Pier Fortunato Calvi, nato a Briana di Noale nel 1817, fu impiccato a Belfiore nel 1855 per aver organizzato un'insurrezione contro gli austriaci.
Aveva iniziato la sua carriera come ufficiale dell'esercito austriaco, dal quale si dismise nel 1848 assumendo il comando delle truppe insorte contro l'Austria in Cadore; nonostante gli sforzi i cadorini furono costretti a cedere e Calvi si rifugiò a Venezia, dove il governo neo-repubblicano (istituito da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo) gli affidò il comando della legione dei "Cacciatori delle Alpi". Il Calvi si coprì di gloria a Venas e a Oltrechiusa, dove combatté contro duemila Austriaci, e poi ancora nei pressi di Longarone; sconfisse i nemici a Rovalgo, al Boite, in Val di Rendimera. Ma la mancanza di armi, di munizioni e di viveri lo costrinse ad abbandonare il Cadore, e il Calvi, con la generosità consueta, corse a difendere Venezia. Caduta la città nel 1849, andò in esilio in Grecia e, successivamente, in Piemonte (dove entrò in contatto con Mazzini) e in Lombardia, dove venne arrestato dalla polizia austriaca.
La fierezza e la gentilezza di Calvi rimasero leggendarie: al giudice che gli lesse la sentenza di morte offrì un sigaro e al boia che lo voleva aiutare a salire i gradini del patibolo disse: "Grazie, le mie gambe non tremano".
Una lapide in Campo dei Gesuiti è a lui dedicata.
venerdì 30 marzo 2012
Pier Fortunato Calvi, patriota veneziano
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lunedì 19 marzo 2012
L'avventura della seta a Venezia
In Campo dei Gesuiti, al civico 4877, aveva sede la Scuola dei tessitori di panni di seta, i cui santi patroni erano la Vergine Annunciata e San Cristoforo.
E' difficile stabilire in quale data ebbe inizio l'arte serica a Venezia, Una leggenda narra che durante il dogado di Vitale Falier (1084-1096), l'Imperatore Enrico IV fu in visita a Venezia e tra i suoi accompagnatori c'era un certo Antinope, un sarto greco che aveva confezionato il mantello dell'Imperatore. Il manufatto era di rara bellezza e fu apprezzato anche dal doge stesso. Durante il suo soggiorno a Venezia, Enrico IV si infatuò di una dama veneziana, Polissina Michiel, alla quale fece dono di un mantello simile al suo. E così la seta fu conosciuta in città.
Al di là della leggenda, si sa che in realtà tale tessuto era già noto, ma non si lavorava a Venezia. Sicuramente l'arte serica fu introdotta nella Serenissima dopo la conquista di Costantinopoli (1204) e la Corporazione dei samiteri ebbe il primo statuto nel 1265. Il nome samiteri deriva da sciamitum, il tessuto di seta più pregiato e diffuso nel Duecento. Il lavoro si svolgeva sotto forma d'artigianato domestico, ma la merce prodotta non poteva essere venduta direttamente al cliente, doveva invece essere ceduta prima ad un mercante.
Per ogni tipo di tessuto serico era fissata la dimensione delle pezze, il tono e l'intensità del colore che doveva essere costante per tutta la pezza, e i tessuti ritenuti difettosi erano bruciati sul Ponte di Rialto.
Il setificio veneziano ebbe un notevole impulso con l'arrivo dei maestri lucchesi. Lucca era il centro più fiorente di drappi di seta, con ben tremila telai, ma il saccheggio della città nel 1314 per opera dei Ghibellini, costrinse alla fuga molti artigiani, i quali trovarono rifugio a Venezia. portando con sé oltre alla cultura serica anche l'arte del velluto.
La produzione tessile a Venezia raggiunse il suo apice nel 1400, con ben quattromila telai. I lavori erano raffinati e ricercati, con disegni a volte realizzati da grandi artisti locali, come Jacopo Bellini.
E' difficile stabilire in quale data ebbe inizio l'arte serica a Venezia, Una leggenda narra che durante il dogado di Vitale Falier (1084-1096), l'Imperatore Enrico IV fu in visita a Venezia e tra i suoi accompagnatori c'era un certo Antinope, un sarto greco che aveva confezionato il mantello dell'Imperatore. Il manufatto era di rara bellezza e fu apprezzato anche dal doge stesso. Durante il suo soggiorno a Venezia, Enrico IV si infatuò di una dama veneziana, Polissina Michiel, alla quale fece dono di un mantello simile al suo. E così la seta fu conosciuta in città.
