"No se sa mai, un mal de note..."
("Non si sa mai, un male di notte...)
Intercalare ironico tipicamente veneziano. Lo si dice quando si voglia prendere per precauzione un qualche cosa che nulla abbia a che fare con i mali che possano capitare d'improvviso. Ad esempio, chi si portasse un libro per leggere prima di addormentarsi, potrebbe sentirsi dire da un amico: "No se sa mai, un mal de note...".
A proposito di notti e delle attività ad essa connesse, ci piace raccontare quel che successe a Giotto. Un amico del sommo pittore era andato a trovarlo nella sua casa ad aveva così avuto modo di osservarne i figli. E fu così che trovò il coraggio di chiedere a Giotto per quale motivo i suoi dipinti fossero tanto belli ed i suoi figli invece così brutti.
A tale domanda Giotto rispose in modo adeguato e pertinente, dicendo che tutto era così accaduto perché i dipinti li faceva di giorno ed invece i figli li aveva fatti di notte.
giovedì 27 settembre 2012
lunedì 17 settembre 2012
Morosini: palazzi, dogi, amanti e gatti
Palazzo Morosini fu portato in dote da Laura Priuli, vedova di Francesco Malipiero, quando sposò Pietro Morosini, rimasto vedovo di Maria Morosini.
La sontuosa dimora era composta da due edifici separati da un cortile interno; le facciate di terra e di acqua presentavano caratteri diversi e quella sul campo era affrescata da Antonio Aliense.
A fine Settecento, Gianantonio Selva aveva rimodernato l'intero edificio che raccoglieva armi, trofei, sculture e dipinti preziosi. Tra i suoi ospiti si ricorda Casanova, amico di Lorenzo II Morosini. Tra i due era nata una sincera amicizia e lo stesso Lorenzo invitava Casanova a frequentare il suo casin in Calle Casselleria, dove il Morosini incontrava l'amante, Paolina Stratico, sorella del suo professore!
I tesori di Palazzo Morosini furono dispersi nell'asta del 1894. Diverse opere si trovano oggi al Museo Correr e a Ca' Rezzonico; mentre l'affresco di G.B. Tiepolo "L'apoteosi del Peloponnesiaco" si trova a Milano, in Palazzo Isimbardi.
Naturalmente il personaggio più illustre della famiglia fu Francesco Morosini. Francesco veniva descritto come uomo di alta statura, carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondo rossicci, particolare comune a vari membri della famiglia.
Il futuro doge si fece valere nella guerra di Candia e nella famosa riconquista del Peloponneso (durante la quale fece bombardare il Partenone di Atene che i Turchi avevano trasformato in polveriera). L'elezione al dogado avvenne nell'aprile 1688, mentre Francesco era ancora impegnato nella campagna del Peloponneso. Solo alla conclusione dell'impresa tornò in città, dove venne accolto in modo trionfale l'11 gennaio 1690.
Morosini però è ricordato anche per alcune sue particolarità: era molto ambizioso, facile all'ira ma anche al perdono; non accavallava mai le gambe, considerandolo gesto poco dignitoso, mangiava con posate d'argento dorato, e amò a tal punto il suo gatto che alla sua morte lo fece imbalsamare!
La sontuosa dimora era composta da due edifici separati da un cortile interno; le facciate di terra e di acqua presentavano caratteri diversi e quella sul campo era affrescata da Antonio Aliense.
A fine Settecento, Gianantonio Selva aveva rimodernato l'intero edificio che raccoglieva armi, trofei, sculture e dipinti preziosi. Tra i suoi ospiti si ricorda Casanova, amico di Lorenzo II Morosini. Tra i due era nata una sincera amicizia e lo stesso Lorenzo invitava Casanova a frequentare il suo casin in Calle Casselleria, dove il Morosini incontrava l'amante, Paolina Stratico, sorella del suo professore!
I tesori di Palazzo Morosini furono dispersi nell'asta del 1894. Diverse opere si trovano oggi al Museo Correr e a Ca' Rezzonico; mentre l'affresco di G.B. Tiepolo "L'apoteosi del Peloponnesiaco" si trova a Milano, in Palazzo Isimbardi.
