martedì 13 ottobre 2015

La Venexiana

A Venezia verso il 1536 in un circolo privato si rappresenta una commedia intitolata La Venexiana, che non vuol dire “la donna di Venezia” (i personaggi principali sono due donne veneziane), bensì “la commedia ambientata a Venezia” (come La Cortigiana di Pietro Aretino non vuol dire “la meretrice d'alto bordo” o “la donna di palazzo”, bensì “la commedia ambientata a corte”). 
 
Non si sa chi sia l'autore (o l'autrice).
E' certo che è stata scritta espressamente per la rappresentazione teatrale.
Viene rappresentata una volta sola, per un pubblico esclusivamente maschile.
Gli attori sono tutti uomini.

Due donne, Anzola (Angela) e Valiera (Valeria) si contendono l'amore di un giovane soldato di ventura lombardo, Giulio, venuto a Venezia a cercar fortuna. Anzola è vedova da poco. Valiera, più giovane, è sposata ad un vecchio. Entrambe hanno una serva. Parlano tutte in veneziano, Giulio parla un italiano lezioso. Un facchino parla bergamasco.
Le due donne stanno in due case vicine a quello che ancora oggi si chiama campo San Barnaba. Ci sono altre precisazioni topografiche: San Marco, Rialto, calle di Gallipoli che dà sul campo dei Frari.
Si è potuto precisare che le due donne sono di due rami della famiglia Valier. Anzola è vedova di un Marco Barbarigo, capo del Consiglio dei Dieci, Valiera ha sposato un Giacomo Semitecolo, “Avogador di Comun” (all'Avvocatura di Stato competono tra l'altro i delitti d'onore e gli adulteri). Valiera ha una sorella, Laura, sposata ad un Berbarigo, cognata quindi di Anzola.
Queste minuzie contribuiscono al colore locale e ci aiutano a capire che la commedia ha un tono diffamatorio, piccatamente libellistico, nel gusto di Pietro Aretino (che è arrivato a Venezia nel 1527, e in questo anno 1536 è ben vivo – morirà qui nel 1556). 
 
La sensualità delle due donne, che dà nel torbido, è a metà strada tra l'eleganza di Leonardo Giustinian e gli eccessi di Maffio Venier. 
 
E' facile dire che La Veneixiana è la più bella commedia d'area veneta del Cinquecento. I confronti con le commedie di Pietro Aretino e di Angelo Beolco sono appropriati. Si può anche dire che La Veneixiana è la più bella commedia italiana del Cinquecento, ma prima di far graduatorie su scale di merito è opportuno sentire su scala geografica la lontananza delle aree in cui nascono le commedie ferraresi di Ludovico Ariosto e le commedie fiorentine di Niccolò Macchiavelli.

La Veneixiana, dopo la sua prima e unica rappresentazione cinquecentesca, viene poi dimenticata, e riscoperta e pubblicata solo nel 1928.
Gli studi hanno fatto notevoli progressi negli ultimi decenni, eppure, o forse proprio per questo, si resta col sospetto che nell'area veneziana ci sia ancora da scavare e da scoprire, e che sia opportuno vederla come un'area lontana da altre, più ricca di altre, da considerare in una prospettiva di maggior autonomia letteraria.

domenica 30 agosto 2015

Viaggio a Venezia, 1914

Les valises dans la gondole, 
qu'elle prenait la main de son mari : Tu as eu raison, dit-elle. 

On en peut varier a l'infini l'occasion, 
le vertige spontané qui saisit le voyageur 
débarquant à Venise reste toujours de cette qualité-là. 
Instantanément tout a disparu. 
Plus de souvenirs, plus de soucis, plus rien de la vie qui s'interpose. 
L'ivresse est immédiate, totale et profonde. 
On est pris, entraîné, arraché à la terre, enlevé sur des 
ailes — on a soi-même des ailes ; les coussins si doux de la gondole 
semblent des nuages sur lesquels on repose. 
Demain? Nous verrons bien, il sera temps encore. 
Mais soyons heureux, grisons-nous, glissons comme on court dans les rêves, 
balançons-nous dans la souple barque noire comme on se berce au son des valses. 
Et les palais défilent le long du canal, ainsi qu'au théâtre la toile roulée, 
et qui simule un paysage traversé par un héros en marche. 
Un monde irréel s'offre à nous ; pour la première fois, l'impossible est arrivé. 
Tendons les mains pour le saisir! 
Et il ne s'enfuit pas, il ne s'évanouit pas en fumée ; notre étreinte le serre ; 
nous le tenons, le touchons, le caressons, il est à nous enfin.  
 