Al di là della leggenda, si sa che in realtà tale tessuto era già noto, ma non si lavorava a Venezia. Sicuramente l'arte serica fu introdotta nella Serenissima dopo la conquista di Costantinopoli (1204) e la Corporazione dei samiteri ebbe il primo statuto nel 1265. Il nome samiteri deriva da sciamitum, il tessuto di seta più pregiato e diffuso nel Duecento. Il lavoro si svolgeva sotto forma d'artigianato domestico, ma la merce prodotta non poteva essere venduta direttamente al cliente, doveva invece essere ceduta prima ad un mercante.
Per ogni tipo di tessuto serico era fissata la dimensione delle pezze, il tono e l'intensità del colore che doveva essere costante per tutta la pezza, e i tessuti ritenuti difettosi erano bruciati sul Ponte di Rialto.
Il setificio veneziano ebbe un notevole impulso con l'arrivo dei maestri lucchesi. Lucca era il centro più fiorente di drappi di seta, con ben tremila telai, ma il saccheggio della città nel 1314 per opera dei Ghibellini, costrinse alla fuga molti artigiani, i quali trovarono rifugio a Venezia. portando con sé oltre alla cultura serica anche l'arte del velluto.
La produzione tessile a Venezia raggiunse il suo apice nel 1400, con ben quattromila telai. I lavori erano raffinati e ricercati, con disegni a volte realizzati da grandi artisti locali, come Jacopo Bellini.
giovedì 15 marzo 2012
Grata a Venere
Aperto il cor vi mostrerò nel petto,
allor che 'l vostro non mi celerete
e sarà di piacervi il mio diletto.
E s'a Febo sì grata mi tenete
per lo compor, ne l'opere amorose
grata a Venere più mi troverete.
Così dolce e gustevole divento
quando mi trovo con persona in letto
da cui amata e gradita mi sento.
Che quel mio piacer vince ogni diletto,
si che quel che strettissimo parea,
nodo dell'altrui amor divien più stretto.
Ma, s'havete di favole desio
mentre anderete voi favoleggiando,
favoloso sarà l'accento mio.
E di favole stanco, e satio, quando
l'amor mi mostrerete con effetto,
non men del mio vi andrò certificando.
(Veronica Franco, cortigiana di Venezia)
allor che 'l vostro non mi celerete
e sarà di piacervi il mio diletto.
E s'a Febo sì grata mi tenete
per lo compor, ne l'opere amorose
grata a Venere più mi troverete.
Così dolce e gustevole divento
quando mi trovo con persona in letto
da cui amata e gradita mi sento.
Che quel mio piacer vince ogni diletto,
si che quel che strettissimo parea,
nodo dell'altrui amor divien più stretto.
Ma, s'havete di favole desio
mentre anderete voi favoleggiando,
favoloso sarà l'accento mio.
E di favole stanco, e satio, quando
l'amor mi mostrerete con effetto,
non men del mio vi andrò certificando.
(Veronica Franco, cortigiana di Venezia)
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lunedì 12 marzo 2012
Modi di dire veneziani legati all'abbigliamento
Esistono diversi modi di dire tipici veneziani legati all'abbigliamento, vediamone alcuni:
- "Xè un altro per de maneghe" = quando l'oggetto in questione è lo stesso ma sembra nuovo, Nacque nel Settecento quando le possibilità economiche non permettevano di cambiare troppo spesso l'abito e così si modificavano solo le maniche: l'abito era sempre lo stesso ma sembrava nuovo!
- "La par la poereta del sabo" = quando una persona veste male. Ebbe origine dalla consuetudine dei mendicanti che chiedevano l'elemosina il sabato vicino alle chiese e, per impietosire la gente, vestivano di stracci.
- "De meza vigogna" = di poco pregio. La vigogna era un tessuto pregiato, così chiamato dall'animale che vive nelle Ande e dal quale si ricava una lana di alta qualità. Ma se si mescola questa lana con quella di pecora si ottiene un tessuto mediocre.
- "Tagiar tabarri" = spettegolare. Il tabarro era il mantello indossato dalle classi abbienti nel Settecento che i meno ricchi tagliavano da dietro, senza che il proprietario se n'accorgesse, per poi prenderlo il giro e denigrarlo, giacché malgrado la sua apparente ricchezza usava un abito a brandelli.
