lunedì 19 aprile 2010

Castradina Sciavona

Un tempo la Riva degli Schiavoni non era così ampia e soprattutto non era la tipica passeggiata che è oggi, ma era lo scalo delle navi commerciali che giungevano dall’oriente; questa era la vera porta d’ingresso alla città prima che la costruzione del ponte della Libertà ancorasse Venezia alla terraferma costringendoci ad entrare dal retro…
Qui attraccavano galee mercantili, tartàne albanesi e bastimenti turchi, sulla fondamenta si incontravano marinai orientali con braghesse, fez e scarpe a punta, e non c’erano certo alberghi di lusso, ma casotti di legno per lo stoccaggio delle merci, banchi di vendita all’ingrosso, squeri (cioè cantieri per il rimessaggio e la riparazione delle barche), e un incredibile viavai di merci e uomini, un intreccio di facce, lingue, e abiti che arrivavano da tutti i porti per scaricare prodotti di ogni genere, soprattutto alimentari: formaggi, pesce, animali vivi come agnelli, montoni, bovini.
Animali che  per lo più giungevano dai Balcani, ed è per questo che la Riva prese a chiamarsi “degli Schiavoni”, perché con il termine Sclavonia si indicava la fascia costiera della Dalmazia, della Bosnia e dell’Albania. Dopo aver scaricato le loro merci le navi ripartivano cariche di manufatti di metallo, di legno, ferro e di armi… insomma un immagine ben diversa da quella di oggi!
Di quel periodo resta memoria in un tipico piatto che si consuma ancora oggi a Venezia in occasione della Festa della Salute il 21 di Novembre, e cioè la Castradina S'ciavona, in pratica carne di montone castrato affumicata ed essicata al sole, servita con brodo di verze.
Ecco la ricetta:
"Per fare una buona castradina cole verze ci vuole innanzitutto tempo. Si lascia la carne di montone a bagno per un giorno, in acqua prima bollente poi tiepida. Si lava in molte acque, si taglia a pezzetti e la si mette sul fuoco con gli aromi d'uso. Si lascia bollire e freddare, e la si pone in luogo fresco. Il giorno dopo si toglie il grasso rappreso che si è formato in superficie e si rimette la pentola sul fuoco con le verdure del brodo e le foglie, abbondanti, di cavolo verzotto. Si fa sobbollire, senza fretta, fino a quando la carne non diventa tenera e le verze ben cotte"
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mercoledì 14 aprile 2010

Hugo Pratt, viaggiatore incantato

"Avevo quattro o cinque anni, forse sei, quando mia nonna si faceva accompagnare da me al Ghetto Vecchio di Venezia. Andavamo a visitare una sua amica, la signora Bora Levi, che abitava in una casa vecchia. A questa casa si accedeva salendo un’antica scala di legno esterna chiamata “scala matta” oppure “scala delle pantegane”, o ancora “scala turca”. La signora Bora Levi mi dava un confetto. una tazza di cioccolata bollente e densa, e due biscotti senza sale. che non mi piacevano. Poi lei e la nonna, immancabilmente, si sedevano e giocavano a carte, sorridendo e sussurrando frasi per me incomprensibili. E così, a me non restava che passare minuziosamente in rassegna tutti i cento medaglioni appesi alla parete di velluto rosso scuro, che mi osservavano dai loro ovali di vetro. Dico che mi osservavano, perché questi medaglioni racchiudevano vecchi ritratti di severi signori in uniformi asburgiche o di rabbini con treccine nere e feltri a larghe tese. E tutti sembravano fissarmi con un’insistenza che certo sconfinava nell’indiscrezione. Un po’ imbarazzato andavo alla finestra della cucina e guardavo giù in un campiello erboso con una vera da pozzo coperta di edera. Quel campiello ha un nome: Corte Sconta detta Arcana. Per entrarvi si dovevano aprire sette porte, ognuna delle quale aveva inciso il nome di un shed, ossia di un demonio della casta dei Shedim, generata da Adamo durante la sua separazione da Eva, dopo l’atto di disubbidienza . Ogni porta si apriva con una parola magica, che era poi il nome del demone stesso.
Li ricordo ancora quei nomi terribili: Sam Ha, Mawet, Ashmodai, Shibbetta, Ruah, Kardeyakos, Nà Amah.
Ricordo che un giorno la signora Bora Levi mi prese per mano e mi condusse nella Corte Sconta illuminando il cammino con un “menorah”, il candelabro a sette braccia, e ogni volta che apriva una porta soffiava su una candela. La corte era piena di sculture e graffiti: un re armato di arco e frecce, a cavallo di un dio; un neonato; una cacciatrice anch’essa con arco e frecce; una vacca con un occhio solo; una stella a sei punte; un cerchio tracciato nei suo1o con lo scopo di far ballare una ragazza nuda; i nomi degli angeli caduti o veleni di Dio, Samael, Satael, Amabiel. La signora ebrea mi parlava di tutte quelle cose, rispondendo alle mie domande. Poi apriva una porta sul fondo della corte e mi faceva passare in una calle con le erbe alte, che conduceva in un altro campiello bellissimo e che molto più tardi ritrovai uguale e pieno di fiori in una casa della Juderia di Cordoba.
Ricordo che nella Corte Sconta c’era una signora molto bella, sempre circondata da bambini e fanciulle che giocavano attorno a una farfalla gigante di vetri colorati. Era Aurelia, la farfalla gnostica.
La gnosi rappresentando se stessa come fonte inesauribile di sapienza e offrendo, in mille riflessi di vari colori, quello che ognuno desidera..."