(André Maurel)
 
 
 
Le valigie in gondola, lei prese la mano del marito:
- Avevi ragione, disse.

Si può cambiare l'occasione all'infinito, ma la vertigine spontanea 
che coglie il viaggiatore quando sbarca a Venezia, rimane di questa qualità. 
Immediatamente tutto scompare. 
Niente ricordi, niente preoccupazioni, 
nulla della vita che si interpone. 
L'ubriachezza è immediata, totale e profonda. 
Si è catturati, trascinati, strappati dalla terra, sollevati da ali 
- abbiamo in noi stessi le ali;  i cuscini morbidi della gondola 
sembrano nubi su cui riposare. Domani? Vedremo, ci sarà tempo. 
Ma cerchiamo di essere felici, noi così grigi, scivolando 
come si corre nei sogni, ondeggiando nella morbida barca nera 
come cullandosi a suon di valzer. 
E i palazzi che sfilano lungo il canale, come una tappezzeria teatrale 
che simula un paesaggio attraversato da un eroe in cammino. 
Un mondo irreale si offre a noi; per la prima volta, 
l'impossibile è accaduto.
Tendiamo le mani per afferrarlo! Non fugge, non svanisce come fumo, 
il nostro abbraccio lo trattiene; lo tocchiamo, lo accarezziamo, 
finalmente è nostro.
 
("Quindici giorni a Venezia", André Maurel)
 

venerdì 24 luglio 2015

La voga alla veneta

Ci fa obbligo soffermarci, seppur brevemente, per sottolineare la nobiltà della voga alla veneta, che si differenzia da quella praticata in tutte le altre città di mare del mondo.
Già la posizione eretta e non seduta conferisce un'immagine di fierezza sconosciuta nelle altre realtà marine.
Se poi consideriamo la gondola, imbarcazione che incarna perfettamente questo concetto, non troviamo nessun natante che le si possa solo avvicinare per sviluppo tecnologico. Tredici essenze di legno diverse concorrono alla realizzazioni di questa magnifica barca, lunga circa 11 metri e costruita con forma asimmetrica per consentire una perfetta manovrabilità anche governandola da soli.
Prendiamo le forcole, gli scalmi dei nostri remi, sembrano meravigliose sculture che non trovano nessun paragone nelle altre culture marine.

Si può ben dire che la potenza della Serenissima si fondasse oltre che su uno spregiudicato spirito mercantile, sulle braccia delle su genti che, non bisogna dimenticarlo, fino al sedicesimo secolo vogavano nelle galee per libera scelta.
Potenti braccia avevano i nostri isolani che trasportavano le varie merci da una parte all'altra della laguna spingendo sui remi delle loro barche.

Chissà se erano giunte in città notizie circa Camus de Lorraine, geniale meccanico che costruiva automi per il re di Francia e che, nel primo Settecento, nel porto di Tolosa, sperimentò un gigantesco remo meccanico in grado di muovere grandi battelli in condizioni di acque calme. Nonostante il buon esito non fu incoraggiato dal suo sovrano e finì in miseria ramingo per l'Europa.
Non passò da Venezia, forse temeva di fare una brutta fine nella mani dei gondolieri!
Questi esosi rematori restituiscono l'incanto dell'esser trasportati per il canali della città accompagnati dallo sciabordio del remo.

Ci si domanda se, come era in uso in tutte le grandi città d'Europa per i portantini e i codega nel XVII secolo, anche i gondolieri portassero alla cintura la clessidra per valutare le proprie prestazioni.
Oggi, nella motorizzazione generale, oltre ai gondolieri, restano gruppi di appassionati che si raccolgono nelle associazioni sportive remiere, dove è anche possibile prendere lezioni di voga veneta, perpetuando quindi una tradizione millenaria.