- "A giugno cavite 'l codegugno, ma no stalo impegnar parché no ti sa in lugio cosa che te pol capitar", è un invito a tenere sempre a portata di mano la vestaglia da casa (codegugno) perché il clima può sempre cambiare all'improvviso.
- "Guantiera" = nome dato al vassoio. Il termine deriva dall'abitudine d'offrire agli ospiti, durante le feste settecentesche, dei guanti bianchi distribuiti su vassoi d'argento.
(Fonte: M.C. Bizio)
- "Xè un altro per de maneghe" = quando l'oggetto in questione è lo stesso ma sembra nuovo, Nacque nel Settecento quando le possibilità economiche non permettevano di cambiare troppo spesso l'abito e così si modificavano solo le maniche: l'abito era sempre lo stesso ma sembrava nuovo!
- "La par la poereta del sabo" = quando una persona veste male. Ebbe origine dalla consuetudine dei mendicanti che chiedevano l'elemosina il sabato vicino alle chiese e, per impietosire la gente, vestivano di stracci.
- "De meza vigogna" = di poco pregio. La vigogna era un tessuto pregiato, così chiamato dall'animale che vive nelle Ande e dal quale si ricava una lana di alta qualità. Ma se si mescola questa lana con quella di pecora si ottiene un tessuto mediocre.
- "Tagiar tabarri" = spettegolare. Il tabarro era il mantello indossato dalle classi abbienti nel Settecento che i meno ricchi tagliavano da dietro, senza che il proprietario se n'accorgesse, per poi prenderlo il giro e denigrarlo, giacché malgrado la sua apparente ricchezza usava un abito a brandelli.
- "A giugno cavite 'l codegugno, ma no stalo impegnar parché no ti sa in lugio cosa che te pol capitar", è un invito a tenere sempre a portata di mano la vestaglia da casa (codegugno) perché il clima può sempre cambiare all'improvviso.
- "Guantiera" = nome dato al vassoio. Il termine deriva dall'abitudine d'offrire agli ospiti, durante le feste settecentesche, dei guanti bianchi distribuiti su vassoi d'argento.
(Fonte: M.C. Bizio)
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giovedì 8 marzo 2012
Fasioi sofegai
El xe uno de i più carateristici piati de la nostra cusina veneta.
Far un pesto fin co: seano, carota, segola, parsemolo. Far inrosolir ste robe in t'un poco de ogio, po unirghe la sola salsa de pomidoro (ossia nò slongada co brodo), ma che la sia de quela fata in casa, me racomando! Lassar che sta salsa le se missia ben co'l desfrito, e po zontarghe, poco par volta, un goto de acqua (de più se ocore), tanto da aver un toceto che no'l sia massa fisso. Lassar che sto tocio el se cusina ancora par qualche momento, po zontarghe i fasioi zà lessai, lassando che i se insaorissa per na meza ora, a fogo tanto basso.
De solito, i fasioi sofegai se li serve come contorno de'l museto o de luganeghe roste.
(Fonte: Mariù Salvatori de Zuliani)
Far un pesto fin co: seano, carota, segola, parsemolo. Far inrosolir ste robe in t'un poco de ogio, po unirghe la sola salsa de pomidoro (ossia nò slongada co brodo), ma che la sia de quela fata in casa, me racomando! Lassar che sta salsa le se missia ben co'l desfrito, e po zontarghe, poco par volta, un goto de acqua (de più se ocore), tanto da aver un toceto che no'l sia massa fisso. Lassar che sto tocio el se cusina ancora par qualche momento, po zontarghe i fasioi zà lessai, lassando che i se insaorissa per na meza ora, a fogo tanto basso.
De solito, i fasioi sofegai se li serve come contorno de'l museto o de luganeghe roste.
(Fonte: Mariù Salvatori de Zuliani)
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martedì 6 marzo 2012
Palazzo Tiepolo e l'impresa audace di Sansovino
All'angolo tra Rio Noale e Rio San Felice si nota un giardino murato. Anticamente quell'area era occupata da un palazzo di proprietà di Alvise Tiepolo, Procuratore di San Marco.
Francesco Sansovino, nel suo libro Venetia, città nobilissima et singolare, descritta in XII libri, racconta dell'impresa audace del padre Jacopo: "... consumato dal tempo, il palazzo fu con artifitio non più per avanti udito, rifondato di sotto, mentre chi si abitava di sopra, senza moto alcuno e con meraviglia della città; poi che stando la fabbrica in piedi, e sostenendola in aria, si possono gettar nuove fondamenta senza disconcio degli abitanti, e ciò fu ritrovato dal Sansovino". Possiamo a stento immaginare lo stupore dei veneziani nel vedere simile opera!