Naturalmente il personaggio più illustre della famiglia fu Francesco Morosini. Francesco veniva descritto come uomo di alta statura, carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondo rossicci, particolare comune a vari membri della famiglia.
Il futuro doge si fece valere nella guerra di Candia e nella famosa riconquista del Peloponneso (durante la quale fece bombardare il Partenone di Atene che i Turchi avevano trasformato in polveriera). L'elezione al dogado avvenne nell'aprile 1688, mentre Francesco era ancora impegnato nella campagna del Peloponneso. Solo alla conclusione dell'impresa tornò in città, dove venne accolto in modo trionfale l'11 gennaio 1690.
Morosini però è ricordato anche per alcune sue particolarità: era molto ambizioso, facile all'ira ma anche al perdono; non accavallava mai le gambe, considerandolo gesto poco dignitoso, mangiava con posate d'argento dorato, e amò a tal punto il suo gatto che alla sua morte lo fece imbalsamare!
lunedì 10 settembre 2012
Antichi mestieri veneziani: pistori e calegheri
La chiesa di Santo Stefano a Venezia ospitò per un certo periodo la Scuola dei pistori (fornai).
I fornai erano molto abili nel confezionare il pan-biscotto, elemento indispensabile sulle navi che trascorrevano in mare settimane quando non mesi. Così dal 1402 il Consiglio dei X permise loro di radunarsi prima nella Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo e poi a Santo Stefano, più vicino ad alcune loro proprietà immobiliari.
Un'altra confraternita si radunava in quella chiesa già dal 1383: i calegheri (calzolai).
Non era una vera e propria Scuola d'Arte, ma piuttosto di assistenza e devozione, riservata ai calzolai operanti in Venezia in caso di malattia, per questo motivo dipendeva direttamente dai Provveditori sopra gli Ospedali.
Nel 1482 un membro della confraternita, Enrico Corrado, donò alla Corporazione un edificio in Calle delle Botteghe (n.c. 3127-3133); qui ebbero la loro sede, contraddistinta da alcune calzature scolpite sui pilastri, e il loro ospedale. Una lapide ricorda un restauro secentesco. Molto eleganti i due bassorilievi con le raffigurazioni di calzature e il rilievo con l'Annunciazione sopra il portale d'ingresso.
Piccola curiosità: dal 1737 tutti i calegheri che risiedevano in città dovevano accorrere sul posto dove scoppiava un incendio. Muniti di spago, cuoio ed altri strumenti del mestiere erano a disposizione per riparare eventuali guasti alle manichette delle pompe dell'acqua.
I fornai erano molto abili nel confezionare il pan-biscotto, elemento indispensabile sulle navi che trascorrevano in mare settimane quando non mesi. Così dal 1402 il Consiglio dei X permise loro di radunarsi prima nella Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo e poi a Santo Stefano, più vicino ad alcune loro proprietà immobiliari.
Un'altra confraternita si radunava in quella chiesa già dal 1383: i calegheri (calzolai).
Non era una vera e propria Scuola d'Arte, ma piuttosto di assistenza e devozione, riservata ai calzolai operanti in Venezia in caso di malattia, per questo motivo dipendeva direttamente dai Provveditori sopra gli Ospedali.
Nel 1482 un membro della confraternita, Enrico Corrado, donò alla Corporazione un edificio in Calle delle Botteghe (n.c. 3127-3133); qui ebbero la loro sede, contraddistinta da alcune calzature scolpite sui pilastri, e il loro ospedale. Una lapide ricorda un restauro secentesco. Molto eleganti i due bassorilievi con le raffigurazioni di calzature e il rilievo con l'Annunciazione sopra il portale d'ingresso.
Piccola curiosità: dal 1737 tutti i calegheri che risiedevano in città dovevano accorrere sul posto dove scoppiava un incendio. Muniti di spago, cuoio ed altri strumenti del mestiere erano a disposizione per riparare eventuali guasti alle manichette delle pompe dell'acqua.