(Fonte: Navigar in laguna. Fuga e Vianello. Edito da Mare di Carta)

venerdì 19 giugno 2015

Venezia è una regata

Ho fantasticato molto leggendo il libro “Venezia è una regata”. Ho fantasticato in lungo e in largo nello spazio: ho immaginato di tracciare dentro e intorno a Venezia, tutti i percorsi delle innumerevoli regate, e li ho immaginati simultaneamente, decine e decine di linee in movimento, tracciati, flussi, come una specie di circolazione sanguigna che solca l'organismo in cui la città è immersa, irrorando e ossigenando la sua vita.
Le regate sono simboli attivi, una pratica necessaria tanto quanto la manutenzione urbana, il restauro degli edifici, lo scavo del fondale fangoso dei rii. Le regate svolgono un compito di manutenzione della comunità, di tutte le comunità sparse fra il centro e le isole della laguna.
L'esperienza della voga veneta non ha molti eguali. E' difficile da confrontare con qualcos'altro. Apparentemente si potrebbe paragonare alla bicicletta, in fin dei conti, anche in quel caso il pilota è allo stesso tempo il carico e il motore del mezzo di trasporto. Ma in barca, vogando alla veneta, si sta in piedi, si avanza da fermi a forza di braccia. Le gambe non camminano, non pedalano, Danno anche loro una spinta, sì, ma puntellandosi senza fare un passo. Sono le braccia a far muovere tutto, e in avanti, non all'indietro come nella voga all'inglese. Ci si getta in avanti con le mani e le braccia, quasi abbozzando la fase iniziale di un tuffo.
Vogando all'inglese, la forza motrice corporea si ottiene raccogliendo le braccia al torace, richiamandole a sé. Nella voga alla veneziana si fa il contrario, si allontanano le braccia, via, con tutta la forza. E' un doppio pugno sferrato al mondo che ottiene l'effetto di attraversarlo scorrendoci sopra.
E' un gesto fossile, che viene da epoche lontane, ma che è ancora vivo e in buona salute.
Una necessità quotidiana che trovava e continua a trovare nella regata la sua festa, la sua forma assoluta, il suo fasto svincolato da scopi pratici ancora in vigore, come traghettare passeggeri da una riva all'altra del Canal Grande o portare in giro i turisti.

(dalla prefazione di Tiziano Scarpa – libro edito da San Marco Press Ltd e Supernova edizioni srl)

domenica 26 aprile 2015

Pietro Aretino, il cortigiano letterato nella Venezia del Cinquecento

Arriva a Roma nel 1517 un uomo di venticinque anni, nato ad Arezzo. Non s'è mai saputo il nome del padre e non ci ha mai tenuto neanche lui a saperlo. L'han battezzato Pietro, e si fa chiamare Aretino dal nome della città natale. Passa l'adolescenza a Perugia, dove probabilmente fa buoni studi, ma non studi latini. Un letterato italiano che non sa il latino. Digiuno di educazione umanistica.