Giustiniano Martinioni ricorda che nella seconda metà del Seicento in questo palazzo abitava il senatore Marino Tiepolo. In un'incisione di Domenico Lovisa (1720) si evidenzia come l'intervento del Sansovino si fosse limitato ai piani inferiori che presentavano linee cinquecentesche a differenza del piano superiore gotico.
Il Palazzo Tiepolo venne distrutto a fine Settecento.
Francesco Sansovino, nel suo libro Venetia, città nobilissima et singolare, descritta in XII libri, racconta dell'impresa audace del padre Jacopo: "... consumato dal tempo, il palazzo fu con artifitio non più per avanti udito, rifondato di sotto, mentre chi si abitava di sopra, senza moto alcuno e con meraviglia della città; poi che stando la fabbrica in piedi, e sostenendola in aria, si possono gettar nuove fondamenta senza disconcio degli abitanti, e ciò fu ritrovato dal Sansovino". Possiamo a stento immaginare lo stupore dei veneziani nel vedere simile opera!
Giustiniano Martinioni ricorda che nella seconda metà del Seicento in questo palazzo abitava il senatore Marino Tiepolo. In un'incisione di Domenico Lovisa (1720) si evidenzia come l'intervento del Sansovino si fosse limitato ai piani inferiori che presentavano linee cinquecentesche a differenza del piano superiore gotico.
Il Palazzo Tiepolo venne distrutto a fine Settecento.
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giovedì 1 marzo 2012
Corte dei Muti
In Corte dei Muti (famiglia di origine lombarda), a pochi passi da Campo dei Mori, al numero civico 3450 si trova una pietra da camino seicentesca in pietra di Nanto. Le pietre da camino sono pietre refrattarie poste, un tempo, all'interno dei caminetti dei palazzi cittadini, usate per evitare che il calore si disperdesse all'esterno. Quando i caminetti non furono più utilizzati, queste pietre vennero utilizzate come particolari decorativi delle facciate delle case.
D'altra parte a Venezia era prassi comune riutilizzare parti edili per via della difficoltà di recuperare materiale da costruzione.
Subito al di là del vicino rio, si nota uno scudo della famiglia Rizzo, il cui simbolo (come spesso accadeva nella scelta araldica veneziana) è il riccio, che ne ricorda il nome.
Il riccio è un animale dai molti significati simbolici: quando è in pericolo si appallottola su se stesso, un atteggiamento quindi di difesa e non d'attacco; inoltre è sinonimo di intelligenza, poiché quando costruisce la sua tana la crea sempre con due ingressi, così se uno è minacciato può usare l'altro; infine si dice che faccia cadere gli acini d'uva per può infilarli sugli aculei e portarli ai cuccioli, un esempio insomma di genitore premuroso. Anticamente la sua carne era usata come farmaco contro la calvizie, forse perché gli aculei hanno l'aspetto di capelli fortissimi!
(Foto di Fausto Maroder)
D'altra parte a Venezia era prassi comune riutilizzare parti edili per via della difficoltà di recuperare materiale da costruzione.
Subito al di là del vicino rio, si nota uno scudo della famiglia Rizzo, il cui simbolo (come spesso accadeva nella scelta araldica veneziana) è il riccio, che ne ricorda il nome.
Il riccio è un animale dai molti significati simbolici: quando è in pericolo si appallottola su se stesso, un atteggiamento quindi di difesa e non d'attacco; inoltre è sinonimo di intelligenza, poiché quando costruisce la sua tana la crea sempre con due ingressi, così se uno è minacciato può usare l'altro; infine si dice che faccia cadere gli acini d'uva per può infilarli sugli aculei e portarli ai cuccioli, un esempio insomma di genitore premuroso. Anticamente la sua carne era usata come farmaco contro la calvizie, forse perché gli aculei hanno l'aspetto di capelli fortissimi!
(Foto di Fausto Maroder)
domenica 26 febbraio 2012
"No ghe xe mediçine par i sempioldi"
(Non ci sono medicine per gli schiocchi)
(Non ci sono medicine per gli schiocchi)
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martedì 21 febbraio 2012
Palazzo Foscarini Giovanelli
Accanto all'antica sede della Scuola dei Tiraoro e Battioro (a San Stae), scorre il rio Mocenigo, e al di là del rio sorge il Palazzo Foscarini Giovanelli, affacciato sul Canal Grande.