domenica 2 settembre 2012
“Mio caro, niente di quello che ho sentito di Venezia può evocare la sua magnifica e stupenda realtà. Le immagini più fantastiche delle Mille e una notte non sono nulla in confronto a Piazza San Marco e all’impressione che si prova una volta entrati nella chiesa. La reale magnificenza di Venezia va oltre la più stravagante fantasia di un sognatore. L’oppio non riuscirebbe a creare il sogno di un luogo simile, e nessuna suggestione potrebbe creare le sembianze altrettanto incantevoli. Tutto quello che avevo sentito, letto o fantasticato su Venezia è lontano mille miglia. Sai che quando le aspettative sono alte tendo a restare deluso, ma Venezia è superlativa, è oltre, è al di fuori dell’immaginazione umana. Non è mai stata considerata a sufficienza. Solo a vederla piangeresti”
(Charles Dickens, novembre 1844)
(Charles Dickens, novembre 1844)
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domenica 26 agosto 2012
Benedetto Marcello musicista veneziano
Benedetto Marcello nacque il 24 giugno 1686 nel Palazzo adiacente al giardino di Ca' Vendramin Calergi. Il padre Agostino era senatore e si dilettava a suonare il violino, la madre, Paolina Cappello, era poetessa.
Come molti dei patrizi veneziani divenne magistrato, ma per passione personale e, si dice, per rivalità col fratello maggiore, si dedicò allo studio delle lettere e della musica. Fu proprio in quest'ultimo campo che eccelse maggiormente e si guadagnò un posto nella storia di Venezia.
Nel 1720 scrisse "Il teatro alla moda" dove metteva in ridicolo il mondo dell'opera, dal poeta al compositore, dall'impresario alle cantanti, dai ballerini alle comparse. Non venne risparmiato nemmeno il giovane compositore Antonio Vivaldi per la sua presunta relazione con l'allieva Anna Giraud.
Marcello frequentava spesso il Ghetto per ascoltare e trascrivere i canti liturgici ebraici, sui quali basò il suo più famoso ciclo di composizioni: L'estro poetico armonico.
Nel 1728 sposò la giovane allieva Rosanna Scalfi, una popolana dalla voce melodiosa. Il matrimonio non fu ben visto dalla famiglia e così lui continuò a vivere a Palazzo e lei presso la madre...
Il 16 agosto di quello stesso anno gli accadde uno strano fatto: stava ascoltando messa ai Santi Apostoli quando una lastra tombale si ruppe proprio sotto i suoi piedi e si ritrovò dentro la fossa. Balzò fuori immediatamente, ma quello che poteva sembrare un banale episodio fu vissuto da Benedetto come un funesto presagio; cadde in crisi profonda e mutò stile di vita e umore. Questo comunque non impedì la creazione di opere che lo resero celebre e apprezzato.
A lui è dedicato il Conservatorio di Venezia sito in Palazzo Pisani.
Il termine "conservatorio" è nato proprio a Venezia, infatti i numerosi istituti sorti in città come i Mendicanti, l'Ospedaletto e la Pietà miravano, attraverso l'insegnamento della musica, a "conservare" i giovani onesti.
Come molti dei patrizi veneziani divenne magistrato, ma per passione personale e, si dice, per rivalità col fratello maggiore, si dedicò allo studio delle lettere e della musica. Fu proprio in quest'ultimo campo che eccelse maggiormente e si guadagnò un posto nella storia di Venezia.
Nel 1720 scrisse "Il teatro alla moda" dove metteva in ridicolo il mondo dell'opera, dal poeta al compositore, dall'impresario alle cantanti, dai ballerini alle comparse. Non venne risparmiato nemmeno il giovane compositore Antonio Vivaldi per la sua presunta relazione con l'allieva Anna Giraud.
Marcello frequentava spesso il Ghetto per ascoltare e trascrivere i canti liturgici ebraici, sui quali basò il suo più famoso ciclo di composizioni: L'estro poetico armonico.
Nel 1728 sposò la giovane allieva Rosanna Scalfi, una popolana dalla voce melodiosa. Il matrimonio non fu ben visto dalla famiglia e così lui continuò a vivere a Palazzo e lei presso la madre...
Il 16 agosto di quello stesso anno gli accadde uno strano fatto: stava ascoltando messa ai Santi Apostoli quando una lastra tombale si ruppe proprio sotto i suoi piedi e si ritrovò dentro la fossa. Balzò fuori immediatamente, ma quello che poteva sembrare un banale episodio fu vissuto da Benedetto come un funesto presagio; cadde in crisi profonda e mutò stile di vita e umore. Questo comunque non impedì la creazione di opere che lo resero celebre e apprezzato.