(Hugo Pratt)
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“Vustu che mi te insegna a navegar?
Vate a far una barca o una batela,
Co ti l’a fata, butila in mar,
La te condurà a Venezia bela”.
Così recita una delle delicate Villotte Veneziane. Pratt, invece, ha fatto in qualche modo il percorso inverso. Dopo l’infanzia veneziana ha girato il mondo e la sua barca l’ha condotto lontano, dall’Africa al Sud America.
Questo tuttavia non lo ha snaturato: una volta imparato “a navegar” a Venezia, è stato ben capace di solcare tutti i mari, ovunque riscoprendo – in un angolo, in un’atmosfera, in un personaggio – Venezia,
e a Venezia poi ritrovando luoghi, colori, sensazioni dei più sperduti posti del globo.
Sì, un viaggiatore incantato. E di tanta sua meraviglia ci ha fatto partecipi. Quanti tramonti esotici, quanti inseguimenti, quante avventure abbiamo vissuto insieme a Corto Maltese!
Umberto Eco ha definito Pratt “il Salgari dei nostri tempi”, ma se Sandokan è l’eroe perfetto, Corto è l’uomo del nostro tempo, è Ulisse nel cuore e nella mente. E infatti, quale altro aggettivo meglio si adatta a Corto se non il “politropos” che Omero straordinariamente scelse per il re di Itaca?
Amava dire Pratt: “Mi diverte essere inutile”. Era una sfida, uno sberleffo contro chi si ostinava a non capirlo e a non coglierne la grandezza d’artista. Ma era anche la semplice verità.
Certo che si divertiva, perché lui sapeva “andare in altre direzioni”, uscire dal gregge, prendere il largo. E certamente era inutila, perché non si faceva usare.
Era inutile come i racconti d’avventura, inutile come i sogni, come la dolce trasgressione.
Inutile… o no?

(Massimo Cacciari)

lunedì 12 aprile 2010

Josif Brodskji, il poeta russo che amò Venezia

In America sul comodino degli alberghi, si trova una copia della Bibbia. Da qualche anno, in quelli più importanti, anche un libro di Josif Brodskji, un uomo convinto che la poesia come le automobili, può portare lontano, perché è uno straordinario acceleratore mentale, e il poeta è l’animale più sano, l’unico che riesca a fondere il mondo razionale con il mondo intuitivo.

Josif Brodskji nasce a S. Pietroburgo il 24 maggio del 1940. Il padre Alexandr era ufficiale della Marina sovietica con la passione per la fotografia. Una passione che diventò un mestiere-ripiego, quando, a causa dell’origine ebraica, sopraggiunse il prepensionamento, perché l’antisemitismo stava diventando dottrina di stato. La madre Maria Volpert, durante la guerra lavorò come traduttrice nei campi di lavoro per prigionieri tedeschi, e finì per fare la contabile.