Fa il pittore, poi smette. Comincia a scrivere, poi smette.
A Roma non trova un protettore, cerca di farsi largo scrivendo cose varie: conquista una buona notorietà scrivendo delle pasquinate tra il 1521 e il 1522.
Le pasquinate dell'Aretino sono eccellenti, perché l'Aretino ha grandi doti di scrittore satirico; ma solo a Roma si ha questa occasione di scrivere cose da appiccicare alla statua di Pasquino.
Con il nuovo papa Adriano VI, l'Aretino non sente tirare aria buona e se ne va in giro tra Bologna, Arezzo, Firenze, Mantova, Reggio nell'Emilia; ora comincia ad avere dei protettori: il cardinale Giulio de' Medici, il capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere.
Torna a Roma nel 1523. Comincia ad essere sulla trentina e fa un passo avanti: dopo le pasquinate che gli avevano dato i primi successi, si butta sul filone erotico.
L'erotismo, nella letteratura italiana di questi anni, non è merce né rara né clandestina. Ma Pietro Aretino fa qualcosa di più, come chi faccia fumetti o fotoromanzi anziché racconti: parte da una base di erotismo figurativo. Scrive sedici sonetti a commento di sedici incisioni che Marcantonio Raimondi ha cavato da sedici figure di Giulio Romano. Suoi coetanei, suoi amici.
Questi sonetti sono noti con il titolo di Sonetti lussuriosi o Le Posizioni o I Modi. Il secondo titolo fa capire che costituiscono un piccolo Kama-sutra.
Sapete tutti che il Kama-sutra (“aforismi sull'amore”) è un trattato scritto in sanscrito fra il IV e il VII secolo dc, attribuito a Vatsyayana, e rientra nella letteratura religiosa indiana facendo del Kama, amore fisico, uno dei tre fini dell'esistenza.
Mentre del Kama-sutra tutti parlano tranquillamente, c'è ancora qualcuno che parla con qualche imbarazzo dei Modi dell'Aretino. Forse gli fa senso che siano scritti nella sua lingua materna. Alcuni libri di Storia della letteratura italiana non fanno menzione di questa opera di Pietro Aretino.
Chi vuol seguire il filone erotico nella storia della letteratura italiana trova i Modi dell'Aretino un poco freddi in confronto a certe poesie di Maffio Venier (Venezia, 1550 – 1586) o del grande Giorgio Baffo (Venezia, 1694 – 1768).
Anche nella disinvolta Roma di questi anni, i Modi fanno comunque scandalo. Un vescovo lo fa accoltellare il 28 luglio 1525. Questo vescovo si chiama Gian Matteo Giberti (certi suoi scritti avranno peso sulle decisioni del Concilio di Trento).
Dello stesso anno è la prima redazione di una commedia, La Cortigiana, che Pietro Aretino completerà e stamperà solo in seguito. E' il rovescio degli ideali del Cortegiano di Baldassar Castiglione, che circola in questi anni, manoscritto.
Dunque Pietro Aretino non vola solo nei cieli astratti dell'erotismo, ma si impiglia anche in questioni ideologiche che toccano i fondamenti della società dell'epoca. Così le coltellate si spiegano un po' meglio.
Come nel 1517 aveva dovuto lasciare Roma per colpa delle pasquinate, così per colpa dei Modi e della Cortigiana e forse di qualcos'altro che non sappiamo, Pietro Aretino deve nuovamente lasciare Roma.
Arriva a Venezia nel marzo del 1527. Ha trentacinque anni. Si sistema bene, con la protezione di potenti patrizi e impianta una dinamica attività editoriale con vari stampatori, tra cui Francesco Marcolini (della cui moglie diventerà amante).
Questo Marcolini stampa anche libri musicali con tipi mobili secondo un sistema di sua invenzione.
Pietro Aretino per primo riconosce nella stampa uno strumento economico e politico, E' il primo manager dell'industria culturale.
Fa stampare opere proprie, scrive opere proprie in funzione della loro pubblicazione a stampa, e scrive cose diverse a seconda dei momenti, cercando di indovinare i gusti del pubblico e tenendo conto dell'aria che tira a livello politico.
Le cose che scrive Pietro Aretino vanno dalla letteratura erotica a quella religiosa o agiografica. Tocca tutte le forme: sonetti e versi vari, commedie, tragedie, poemi cavallereschi, dialoghi, lettere.
Per le lettere, inventa qualcosa di nuovo: raccoglie in volumi lettere che scrive e lettere che riceve, come un editorialista d'oggi. E' una corrispondenza che coinvolge tutti i personaggi illustri del suo tempo, papi, imperatori e re. Pietro Aretino definisce se stesso “segretario del mondo”. Ludovico Ariosto lo definisce “flagello dei principi”, perché sa adulare ma anche minacciare e ricattare personaggi come Francesco I e Carlo V.
Nel campo delle arti conosce tutti e intrattiene rapporti eccellenti con Tiziano, che gli fa un ritratto spettacoloso (agli Uffizi di Firenze). Pietro Aretino ha gusti precisi ed è bravissimo a descrivere opere d'arte. Bisognerà arrivare a Giovan Battista Marino (nel Seicento) per trovare cose simili, ma l'Aretino è più bravo.
La casa di Pietro Aretino a Venezia è un centro di potere. E' una casa bella, luminosa, allegra, piena di donne e di figli di Pietro Aretino e di amici fidati, che entrano ed escono, come entra ed esce, a fiumi, il denaro.
La casa sta sul Canal Grande, fra rio di San Grisostomo e rio dei Santi Apostoli; dalle finestre si vede il ponte di Rialto, non quello che vediamo noi oggi, che sarà costruito tra il 1588 e il 1592; ma quello in legno che si vede nel celebre dipinto di Vittore Carpaccio (alle Gallerie dell'Accademia).
Pietro Aretino, vede, quando si affaccia alla finestra:
mille persone e altrettante gondole su l'hora dei mercati. Le piazze del mio occhio dritto sono le beccarie e la pescaria, e il campo del mancino, il ponte e il fondaco dei Tedeschi, a l'incontro di tutti e due ho il Rialto, calcato d'huomini da faccende. Sonvi le vigne ne i burchi, le caccie e l'uccellagioni nelle botteghe, gli orti nello spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a l'alba miro l'acqua coperta d'ogni ragion di cosa, che si trova nelle sue stagioni.
Nel 1551 trasloca a Palazzo Dandolo, sempre sul Canal Grande (poco lontano da Palazzo Bembo, dove abita Pietro Bembo).
Il rio che bagna un lato della sua casa, vien detto “rio de l'Aretino” e le donne che transitano a casa sua, per piacere o per dovere, si fan chiamare “le Aretine”.
Secondo una leggenda a palazzo Dandolo Pietro Aretino tanto ride per una storia che gli son venuti a raccontare sulle sue sorelle, ospiti di un bordello di Arezzo, tanto e tanto ride che casca dalla seggiola e muore.