A lui è dedicato il Conservatorio di Venezia sito in Palazzo Pisani.
Il termine "conservatorio" è nato proprio a Venezia, infatti i numerosi istituti sorti in città come i Mendicanti, l'Ospedaletto e la Pietà miravano, attraverso l'insegnamento della musica, a "conservare" i giovani onesti.
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venerdì 27 luglio 2012
Il Giardino Eden a Venezia
Mister Fredric Eden, gentiluomo inglese con signora al seguito, nel 1880 acquista quello che rimane dell’antico giardino Corner sull'isola della Giudecca e vi realizza il suo sogno di bellezza e di poesia.
Trasforma il vecchio giardino in un vero paradiso terrestre dove crescono pini, cipressi, oleandri, limoni, magnolie, melograni, bergamotti, viti, viole, piante dei Tropici e verbene, ma soprattutto rose di cui il nostro gentleman ha una vera predilezione e ne pianta di ogni varietà possibile; ma nel giardino ci sono anche una vera da pozzo, percorsi lastricati e una vasca in marmo rosso di Verona.
Mr. Eden era zio di quel R. Antony Eden, che fu capo del governo britannico subito dopo Churchill, e marito di una certa Caroline, che si scopre essere nientemeno che la sorella maggiore di Gertrude Jekyll, la grande paesaggista inglese, potrebbe quindi darsi che la più famosa creatrice di giardini abbia appreso la sua arte dalla sorella e proprio qui, a Venezia.
Il bellissimo giardino giudecchino era frequentato dall’aristocrazia veneziana e dalla schiera nutritissima degli intellettuali che a cavallo tra '800 e '900 frequentavano la città. Henry James lo descrive in “Il carteggio Aspen” e per D’Annunzio è il giardino dove la Foscarina e Stelio si amano nell’ultimo capitolo de “Il fuoco”.
Mr. Eden era anche un importante imprenditore agricolo, e ai primi del Novecento stampa un libretto, allora famoso anche oltre i confini nazionali, che racconta la storia del giardino.
Dopo la morte di Fredric nel 1916, la proprietà passa alla principessa Aspasia di Grecia, nel 1927, che lo arricchirà di specie botaniche mediterranee.
Nel 1979 viene acquistato da un personaggio bizzarro, tale Undertwasser, architetto e artista austriaco, il quale riteneva che "non bisogna fare del giardinaggio, ma bisogna lasciar fare alla natura", accusato da più parti di lasciare andare in rovina il giardino egli rispondeva che "gli intrecci dei rovi e dei rami sembrano ricami"...
Undertwasser muore nel 2000 ma da allora la Fondazione a suo nome non permette l'ingresso a nessuno.
Trasforma il vecchio giardino in un vero paradiso terrestre dove crescono pini, cipressi, oleandri, limoni, magnolie, melograni, bergamotti, viti, viole, piante dei Tropici e verbene, ma soprattutto rose di cui il nostro gentleman ha una vera predilezione e ne pianta di ogni varietà possibile; ma nel giardino ci sono anche una vera da pozzo, percorsi lastricati e una vasca in marmo rosso di Verona.
Mr. Eden era zio di quel R. Antony Eden, che fu capo del governo britannico subito dopo Churchill, e marito di una certa Caroline, che si scopre essere nientemeno che la sorella maggiore di Gertrude Jekyll, la grande paesaggista inglese, potrebbe quindi darsi che la più famosa creatrice di giardini abbia appreso la sua arte dalla sorella e proprio qui, a Venezia.
Il bellissimo giardino giudecchino era frequentato dall’aristocrazia veneziana e dalla schiera nutritissima degli intellettuali che a cavallo tra '800 e '900 frequentavano la città. Henry James lo descrive in “Il carteggio Aspen” e per D’Annunzio è il giardino dove la Foscarina e Stelio si amano nell’ultimo capitolo de “Il fuoco”.
Mr. Eden era anche un importante imprenditore agricolo, e ai primi del Novecento stampa un libretto, allora famoso anche oltre i confini nazionali, che racconta la storia del giardino.