Esordì nel 1958 pubblicando alcune poesie in una rivista clandestina; venne subito riconosciuto come uno dei poeti di maggior talento della sua generazione e ricevette il sostegno della poetessa Anna Achmatova, che gli dedicò una delle sue raccolte (1963).
Fu denunciato per la prima volta da un giornale di Leningrado, che attaccò i suoi lavori come pornografici e antisovietici.
Nel 1964 fu arrestato con l'accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell'opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo diciotto mesi, tornò a vivere a Leningrado, dedicandosi soprattutto alla traduzione di poeti inglesi.
Nel frattempo venne pubblicata a New York, nel 1970, la sua raccolta di versi Fermata nel deserto, che confermò il suo straordinario estro poetico.
Nel 1972 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare e si stabilì negli Stati Uniti, dove tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982).
Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura.

A dare il ritmo al suo destino saranno S. Pietroburgo e quel quotidiano fatto di diversità consapevole, coltivata dalla sua famiglia, in un Paese in cui la regola era essere uguali. Una città sospesa, lontana, affollata d’odori, ricordi, densa di personaggi letterari, e mai dimenticata, ritrovata in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascerà la descrizione in Fondamenta degli Incurabili (1989), attraverso un inimitabile gioco di specchi.

È quella città, insieme con una capacità di raccogliere tutto quello che si sospendeva sulla retina, ad averlo reso grande. Sia la fotografia sia la poesia colgono frammenti di vissuto, ma se la prima coglie l’attimo, la superficie, la seconda guarda all’eterno.

Ogni anno in prossimità delle feste natalizie, Josif Brodskji si recava a Venezia. Riteneva che fosse l’unico periodo possibile per viverla. La nebbia, i colori smorzati, il suono dell’acqua, non erano disturbati dallo sciame di turisti e permettevano all’occhio di studiare il mondo esteriore, perché le basse temperature erano il clima ideale per rendere omaggio alla sua bellezza. E poi la nebbia consentiva di dimenticarsi di sé, in una città che aveva smesso di farsi vedere. Del resto per lui le stagioni erano delle metafore, e l’inverno da qualsiasi continente si veda è un po’ antartico.

L’acqua è il luogo dove il tempo fisico e quello metafisico si fondono. L’elemento che mette in discussione il principio d’orizzontalità, che rivela la profonda solitudine di ogni essere umano, la sua precarietà, trasformando anche i piedi in organo dei sensi. E se l’acqua è uguale al tempo, Venezia che dall’acqua è toccata, non fa altro che migliorare, abbellire il tempo, restando uguale a se stessa.

Per Brodskji, annusare Venezia è come toccare la propria essenza dispersa, entrare nel proprio autoritratto. Essere felice. Una felicità legata all’equilibrio sensoriale, l’unica che avrebbe potuto accettare.

Basterebbe questo per fare di Fondamenta degli incurabili, un libro da custodire gelosamente perché l’acqua, oltre alla città e ai sensi, sono i protagonisti assoluti:
“Acqua è uguale a Tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua,  serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’Universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro, mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama.”

Morì nel proprio appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore nel 1996.
Per sua volontà è stato sepolto nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia.

« Giudice: Qual è la tua professione?,
Brodskij: Traduttore e poeta.
Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano? »
(Atti del processo del 1964)


Fonti: Italia Libri, Adelphi, Wikipedia

venerdì 9 aprile 2010

Giuseppe Tassini, il veneziano 'curioso'

"Fuvvi tempo in cui curiosità ci spinse ad indagare l'origine delle denominazioni stradali di Venezia". Così iniziava il Tassini la prefazione della prima edizione del suo libro Curiosità Veneziane (1863).
Giuseppe Tassini nacque il 12 novembre 1827 in una famiglia della borghesia veneziana. Suo nonno era vissuto molti anni a Costantinopoli come Ambasciatore della Serenissima presso la Sublime Porta. Suo padre, nato a Costantinopoli, fu ufficiale nella Veneta Marina Austriaca e sposò la figlia di un colonnello dell'esercito austriaco. Soleva infatti dire:"Nato da padre turco e madre tedesca non posso esser che strambo!".
La sua gioventù fu piuttosto disordinata: avviato agli studi giuridici a Padova, li aveva trascurati ostentatamente per darsi alla bella vita. Ma nel 1858 la morte del padre sembra scuoterlo dalla sua indolenza e riprende gli studi. A quasi trentatre anni consegue la laurea e di lì a poco comincia ad interessarsi al tema che lo accompagnerà fino alla fine: gli studi su Venezia e sulla sua storia.
Egli fu autore di diversi saggi relativi alla storia di Venezia, scritti elaborati con un'angolazione particolare, per mettere in evidenza adettoti e curiosità, storie minime, che hanno appassionato generazioni di lettori.
Ne ricordiamo solo alcuni:
- Curiosità Veneziane
- Veronica Franco, celebre letterata e meretrice veneziana
- Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite a Venezia
    