lunedì 16 febbraio 2015

San Marco, il leone alato e la Repubblica di Venezia

Il leone alato (con il libro, ma anche alle volte con un calamaio) è il simbolo dell'evangelista San Marco, patrono della Serenissima Repubblica di Venezia. 
I quattro evangelisti sono tutti accompagnati da un simbolo preciso: oltre al leone di San Marco, l'iconografia ricorda il toro di San Luca, l'angelo di Matteo e l'aquila di Giovanni.
L'origine di questi simboli è antichissima e sembra doversi trovare in un brano di Ezechiele (1, 5-14) con la visione di Dio in trono circondato da quattro esseri animati (tetramorfo). Nell'Apocalisse la visione è di Cristo in trono circondato da 24 vegliardi, ciascuno con un'arpa, da sette lampade di fuoco e dalle stesse quattro creature di Ezechiele che divengono poi i simboli degli evangelisti.
Nel Medioevo, gli esegeti trovarono anche la giustificazione dei simboli e precisarono che San Marco è rappresentato dal leone in quanto il suo Vangelo (il più breve) inizia con la voce maestosa di Giovanni Battista che "ruggisce" nel deserto "conforme a quanto sta scritto in Isaia profeta".
Avventurosa la vita di questo santo, compagno degli Apostoli, figlio di una Maria vedova, proprietario di una casa a Gerusalemme ove si rifugia Pietro uscito miracolosamente di prigione. Iniziato alla vita apostolica dal cugino Barnaba, Pietro lo considera come un figlio, mentre i rapporti con Paolo sono più difficili (e come dargli torto...).
Antiochia, Cipro, Roma sono alcune delle tappe dei viaggi di Marco, il quale avrebbe poi predicato in Alessandria d'Egitto dove sarebbe stato martirizzato al tempo di Traiano, col fuoco o forse trascinato per le vie con una fune legata al collo.
Intorno all'anno 828, Buono (tribuno di Malamocco e Rustico da Torcello (mercante) sbarcano, con altri compagni, in Egitto e trafugano il corpo di San Marco, già allora venerato dai cristiani in Oriente, sostituendolo nell'urna con quello della Beata Claudia. Per sfuggire ai controlli, la reliquia viene nascosta tra carni di maiale, considerata immonda dai Saraceni.
L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 829, San Marco viene accolto trionfalmente dal Doge e dai veneziani, e diviene il simbolo della nascente Repubblica, sostituendo San Teodoro di origine greca, anche in un empito di autonomia nei confronti dell'Impero d'Oriente.
Comincia subito la costruzione della basilica ad in essa viene posto il corpo di San Marco, forse nella cripta; poi ritrovato nel 1094 in un'urna dentro ad un pilastro. Davanti a questo pilastro è accesa una lampada perenne a ricordo dell'avvenimento. La scoperta del 1811, in epoca napoleonica, e la ricognizione del 1835, durante il dominio austriaco, completano la storia della reliquia che adesso è deposta sotto l'altare maggiore della basilica.
La leggenda narra che Marco, prima di recarsi ad Alessandria, sarebbe stato ad Aquileia (di cui alcuni lo vogliono vescovo). Partendo da questa località, si ferma nella laguna veneta per riposarsi (proprio dove oggi sorge la chiesa di San Francesco della Vigna, alle cui spalle ancora c'è una piccola cappella a ricordo dell'avvenimento, oggi trasformata in magazzino...). Durante la notte ivi trascorsa, gli appare un angelo che gli predice che in quelle isole vi sarebbero stati abitanti straordinari, a lui devoti, e che le sue ossa qui avrebbero trovato riposo, e lo saluta a nome di Cristo, con la celebre frase: "Pax tibi Marce evangelista meus". Sono appunto le parole che appaiono sul libro aperto del leone alato. L'esistenza della parola "pax" porta a chiudere il libro in caso di guerra.
San Marco è dagli storici spesso identificato nel Vangelo, al momento dell'arresto di Gesù, nel ragazzo che stava seguendolo "avvolto solo di un panno di lino. Tentarono di afferrarlo, ma lui, lasciato cadere il panno, se ne fuggi via nudo".






