben quattromila telai. I lavori erano raffinati e ricercati, con disegni a volte realizzati da grandi artisti locali, come Jacopo Bellini.
E' difficile stabilire in quale data ebbe inizio l'arte serica a Venezia, Una leggenda narra che durante il dogado di Vitale Falier (1084-1096), l'Imperatore Enrico IV fu in visita a Venezia e tra i suoi accompagnatori c'era un certo Antinope, un sarto greco che aveva confezionato il mantello dell'Imperatore. Il manufatto era di rara bellezza e fu apprezzato anche dal doge stesso. Durante il suo soggiorno a Venezia, Enrico IV si infatuò di una dama veneziana, Polissina Michiel, alla quale fece dono di un mantello simile al suo. E così la seta fu conosciuta in città.
Al di là della leggenda, si sa che in realtà tale tessuto era già noto, ma non si lavorava a Venezia. Sicuramente l'arte serica fu introdotta nella Serenissima dopo la conquista di Costantinopoli (1204) e la Corporazione dei samiteri ebbe il primo statuto nel 1265. Il nome samiteri deriva da sciamitum, il tessuto di seta più pregiato e diffuso nel Duecento. Il lavoro si svolgeva sotto forma d'artigianato domestico, ma la merce prodotta non poteva essere venduta direttamente al cliente, doveva invece essere ceduta prima ad un mercante.
Per ogni tipo di tessuto serico era fissata la dimensione delle pezze, il tono e l'intensità del colore che doveva essere costante per tutta la pezza, e i tessuti ritenuti difettosi erano bruciati sul Ponte di Rialto.
Il setificio veneziano ebbe un notevole impulso con l'arrivo dei maestri lucchesi. Lucca era il centro più fiorente di drappi di seta, con ben tremila telai, ma il saccheggio della città nel 1314 per opera dei Ghibellini, costrinse alla fuga molti artigiani, i quali trovarono rifugio a Venezia. portando con sé oltre alla cultura serica anche l'arte del velluto.
La produzione tessile a Venezia raggiunse il suo apice nel 1400, con ben quattromila telai. I lavori erano raffinati e ricercati, con disegni a volte realizzati da grandi artisti locali, come Jacopo Bellini.
giovedì 15 marzo 2012
Grata a Venere
Aperto il cor vi mostrerò nel petto,
allor che 'l vostro non mi celerete
e sarà di piacervi il mio diletto.
E s'a Febo sì grata mi tenete
per lo compor, ne l'opere amorose
grata a Venere più mi troverete.
Così dolce e gustevole divento
quando mi trovo con persona in letto
da cui amata e gradita mi sento.
Che quel mio piacer vince ogni diletto,
si che quel che strettissimo parea,
nodo dell'altrui amor divien più stretto.
Ma, s'havete di favole desio
mentre anderete voi favoleggiando,
favoloso sarà l'accento mio.
E di favole stanco, e satio, quando
l'amor mi mostrerete con effetto,
non men del mio vi andrò certificando.
(Veronica Franco, cortigiana di Venezia)
allor che 'l vostro non mi celerete
e sarà di piacervi il mio diletto.
E s'a Febo sì grata mi tenete
per lo compor, ne l'opere amorose
grata a Venere più mi troverete.
Così dolce e gustevole divento
quando mi trovo con persona in letto
da cui amata e gradita mi sento.
Che quel mio piacer vince ogni diletto,
si che quel che strettissimo parea,
nodo dell'altrui amor divien più stretto.
Ma, s'havete di favole desio
mentre anderete voi favoleggiando,
favoloso sarà l'accento mio.
E di favole stanco, e satio, quando
l'amor mi mostrerete con effetto,
non men del mio vi andrò certificando.
(Veronica Franco, cortigiana di Venezia)
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lunedì 12 marzo 2012
Modi di dire veneziani legati all'abbigliamento
Esistono diversi modi di dire tipici veneziani legati all'abbigliamento, vediamone alcuni:
- "Xè un altro per de maneghe" = quando l'oggetto in questione è lo stesso ma sembra nuovo, Nacque nel Settecento quando le possibilità economiche non permettevano di cambiare troppo spesso l'abito e così si modificavano solo le maniche: l'abito era sempre lo stesso ma sembrava nuovo!
- "La par la poereta del sabo" = quando una persona veste male. Ebbe origine dalla consuetudine dei mendicanti che chiedevano l'elemosina il sabato vicino alle chiese e, per impietosire la gente, vestivano di stracci.
- "De meza vigogna" = di poco pregio. La vigogna era un tessuto pregiato, così chiamato dall'animale che vive nelle Ande e dal quale si ricava una lana di alta qualità. Ma se si mescola questa lana con quella di pecora si ottiene un tessuto mediocre.
- "Tagiar tabarri" = spettegolare. Il tabarro era il mantello indossato dalle classi abbienti nel Settecento che i meno ricchi tagliavano da dietro, senza che il proprietario se n'accorgesse, per poi prenderlo il giro e denigrarlo, giacché malgrado la sua apparente ricchezza usava un abito a brandelli.
- "A giugno cavite 'l codegugno, ma no stalo impegnar parché no ti sa in lugio cosa che te pol capitar", è un invito a tenere sempre a portata di mano la vestaglia da casa (codegugno) perché il clima può sempre cambiare all'improvviso.
- "Guantiera" = nome dato al vassoio. Il termine deriva dall'abitudine d'offrire agli ospiti, durante le feste settecentesche, dei guanti bianchi distribuiti su vassoi d'argento.
(Fonte: M.C. Bizio)
- "Xè un altro per de maneghe" = quando l'oggetto in questione è lo stesso ma sembra nuovo, Nacque nel Settecento quando le possibilità economiche non permettevano di cambiare troppo spesso l'abito e così si modificavano solo le maniche: l'abito era sempre lo stesso ma sembrava nuovo!
- "La par la poereta del sabo" = quando una persona veste male. Ebbe origine dalla consuetudine dei mendicanti che chiedevano l'elemosina il sabato vicino alle chiese e, per impietosire la gente, vestivano di stracci.
- "De meza vigogna" = di poco pregio. La vigogna era un tessuto pregiato, così chiamato dall'animale che vive nelle Ande e dal quale si ricava una lana di alta qualità. Ma se si mescola questa lana con quella di pecora si ottiene un tessuto mediocre.
- "Tagiar tabarri" = spettegolare. Il tabarro era il mantello indossato dalle classi abbienti nel Settecento che i meno ricchi tagliavano da dietro, senza che il proprietario se n'accorgesse, per poi prenderlo il giro e denigrarlo, giacché malgrado la sua apparente ricchezza usava un abito a brandelli.
- "A giugno cavite 'l codegugno, ma no stalo impegnar parché no ti sa in lugio cosa che te pol capitar", è un invito a tenere sempre a portata di mano la vestaglia da casa (codegugno) perché il clima può sempre cambiare all'improvviso.
- "Guantiera" = nome dato al vassoio. Il termine deriva dall'abitudine d'offrire agli ospiti, durante le feste settecentesche, dei guanti bianchi distribuiti su vassoi d'argento.
(Fonte: M.C. Bizio)
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