Dopo la morte di Fredric nel 1916, la proprietà passa alla principessa Aspasia di Grecia, nel 1927, che lo arricchirà di specie botaniche mediterranee.
Nel 1979 viene acquistato da un personaggio bizzarro, tale Undertwasser, architetto e artista austriaco, il quale riteneva che "non bisogna fare del giardinaggio, ma bisogna lasciar fare alla natura", accusato da più parti di lasciare andare in rovina il giardino egli rispondeva che "gli intrecci dei rovi e dei rami sembrano ricami"...
Undertwasser muore nel 2000 ma da allora la Fondazione a suo nome non permette l'ingresso a nessuno.
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lunedì 23 luglio 2012
Palazzo Barbaro e Palazzo Loredan
Su Campo Santo Stefano s'affacciano due interessanti palazzi.
Al civico 2947 troviamo Palazzo Barbaro, cinquecentesco, la cui facciata era ornata di affreschi attribuiti a Sante Zago, che assieme a Tintoretto fu uno dei più ferventi frescanti d'esterni veneziani. La famiglia Barbaro era originaria di Roma e prima di arrivare a Venezia, passo per l'Istria e Trieste. Fu così chiamata perché si narra che un certo Marco, mentre combatteva in Terra Santa nel 1221 a fianco del Doge Domenico Michiel strappò ai barbari il vessillo di San Marco.
Adiacente a Palazzo Barbaro si trova Palazzo Loredan. Originariamente era di proprietà dei Mocenigo e verso il rio esistono ancora resti della primitiva struttura gotica. Nel 1536 fu acquistato dai Loredan che lo ricostruirono secondo la moda del tempo, affidandone l'esecuzione allo Scarpagnino. La facciata sul Campo, semplice nella sua struttura architettonica, era stata affrescata da Giuseppe Salviati e dallo stesso Sante Zago che aveva operato a Palazzo Barbaro. Le dipinture rappresentavano virtù, grottesche, festoni e storie di Lucrezia, Clelia e Muzio Scevola.
In un secondo tempo il Palazzo fu ampliato sulla destra, con l'aggiunta di una sala da ballo; essa ebbe una propria facciata che rievoca, nel suo aspetto, lo stile del Palladio.
Nel 1809 Palazzo Loredan fu alloggio del generale d'Illiers, primo governatore francese di Venezia. Con la dominazione austriaca divenne il Comando di Città e un posto di guarda stazionava perennemente all'esterno. Sulla casa di fronte è stata posta una lapide in onore di Felice Cavallotti (Milano, 1842). Eletto deputato nel 1873, divenne portavoce di Garibaldi in Parlamento. Oltre che politico, fu anche poeta, drammaturgo, giornalista e audace spadaccino. Morì infatti a Roma nel 1898, in un duello con il deputato Ferruccio Macola, direttore della "Gazzetta di Venezia".
Al civico 2947 troviamo Palazzo Barbaro, cinquecentesco, la cui facciata era ornata di affreschi attribuiti a Sante Zago, che assieme a Tintoretto fu uno dei più ferventi frescanti d'esterni veneziani. La famiglia Barbaro era originaria di Roma e prima di arrivare a Venezia, passo per l'Istria e Trieste. Fu così chiamata perché si narra che un certo Marco, mentre combatteva in Terra Santa nel 1221 a fianco del Doge Domenico Michiel strappò ai barbari il vessillo di San Marco.
Adiacente a Palazzo Barbaro si trova Palazzo Loredan. Originariamente era di proprietà dei Mocenigo e verso il rio esistono ancora resti della primitiva struttura gotica. Nel 1536 fu acquistato dai Loredan che lo ricostruirono secondo la moda del tempo, affidandone l'esecuzione allo Scarpagnino. La facciata sul Campo, semplice nella sua struttura architettonica, era stata affrescata da Giuseppe Salviati e dallo stesso Sante Zago che aveva operato a Palazzo Barbaro. Le dipinture rappresentavano virtù, grottesche, festoni e storie di Lucrezia, Clelia e Muzio Scevola.
In un secondo tempo il Palazzo fu ampliato sulla destra, con l'aggiunta di una sala da ballo; essa ebbe una propria facciata che rievoca, nel suo aspetto, lo stile del Palladio.