L'edificio venne realizzato a metà del Cinquecento per volere dalla famiglia Coccina, commercianti in gioielli. Nel 1581 fu venduto a Luca Antonio Giunta, di origini fiorentine, la cui famiglia esercitava l'arte della stampa a Venezia dal 1482. Nel 1625 Lucrezia e Bianca Giunta sposarono i fratelli Nicolò e Renier Foscarini. Da allora il palazzo fu abitato da quel ramo della famiglia Foscarini, fino al 1755, quando il palazzo venne affittato ala famiglia Giovanelli, di origine bergamasca.
Nel 1771 i Giovanelli vi ospitarono Leopold Mozart e suo figlio Wolfgang in visita in città. In questa splendida dimora abitò anche il re di Danimarca, Federico Cristiano IV.
Il palazzo aveva le pareti della corte interna affrescate dallo Zelotti con rappresentazioni di figure nude e di suonatori affacciati a finte finestre intervallate da finestre vere.
La famiglia Foscarini è presente nei documenti veneziani fin dal XII secolo ed era originaria di Altino. Uno dei suoi membri più interessanti fu Marco, nato nel 1696. Uomo di vasta cultura, studiò all'Accademia di Bologna e quando tornò a Venezia si dedicò alla raccolta di volumi preziosi, anche ricorrendo a volte ad astuti sotterfugi pur di ottenere rari manoscritti.
La sua biblioteca divenne col tempo una delle più ricche in città, non solo per i numerosi volumi, ma anche per la ricercatezza ed eleganza della rilegatura, tutti i testi infatti erano rilegati in cuoio rosso con lo stemma dei Foscarini.
Purtroppo nell'Ottocento la biblioteca fu dispersa assieme alle fortune della casata. Lo stato austriaco s'appropriò di ben 497 codici, inviati alla Biblioteca Imperiale di Vienna, mentre i libri stampati furono venduti alla spicciolata.
Marco Foscarini, oltre a raccogliere libri e manoscritti, si dilettava con lo studio della poesia latina e italiana, egli stesso scrisse componimenti poetici. Quando Marco raggiunse l'età prestabilita, entrò nella carriera politica, raggiungendo i più alti vertici. Nel 1762 venne eletto doge, ma il suo dogado fu breve: egli infatti, appena eletto, si sentì male e la sua salute continuò a peggiorare. Al suo letto furono convocati nove medici e quattro chirurghi che lo sottoposero alle cure più assurde: fu salassato cinque volte, gli furono imposti quaranta clisteri, innumerevoli frizioni e medicine per bocca, gli vennero estratti i calcoli alla vescica e asportate emorroidi, tutti interventi che gli procurarono febbri altissime, capogiri, dolori, difficoltà respiratorie e ovviamente... la morte!
L'edificio venne realizzato a metà del Cinquecento per volere dalla famiglia Coccina, commercianti in gioielli. Nel 1581 fu venduto a Luca Antonio Giunta, di origini fiorentine, la cui famiglia esercitava l'arte della stampa a Venezia dal 1482. Nel 1625 Lucrezia e Bianca Giunta sposarono i fratelli Nicolò e Renier Foscarini. Da allora il palazzo fu abitato da quel ramo della famiglia Foscarini, fino al 1755, quando il palazzo venne affittato ala famiglia Giovanelli, di origine bergamasca.
Nel 1771 i Giovanelli vi ospitarono Leopold Mozart e suo figlio Wolfgang in visita in città. In questa splendida dimora abitò anche il re di Danimarca, Federico Cristiano IV.
Il palazzo aveva le pareti della corte interna affrescate dallo Zelotti con rappresentazioni di figure nude e di suonatori affacciati a finte finestre intervallate da finestre vere.
La famiglia Foscarini è presente nei documenti veneziani fin dal XII secolo ed era originaria di Altino. Uno dei suoi membri più interessanti fu Marco, nato nel 1696. Uomo di vasta cultura, studiò all'Accademia di Bologna e quando tornò a Venezia si dedicò alla raccolta di volumi preziosi, anche ricorrendo a volte ad astuti sotterfugi pur di ottenere rari manoscritti.
La sua biblioteca divenne col tempo una delle più ricche in città, non solo per i numerosi volumi, ma anche per la ricercatezza ed eleganza della rilegatura, tutti i testi infatti erano rilegati in cuoio rosso con lo stemma dei Foscarini.