Insolite furono le sue opere, ma anche la sua vita. Uomo solitario, viveva tra carte d'archivio e di biblioteca, ma diversamente da molti altri studiosi, non si cibava di sola cultura, ma era un gran mangiatore e un ottimo bevitore, come la sua stazza stava a testimoniare.
Amava le donne, e poiché era scettico, cinico forse, non chiedeva loro più di quello che egli stesso loro desse di sé: qualche ora d'oblio, nella soddisfazione dei sensi. Egli aveva bandito dalla sua vita ogni ingombro sentimentale, non credeva all'amore, né a nessun'altra astrazione di sentimento umano. E si studiava di aver il minor numero possibile di padroni del suo destino. Contava i suoi amici tra gli eruditi e i cultori degli studi veneziani, ma all'infuori degli incontri al caffè non manteneva relazioni con chicchessia. E nulla chiedeva a nessuno. Studiava per suo piacere, per soddisfare la sua curiosità, e scriveva per naturale inclinazione.

Probabilmente furono i suoi eccessi nel bere e nel mangiare a portarlo alla morte, per colpo apoplettico, nel 1899, nella sua casa presso il sotoportego delle Cariole, non lontano da San Zulian (nel 1988 il Comune di Venezia vi fece apporre una targa in sua memoria), dove lo trovò disteso a terra il cameriere che era solito portargli il caffè tutte le mattine.
Giuseppe Tassini non fu uno storico, fu un amabile, talvolta sornione, rievocatore della vita di un tempo, di azioni nobili e meschine, eroiche e vili, turpi e virtuose in una città singolarissima che, per chi non solo l'ama come spettacolo, ma la vuol vivere come avventura, come esperienza, ha nei suoi scritti un'introduzione impareggiabile
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mercoledì 7 aprile 2010

Venezia, le opere in vetro di Tristano di Robilant

Sara' inaugurata venerdi' presso il Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume di Palazzo Mocenigo la mostra "Tristano di Robilant: otto sculture in vetro" che propone opere realizzate a Murano dall'artista londinese di origini veneziane.
  Allestita nel portego al primo piano del Museo, la mostra - a cura di Alessandra Landi - rappresenta un omaggio a Venezia e un intenso dialogo tra allestimento, arti applicate, scultura, tradizione del materiale e nuove sperimentazioni nella lavorazione.
  L'opera di Tristano di Robilant, specialmente in questa occasione, si riallaccia all'aurea veneziana tramite il vetro e l'evocazione di temi secolari. Il colore ambra, utilizzato per varie sculture, e alcune punte di rosso dogale, richiamano le icone bizantine sia per l'intensita' coloristica, che per la forte carica spirituale, accentuata nei momenti in cui i caldi raggi crepuscolari accarezzano le superfici. Anche la purezza, data dalla trasparenza del vetro, ricorda l'elemento principe di Venezia: l'acqua.
Le linee, quasi sempre sinuose, giocano con i diversi pezzi delle sculture che oscillano tra un incerto equilibrio e una sicura fermezza della parte piu' esterna.

Fonte: AGI

Il Cronovisore

Tutti sappiamo che la Fondazione Giorgio Cini possiede un' importante biblioteca, ma pochi sanno che è anche sede dell’unico istituto esistente al mondo di Prepolifonia, cioè di musica antica anteriore alla notazione, istituito nel 1963 a affidato a Padre Pellegrino Ernetti.
Costui avrebbe inventato negli anni '50 il “Cronovisore” (macchina che permette di vedere il passato) insieme ad Agostino Gemelli dell’Università Cattolica di Milano e ad Enrico Fermi, ma ne parlò per la prima volta solo negli anni '70, affermando che con il suo cronovisore aveva potuto vedere diversi fatti avvenuti nel passato tra cui anche la crocifissione di Gesù.
Il Vaticano chiamò il frate benedettino per avere chiarimenti, e una volta tornato a casa Padre Ernetti non ne parlò mai più.
Tutto sembrava finito lì, fino al 2002 (8 anni dopo la morte di Ernetti), quando padre Francois Brune pubblicò il libro “Un nuovo mistero del Vaticano” dove dimostrò con dovizia di particolari, indicando nomi, date e circostanze precise, che il cronovisore esiste davvero e che è nascosto in Vaticano, o forse nell'isola di San Giorgio Maggiore a Venezia...