sabato 17 gennaio 2015

Ermolao Barbaro e la cultura pragmatica veneziana

Nel 1484, Ermolao Barbaro crea a Padova il primo orto botanico d'Italia.
Questo è solo un episodio nell'attività di un personaggio multiforme, attorno al quale di possono accennare i tratti salienti di una nuova cultura, con tendenze più scientifiche che letterarie, anzi, proprio pragmatiche e tecniche.
Il patriziato colto a Venezia non è un circolo accademico come nella Firenze medicea; o accademico-curiale come nella Roma pontificia; o cancelleresco-cortigiano come nella Milano viscontea-sforzesca o nella Napoli aragonese. E' invece un gruppo, attraverso le generazioni, di persone autorevoli, indipendenti moralmente e materialmente, che subordinano la loro attività di lettori e scrittori al servizio dello Stato, dedicando ai libri il tempo che risparmiano nell'attività politico-amministrativa e nelle missioni diplomatiche.
Ermolao Barbaro, figlio e nipote di personaggi di questo tipo, nasce a Venezia nel 1453, e fin da ragazzo intreccia ottimi studi a viaggi col padre, ambasciatore di Venezia a Napoli, a Milano e a Roma.
Entrato ben presto nelle massime magistrature di Venezia, è anche professore a Padova.
Coetaneo del Poliziano, ha con lui rapporti amichevoli e distesi, un poco più polemici ma di stima con Giovanni Pico della Mirandola.
Se a spanne, la cultura della Firenze medicea è “platonizzante”, Ermolao Barbaro studia piuttosto Aristotele e Plinio il Vecchio, e può considerarsi uno scienziato, un precursore del metodo sperimentale (almeno, tale lo considereranno Linneo e Leibniz).
Se si considera Ermolao Barbaro come un “umanista esclusivo” e si sfogliano certe sue opere piuttosto che altre, è impossibile rendersi conto della sua importanza; l'importanza stessa dell'intera cultura veneziana è difficile da cogliere in una prospettiva fiorentino-centrica come quella che la storia italiana ha ancora in gran parte al giorno d'oggi.
E' giusto sapere che sarà allievo di Ermolao Barbaro un certo Pietro Bembo.
Gli anni del Barbaro sono gli anni dei Bellini, di Carpaccio, di Giorgione,
Il quadro del Giorgione, I tre filosofi, mostra un giovane che dà le spalle a due gravi personaggi con barba e turbante (rappresentanti del pensiero greco ed arabo) e volge lo sguardo verso una grotta. Quel giovane è Ermolao Barbaro.