Nel 1809 Palazzo Loredan fu alloggio del generale d'Illiers, primo governatore francese di Venezia. Con la dominazione austriaca divenne il Comando di Città e un posto di guarda stazionava perennemente all'esterno. Sulla casa di fronte è stata posta una lapide in onore di Felice Cavallotti (Milano, 1842). Eletto deputato nel 1873, divenne portavoce di Garibaldi in Parlamento. Oltre che politico, fu anche poeta, drammaturgo, giornalista e audace spadaccino. Morì infatti a Roma nel 1898, in un duello con il deputato Ferruccio Macola, direttore della "Gazzetta di Venezia".
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venerdì 13 luglio 2012
I Gabrieli musicisti veneziani
Vengono chiamati semplicemente i Gabrieli. Si tratta invero dello zio Andrea, organista della cappella di San Marco dal 1564 fino alla sua morte nel 1586, quando gli successe Giovanni, suo nipote e allievo. Quest'ultimo in particolare evolve la tradizione di Willaert (predecessore dello zio) verso uno stile più moderno che lascia spazio all'improvvisazione personale dei musicisti e dei cantori. I Gabrieli avranno un successo clamoroso in Germania dove esercitano una profonda influenza sui musicisti a venire.
Nel 1585 a Vicenza viene inaugurato il celebre Teatro Olimpico, opera di Palladio, con l'esecuzione di Edipo tiranno scritto a quattro mani da Andrea e Giovanni Gabrieli.
Giovanni era nato nel 1554 e a soli trent'anni fu nominato organista di San Marco e poco dopo anche della Scuola Grande di San Rocco. Frequentò molte corti straniere: soggiornò quattro anni presso la corte di Baviera, poi presso quella dell'Arciduca Ferdinando, dei Gonzaga a Mantova e degli Estensi a Ferrara.
Morì il 12 agosto 1612 e venne sepolto nella Chiesa di Santo Stefano davanti al primo altare a sinistra. Resterà una figura chiave nella storia della musica di Venezia.
Ascoltando il Magnificat di Giovanni Gabrieli (33 voci, 7 organi e 12 strumenti a fiato) sembra quasi di vedere le navi della Serenissima durante la battaglia di Lepanto, le vele delle galere che schioccano nel vento, le carene delle navi che si urtano e le sciabole che fendono teste.
Nel 1585 a Vicenza viene inaugurato il celebre Teatro Olimpico, opera di Palladio, con l'esecuzione di Edipo tiranno scritto a quattro mani da Andrea e Giovanni Gabrieli.
Giovanni era nato nel 1554 e a soli trent'anni fu nominato organista di San Marco e poco dopo anche della Scuola Grande di San Rocco. Frequentò molte corti straniere: soggiornò quattro anni presso la corte di Baviera, poi presso quella dell'Arciduca Ferdinando, dei Gonzaga a Mantova e degli Estensi a Ferrara.
Morì il 12 agosto 1612 e venne sepolto nella Chiesa di Santo Stefano davanti al primo altare a sinistra. Resterà una figura chiave nella storia della musica di Venezia.
Ascoltando il Magnificat di Giovanni Gabrieli (33 voci, 7 organi e 12 strumenti a fiato) sembra quasi di vedere le navi della Serenissima durante la battaglia di Lepanto, le vele delle galere che schioccano nel vento, le carene delle navi che si urtano e le sciabole che fendono teste.
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domenica 8 luglio 2012
Giorgio Baffo, poeta erotico veneziano
Sulla facciata di Palazzo Bellavite, in Campo San Maurizio, si trovano due targhe che ricordano il soggiorno di due personaggi importanti: Alessandro Manzoni e Giorgio Baffo. Entrambi poeti ma di diversa ispirazione.
La famiglia Baffo giunse a Venezia nell'anno 827 e fu inscritta nella nobiltà nel 1297. Essi contribuirono alla costruzione della Chiesa della Maddalena e di San Secondo (nell'isola omonima) e Giorgio non perdonò mai ai suoi antenati di aver speso parte del capitale di famiglia a favore del clero. Le sue invettive contro preti e frati furono assai accese:
De povertà fè voto e castitae,
e po' ve volè tior tutt'i trastuli,
se ziogadori, puttanieri e buli,
e questa xe la vostra santitae.