venerdì 2 aprile 2010

Aldo Manuzio e l'arte della tipografia nel Rinascimento

Aldo Manuzio (Velletri 1449 - Venezia 1515) è considerato il più importante tipografo del Rinascimento nonché il primo editore in senso moderno.
Giunto a Venezia intorno al 1490 aprì la sua tipografia a Sant'Agostin, e il suo logo (qui a fianco) rappresentava un'ancora e un delfino, con il motto 'festina lente' cioè 'affrettati con calma'. La sua ambizione era preservare la letteratura greca e latina dall'oblio, diffondendone i capolavori in edizioni stampate.
In tutto Manuzio stampò circa 130 opere, in greco, in latino e in volgare, fra le quali anche opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, a Catullo, a Virgilio, a Ovidio, a Omero e molti altri.
Ma il suo vero capolavoro fu l' Hypnerotomachia Poliphili, sogno di qualunque bibliofilo, pubblicato nel 1499 e corredato di 170 splendide xilografie (una copia è conservata alla Biblioteca Marciana).
Manuzio è ricordato anche per la creazione del carattere corsivo, detto anche 'italico', e per l'utilizzo della stampa 'in ottavo' che rese i libri, per la prima volta, maneggevoli, leggeri e quindi facilmente trasportabili.
Fondò, inoltre, l'Accademia Aldina insieme a Pietro Bembo, il cui intento era di dare impulso allo studio dei classici greci in Italia ed in Europa.
L'arte del Manuzio ebbe così vasta eco anche grazie all'amore e all'interesse che i veneziani sempre dimostrarono per i libri. Per darne un'idea: nel Cinquecento in città si contavano circa 200 tipografie, più di quante ne avevano Parigi e Lione insieme (Firenze ne aveva 22, Roma 37). Il libro veneziano inoltre era particolarmente apprezzato per la qualità della stampa e la rilegatura raffinata quanto durevole, tanto che quando un libro si presentava di particolare pregio si diceva 'legato alla veneziana'


mercoledì 31 marzo 2010

Diego Valeri: Guida sentimentale di Venezia


Sono davvero tanti i libri su Venezia che ho letto, ma solo alcuni mi sono rimasti davvero nel cuore.
Uno di questi è: "Guida sentimentale di Venezia" di Diego Valeri (1887-1976).
Diego Valeri è stato uno dei protagonisti della poesia italiana del Novecento, e in questa guida ci invita alla conoscenza della più magica delle nostre città: non un colto Baedeker per turisti alla ricerca dei monumenti e luoghi obbligati dalla tradizione, ma una vera e propria 'educazione sentimentale' a "quell'insolubile enigma che si rinserra nel cuore di Venezia".

Riporto qui alcuni significativi stralci:

"Quei nostri santi padri che, mille e più anni fa, posero mano alla costruzione di questa macchina straordinaria dovevano pur avere, insieme ad una enorme provvista di testarda volontà, un grano di generosa pazzia"

"Città sempre un poco strana e segreta, anche a chi l'abbia in antica consuetudine; che non si lascia comprendere intera neppure da chi ne abbia la labirintica topografia stampata nella testa e sotto la pianta dei piedi"

"Se si continua a scrivere di Venezia non è, dunque, perché si speri 'sua laude finire', ma soltanto per 'isfogar la mente'. Così diceva Dante di Beatrice, così diciamo noi di questo nostro amore in forma di città."

'Guida sentimentale di Venezia' Diego Valeri (Passigli Editori)

lunedì 29 marzo 2010

Venezia, nuove esposizioni a Palazzo Fortuny

Dal 27 marzo al 18 luglio 2010, Palazzo Fortuny ospita tre nuove mostre estremamente interessanti.