domenica 4 gennaio 2015

Ramusio e la nascita della geografia moderna

Nel 1439, Cosimo de' Medici il Vecchio riesce a manovrare affinché il concilio, iniziato a Ferrara, sia trasferito a Firenze. Cosimo sa che questo è essenziale per il prestigio suo e della sua città.
In quegli anni il papa Eugenio IV ha fissato la sede papale in Firenze.
Col concilio giunge a Firenze la schiuma della terra, potremmo fare molti nomi, che danno suoni più o meno altisonanti, per esempio il cardinale Bessarione e Giorgio Gemisto Pletòne: uomini dottissimi che da Costantinopoli portano sangue fresco nelle vene degli umanisti, avidi di aggiungere la conoscenza del greco a quella del latino.
Firenze (assieme a Venezia) è terra più grecizzante d'altre, fin dai tempi del Crisolòra.
Cosimo il Vecchio crede anche al greco come elemento di prestigio, e approfitta dell'occasione per porre le basi di una Accademia Platonica con interessi filosofici, della quale sarà gran capo, negli anni seguenti, Marsilio Ficino.
Mentre Cosimo il Vecchio pensa al prestigio che gli può venire dal concilio, dalla letteratura greca e dalla filosofia, altri vedono il mondo con colori diversi e pensano per esempio alla geografia.
Ci son persone di diversa, non minore intelligenza, a Firenze in quegli anni, che pensano alla geografia. Uno è Paolo Dal Pozzo Toscanelli, amico di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti.
Vien costretto ad occuparsi di geografia anche Poggio Bracciolini. Per ordine del papa Eugenio IV deve frequentare un mercante veneziano, Niccolò dei Conti.
Questo Niccolò dei Conti è nato verso la fine del Trecento e morirà, forse a Chioggia, nel 1469.
E' partito da Damasco in Siria nel 1414 per un viaggio commerciale in Oriente durato ventitré anni. Ventiquattro anni era durato il viaggio di Marco Polo.
A differenza di Marco Polo, Niccolò dei Conti ha ritenuto utile farsi musulmano, e viene qui a Firenze nell'anno 1439, per farsi perdonare dal papa. Il papa gli concede il perdono a patto che racconti a Poggio Bracciolini la storia del suo viaggio in Oriente.
Si riproduce dunque (anche se non spontaneamente, bensì per ordine pontificio) la situazione del 1298, quando Marco Polo raccontò la storia del suo viaggio in Oriente a Rustichello da Pisa.
Nel 1298 ne era nato un capolavoro, in questo anno 1439 (colpa di Niccolò dei Conti? colpa di Poggio Bracciolini?) ne nasce un libretto che ha un successo molto limitato.
Il libretto di Poggio Bracciolini, scritto in latino, entra in una delle sue opere, De varietate fortunae. Poi viene ristampato a sé, come estratto, sempre in latino, col titolo India recognita, da un tipografo tedesco che lavora a Cremona.
I libri che i tedeschi (inventori della stampa a caratteri mobili) stampano a Cremona in latino, li leggono in Portogallo. Il libro tedesco-cremonese-fiorentino-veneziano viene tradotto in portoghese.
Il grandissimo veneziano Giovan Battista Ramusio (1485-1557) ha sentito parlare del concittadino Niccolò dei Conti, e sa come cercare i libri, ma non riesce a trovare né il libro De varietate fortunae, né l'estratto tedesco-cremonese. Trova infine  l'edizione portoghese, e ritraduce dal portoghese al veneziano.
Oggi possiamo leggere Niccolò dei Conti nel testo del Ramusio.
Giovan Battista Ramusio fu diplomatico, geografo e umanista della Repubblica di Venezia e fu l'autore del primo trattato geografico dell'età moderna, titolato Delle navigationi et viaggi. L'idea di comporre questo trattato risale al periodo in cui Ramusio ebbe l'incarico di prendere contatti con il navigatore Sebastiano Caboto, figlio di Giovanni Caboto.
Nella descrizione del viaggio di Niccolò dei Conti ci troviamo diverse cose interessanti: egli giunge fino a Giava e Sumatra. Vediamo le mogli dei maragià salire sul rogo con la salma dello sposo, conosciamo la crudeltà dei malesi, e l'amok (c'è sulle enciclopedie, non c'è nei libri di Salgari... se non volete ch'io parli di Salgari, parlerò sanscrito: il maragià è il maha-raja, corrispondente al latino magnus rex).
Ma non abbiamo un capolavoro come il Milione. Sarà invece uno dei testi sui quali si baserà Ramusio per la stesura del suo testo fondamentale nella storia della geografia.


martedì 2 dicembre 2014

La nascita di Venezia

VENEZIA

"Con una forza di volontà panteista
Il piccolo artefice del Mar dei Coralli,
Eroico nell'abisso azzurro,
Erige una splendida galleria e una lunga arcata,
Costruzioni ricche di molti fregi, di ghirlande marmoree,
A riprova di ciò che un verme sa fare,
Faticando in un'acqua più bassa,
Esperto in un'arte simile,
Un essere intrepido mostrò la potenza di Pan,
Quando Venezia sorse in scogliere di palazzi"

(H. Melville)