La sua avversione al clero si spiega con la grande corruzione e i cattivi costumi che serpeggiavano nella Venezia del Settecento.
Giorgio nacque nel 1694 da Andrea Baffo e Chiara Querini: studiò scienze, storia e filosofia. "Fu uomo robusto e di forte complessione, sebbene piccolo di statura e grosso... Era faceto ed allegro nel parlare e trattare, facile ed affabile con tutti, egli era la delizia della conversazione, ne v'era alcun cittadinesco passatempo cui il nostro Autore non intervenisse e non rallegrase co' suoi lepidi versi ora studiati ed ora improvvisati che a gara gli dettavano le Muse e il suo libero genio".
Le poesie di di Giorgio Baffo, pur suscitando polemiche per il loro erotismo e anticlericalismo, erano lette ovunque in quanto affrontavano temi di grande attualità, quali il libertinaggio a Venezia. E Baffo, sebbene membro della Quarantia, scriveva moltissimo:
Me lambicco el cervello zorno e notte
per far sonetti grassi e buttirosi
per divertir le donne e i so morosi
ma mi fazzo sonetti e i altri fotte.
I suoi versi nascevano dall'osservazione della vita cittadina in giro per caffè, sale da gioco e bordelli:
Amigo vol contarve in t'un sonetto
la mia gran bela vita buzarada
tutta la sera vago per la strada
ma vago per toccar qualche culetto.
Baffo fu amico di personaggi illustri suoi contemporanei ed ebbe molta influenza negli anni dell'infanzia di Giacomo Casanova. Fu lui infatti che convinse la famiglia a mandare Giacomo a studiare a Padova e sempre lui lo presentò al senatore Malipiero che divenne suo protettore per un lungo periodo della sua vita.
Nel 1727 Baffo sposò Cecilia Sagredo, suonatrice di clavicembalo, dalla quale ebbe un'unica figlia. L'unione fu voluta dai Baffo perché Giorgio era l'unico maschio rimasto; il poeta ebbe sempre una certa ritrosia verso il matrimonio. Pare che i rapporti tra marito e moglie non fossero buoni, o almeno così traspare dalle sue parole:
Pur a mi la me tocca de sta' fatta
e se la soffro e la sopporto in pase
perché digo, gramassa la xè matta.
La Mona el ciel a ella l'ha fatta
e più darmela adesso no ghe piase
e mi vago a puttane, ed ecco fatto.
Fu definito poeta osceno, trasgressivo, licenzioso e morboso, ma è palese che questo suo scrivere è una spia dei disagi sociali, umani e politici degli anni che precedettero la caduta della Serenissima, quando tutti i valori del passato vennero meno.
Stanco di ipocrisie e falsità, durante un attacco di ira diede alle fiamme tutta la raccolta dei suoi scritti. Fortunatamente erano però stati trascritti da chi lo ascoltava e sono così giunti fino a noi.
(Fonte: M.C. Bizio)
La famiglia Baffo giunse a Venezia nell'anno 827 e fu inscritta nella nobiltà nel 1297. Essi contribuirono alla costruzione della Chiesa della Maddalena e di San Secondo (nell'isola omonima) e Giorgio non perdonò mai ai suoi antenati di aver speso parte del capitale di famiglia a favore del clero. Le sue invettive contro preti e frati furono assai accese:
De povertà fè voto e castitae,
e po' ve volè tior tutt'i trastuli,
se ziogadori, puttanieri e buli,
e questa xe la vostra santitae.
La sua avversione al clero si spiega con la grande corruzione e i cattivi costumi che serpeggiavano nella Venezia del Settecento.
Giorgio nacque nel 1694 da Andrea Baffo e Chiara Querini: studiò scienze, storia e filosofia. "Fu uomo robusto e di forte complessione, sebbene piccolo di statura e grosso... Era faceto ed allegro nel parlare e trattare, facile ed affabile con tutti, egli era la delizia della conversazione, ne v'era alcun cittadinesco passatempo cui il nostro Autore non intervenisse e non rallegrase co' suoi lepidi versi ora studiati ed ora improvvisati che a gara gli dettavano le Muse e il suo libero genio".