Al pianoterra: "Città delle città", installazione di Francesco Candeloro, articolata in una serie di grandi opere,
in cui i temi dell'architettura, della città e dell'ambiente si legano a fotografia, scultura e segno, craendo un percorso-labirinto.

Al primo piano: "Mariano Fortuny, la seta e il velluto", presenta una straordinaria serie di rari Delphos,
i leggendari abiti plissé di Fortuny, e cappe, mantelli, costumi e accessori provenienti da collezioni private.

Al secondo piano: "Samurai", ovvero l'eccezionale nucleo di armature, elmi ed accessori della collezione Koelliker di Milano; di particolare significato l'assonanza con le scelte collezionistiche di Fortuny che includevano armi antiche orientali e una particolare attenzione al gusto e all'arte giapponese.

Ma chi era Mariano Fortuny y Mandrazo?
Fortuny giunge a Venezia, a fine 1800, con la madre e la sorella da Granada, e occupa la soffitta di Palazzo Pesaro degli Orfei (capolavoro gotico del '400). Artista eclettico (oggi diremmo "globale"), Mariano si interessa di pittura, fotografia, scenografia teatrale, illuminazione e design di tessuti. In breve tempo diventa celebre per i suoi abiti che vengono apprezzati da personaggi di fama come Eleonora Duse (la grande attrice drammatica, famosa anche per la sua storia d'amore con D'Annunzio) e Isadora Duncan (la ballerina che ha inventato la danza moderna).
Possiamo ben dire che Fortuny è il primo disegnatore di moda, il primo vero "stilista" della storia moderna.
In poco tempo Mariano acquistò tutto il palazzo tasformandolo nella sua casa-laboratorio, e nel 1919 apre sull'isola della Giudecca un'officina per la produzione in serie delle sue stoffe da decorazione.
Da ricordare il fatto che ebbe anche l'onore di essere nominato, col suo vero nome, da Proust nel libro "Alla ricerca del tempo perduto"
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mercoledì 24 marzo 2010

E’ ancora possibile “scoprire” Venezia?

Forse è la città più fotografata al mondo, innumerevoli i libri a lei dedicati, per non parlare dei set cinematografici che ancora oggi ne utilizzano le meravigliose, e uniche al mondo, quinte scenografiche, ma quante persone possono dire di averla "vista" veramente?
Al di là degli sterotipi, fuori dai luoghi comuni e dai soliti percorsi, oltre a Piazza San Marco, il Ponte dei Sospiri e il Ponte di Rialto, cosa si conosce davvero di questa città anfibia? Poco, davvero poco.
Perché anche chi si avventura fuori dagli itinerari battuti dal turismo di massa, non sa dove andare né cosa cercare, e quando lo sa, si perde inghiottito dal labirinto apparentemente senza senso delle sue calli.
E anche quando riesce a scovare un tesoro nascosto o un suggestivo campiello, le pietre lo guardano mute, seppur trasudanti di storie, di fiabe e di leggende, giacché non c'è chi può tradurre per loro quella poesia solidificatasi nei secoli.
Almeno fino a ieri. Perché da oggi un uomo innamorato di questa città ha deciso di condividere la sua profonda conoscenza di Venezia, della sua storia, delle sue leggende e delle sue fiabe, creando un servizio di visita davvero diverso dal solito.
Lontano dal fiume dei turisti, che frenati dalla paura di perdersi percorrono sempre i soliti tragitti, questo codega (così si fa chiamare e presto spiegheremo il perché) accompagna le persone curiose di scoprire l'anima nascosta, gli aneddoti legati alla vita quotidiana passata e presente, i segreti e le magie di questa città millenaria.
In passato, prima dell'illuminazione pubblica, la città era molto buia di notte; nacque così una nuova professione: delle persone sostavano per le vie munite di lanterna a mano e, dietro ricompensa, accompagnavano i passanti verso la loro destinazione. Erano i còdega.
Ispirandosi e riallacciandosi quindi a questa figura storica, arricchendo le passeggiate di spiegazioni, aneddoti e racconti, e fornendo, perché no, preziosi consigli culinari, oggi è possibile finalmente scoprire una Venezia diversa, o come il nostro codega moderno l'ha voluta chiamare: "L'altra Venezia", quella che non trovate sulle guide turistiche.

Per informazioni e prenotazioni: info@laltravenezia.it