ATTILA

"Tre mesi d'assedio, cibo scarso, l'esercito protesta,
Meditando sotto le mura di Aquileia
Egli vede le cicogne: Guardate! Se ne vanno!
Dio parla agli uccelli. La città è nostra".
Così è.
Non lasciano pietra su pietra dove passano,
Gli abitanti che sopravvivono, fuggono di qua di là,
E alcuni si volgono alla costa, alle paludi,
Alle isole sull'Adriatico. Qui.
Tre generazioni dopo, Cassiodoro,
Li trova, un popolo che, come uccelli acquatici,
Ha fissato il suo nido sul petto delle onde.
Un'economia cresce sul sale, e lo commercia,
Sorge, ed è Venezia. Che adesso sprofonda.
Lo Stato fondato inconsapevolmente dagli Unni"

(P. Martin)




martedì 18 novembre 2014

Le Pasque veronesi e la fine della Repubblica veneziana

La parola pasqua, che trae origine dal latino ecclesiastico pascua (a sua volta derivante da una voce ebraica che significa "passaggio"), ha sempre avuto un contorno di gioia e di augurio. Non così le Pasque veronesi (al plurale, all'uso francese) che sono invece un ricordo di rivolta e di morte.
Le vicende si svolgono nell'aprile 1797: ancora circa un mese e la Repubblica di Venezia cadrà di fronte ad una brusca ingiunzione di Bonaparte, che, dopo averlo messo in ginocchio, sta cercando i pretesti necessari per abbattere l'antico Stato veneto;  tra questi il più noto fu appunto rappresentato dai fatti di Verona, subito chiamati "pasque veronesi".
Inseguendo l'esercito austriaco, l'armata francese viola spesso il territorio della Repubblica che, in omaggio ad una dichiarata neutralità (l'anno prima aveva rifiutato la proposta di Vittorio Amedeo III di Savoia, re di Sardegna, per un'alleanza contro la Francia), sopporta le ingiurie francesi sempre più cocenti, le ruberie continue, le requisizioni e le violazioni della sovranità di uno Stato indipendente.
Così Lonato, Sirmione e Desenzano vengono occupate dagli uomini di Napoleone; a Peschiera viene arrestato il comandante veneto Colonnello Carrara, mentre Bardolino, San Vigilio e Salò sono saccheggiate.
A Verona, il 17 aprile 1797, lunedì di Pasqua, la situazione già pesante divenne tragica quando, senza alcun preavviso, il generale francese Belliard fa aprire, dai castelli occupati dai suoi uomini, il fuoco dei cannoni sulla città. Il pretesto, dichiarato solo al termine della giornata, si riferisce all'uccisione di quattro francesi, che risulta poi mai avvenuta.
Abbiamo tra le mani la relazione (viva, anche se sintatticamente deplorevole) del giorno seguente del Provveditore Giovannelli che dice "... una giusta brama di vendetta si sparse repentinamente tra il popolo, egli suonò campane a martello, lanciandosi contro i francesi, qua e là sparsi, soldati, gente d'amministrazione e donne, si attaccò la mischia e la strage fu rilevante, contandosi oltre cento gli estinti francesi e 26 veronesi".
Il Provveditore cerca di portare la calma ma, non riuscendovi, si ritira (per non compromettere il governo) a Vicenza, volendo i popolani assaltare i castelli, dopo aver inutilmente chiamato in aiuto gli austriaci (il 18 aprile vengono infatti firmato da Napoleone i preliminari di Leoben).
Poi il Provveditore ritorna, insieme ad Andrea Erizzo di Vicenza, e la tragedia continua con uccisioni, distruzioni e saccheggi fino al 24 aprile, quando il generale francese Victor ottiene la capitolazione della città affamata e sanguinante.
Un altro episodio fornirà pretesto a Bonaparte per attaccare Venezia: il 20 aprile, un naviglio armato corsaro francese (Liberateur d'Italie) entra, contro le consuetudini ed i trattati internazionali, nel porto del Lido. In ossequio agli ordini ricevuti, il N.H. Pizzamano fa intervenire il Forte di Sant'Andrea, la galea francese viene catturata e i marinai sono in gran parte uccisi, compreso il suo capitano Laugier.
A seguito delle minacce francesi, nella seduta del 12 maggio 1797, il Doge e i magistrati deposero le insegne del comando, mentre il Maggior Consiglio abdicò e dichiarò decaduta la Repubblica.