Le poesie di di Giorgio Baffo, pur suscitando polemiche per il loro erotismo e anticlericalismo, erano lette ovunque in quanto affrontavano temi di grande attualità, quali il libertinaggio a Venezia. E Baffo, sebbene membro della Quarantia, scriveva moltissimo:
Me lambicco el cervello zorno e notte
per far sonetti grassi e buttirosi
per divertir le donne e i so morosi
ma mi fazzo sonetti e i altri fotte.
I suoi versi nascevano dall'osservazione della vita cittadina in giro per caffè, sale da gioco e bordelli:
Amigo vol contarve in t'un sonetto
la mia gran bela vita buzarada
tutta la sera vago per la strada
ma vago per toccar qualche culetto.
Baffo fu amico di personaggi illustri suoi contemporanei ed ebbe molta influenza negli anni dell'infanzia di Giacomo Casanova. Fu lui infatti che convinse la famiglia a mandare Giacomo a studiare a Padova e sempre lui lo presentò al senatore Malipiero che divenne suo protettore per un lungo periodo della sua vita.
Nel 1727 Baffo sposò Cecilia Sagredo, suonatrice di clavicembalo, dalla quale ebbe un'unica figlia. L'unione fu voluta dai Baffo perché Giorgio era l'unico maschio rimasto; il poeta ebbe sempre una certa ritrosia verso il matrimonio. Pare che i rapporti tra marito e moglie non fossero buoni, o almeno così traspare dalle sue parole:
Pur a mi la me tocca de sta' fatta
e se la soffro e la sopporto in pase
perché digo, gramassa la xè matta.
La Mona el ciel a ella l'ha fatta
e più darmela adesso no ghe piase
e mi vago a puttane, ed ecco fatto.
Fu definito poeta osceno, trasgressivo, licenzioso e morboso, ma è palese che questo suo scrivere è una spia dei disagi sociali, umani e politici degli anni che precedettero la caduta della Serenissima, quando tutti i valori del passato vennero meno.
Stanco di ipocrisie e falsità, durante un attacco di ira diede alle fiamme tutta la raccolta dei suoi scritti. Fortunatamente erano però stati trascritti da chi lo ascoltava e sono così giunti fino a noi.
(Fonte: M.C. Bizio)
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lunedì 2 luglio 2012
Profumo di barche
La nebbia entrava a bocconate golose nell'intirizzito pontile della Ca' d'Oro, dove attendevo da tempo lo spuntare d'un vaporetto per la Stazione.
Avvoltolato in lane sovrabbondanti, come si conveniva in quel novembre già rigido, un piccolo dal passeggino guardava assorto tra i banchi di nebbia transitare le gondole del traghetto di Santa Sofia, mentre una barca a motore portava il suo carico al mercato di Rialto, spandendo intorno generose zaffate di carburante.
Accanto al pontile un cacciapesca dal fondo piatto, ingombro di reti e cordami, rilasciava effluvi salmastri che parlavano di laguna aperta e barene.
Il bimbo allungò il collo tra le sciarpe e, rivolto il faccino alla ragazza che lo accompagnava (troppo giovane per essere la mamma, troppo grande per essere la sorella), esclamò: "che profumo di barche".
Intorno qualcuno sorrise compiaciuto.
Io sentii una specie di brivido e pensai: "ragazzo mio, tu sei un poeta. Non sarà facile per te".
(Dino Tonon)
Avvoltolato in lane sovrabbondanti, come si conveniva in quel novembre già rigido, un piccolo dal passeggino guardava assorto tra i banchi di nebbia transitare le gondole del traghetto di Santa Sofia, mentre una barca a motore portava il suo carico al mercato di Rialto, spandendo intorno generose zaffate di carburante.
Accanto al pontile un cacciapesca dal fondo piatto, ingombro di reti e cordami, rilasciava effluvi salmastri che parlavano di laguna aperta e barene.
Il bimbo allungò il collo tra le sciarpe e, rivolto il faccino alla ragazza che lo accompagnava (troppo giovane per essere la mamma, troppo grande per essere la sorella), esclamò: "che profumo di barche".
Intorno qualcuno sorrise compiaciuto.
Io sentii una specie di brivido e pensai: "ragazzo mio, tu sei un poeta. Non sarà facile per te".
(Dino Tonon)
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