Purtroppo nell'Ottocento la biblioteca fu dispersa assieme alle fortune della casata. Lo stato austriaco s'appropriò di ben 497 codici, inviati alla Biblioteca Imperiale di Vienna, mentre i libri stampati furono venduti alla spicciolata.
Marco Foscarini, oltre a raccogliere libri e manoscritti, si dilettava con lo studio della poesia latina e italiana, egli stesso scrisse componimenti poetici. Quando Marco raggiunse l'età prestabilita, entrò nella carriera politica, raggiungendo i più alti vertici. Nel 1762 venne eletto doge, ma il suo dogado fu breve: egli infatti, appena eletto, si sentì male e la sua salute continuò a peggiorare. Al suo letto furono convocati nove medici e quattro chirurghi che lo sottoposero alle cure più assurde: fu salassato cinque volte, gli furono imposti quaranta clisteri, innumerevoli frizioni e medicine per bocca, gli vennero estratti i calcoli alla vescica e asportate emorroidi, tutti interventi che gli procurarono febbri altissime, capogiri, dolori, difficoltà respiratorie e ovviamente... la morte!
venerdì 17 febbraio 2012
Venezia nel 1500 a volo d'uccello
Nel 1500 Jacopo de' Barbari disegnò e incise quel capolavoro che ancora oggi non finisce di stupire: la pianta di Venezia a volo d'uccello. L'impressionante precisione tecnica e prospettica la rese fin da subito, e per i secoli a seguire, un punto di riferimento sicuro per storici, architetti, studiosi o semplici curiosi della storia di Venezia.
Come per diversi artisti rinascimentali, la vita del de’ Barbari è praticamente sconosciuta: si suppone sia nato intorno al 1440 a Venezia, ma non è mai stato trovato un certificato di nascita, così come è incerta la data di morte (forse il 1515). Anche l'attribuzione di alcune sue opere risulta difficile per via dell'insolita abitudine di firmarle con il simbolo del pianeta Mercurio. In ogni caso il de' Barbari era già piuttosto celebre prima della fine del Quattrocento, grazie ad alcune opere eseguite per l’imperatore Massimiliano d’Asburgo.
I suoi lavori ricevettero apprezzamenti anche da illustri colleghi come Albrecht Durer (1471-1528), cui si devono alcune annotazioni interessanti sulla vita dell’elusivo artista. Allievo di Alvise Vivarini, Barbari si dimostrò estremamente ricettivo verso la tradizione figurativa nord-europea, riadattandola con felici intuizioni alle proprie radici italiane.
Oltre alla pittura in senso stretto il de' Barbari praticò anche l’intaglio del legno e l’incisione a stampa. Tra i lavori di questo breve periodo, vanno sicuramente ricordati la meravigliosa mappa aerea di Venezia, realizzata con stupefacente precisione millimetrica, ed uno splendido bozzetto di Cleopatra, conservato al British Museum di Londra.
Purtroppo il de' Barbari è oggi quasi dimenticato in Italia, nonostante la presenza di diverse opere custodite a Venezia e alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Gode invece di notevole popolarità in Inghilterra come testimoniato dai grandi apprezzamenti ricevuti per l’esposizione di alcuni suoi pezzi al British Museum, nell’ambito della grande mostra dedicata ai disegni rinascimentali, tra cui spiccava una spettacolare stampa della veduta di Venezia realizzata con sei blocchi di legno di grandi dimensioni su sei fogli di carta che sono stati poi uniti per coprire una superficie di quasi quattro metri quadrati!
La stampa del British Museum è una delle undici originali sopravvissute dalla prima xilografia del 1500 (i blocchi di legno originali sono al Museo Correr di Venezia). L'editore della stampa fu Anton Kolb, un mercante tedesco di Norimberga, che risiedeva a Venezia. Le dimensioni della sua xilografia erano assolutamente senza precedenti. A Kolb venne concesso il diritto d'autore sul design da parte del governo della Serenissima, e venne autorizzato a vendere le stampe al prezzo, allora molto elevato, di tre ducati.
Come per diversi artisti rinascimentali, la vita del de’ Barbari è praticamente sconosciuta: si suppone sia nato intorno al 1440 a Venezia, ma non è mai stato trovato un certificato di nascita, così come è incerta la data di morte (forse il 1515). Anche l'attribuzione di alcune sue opere risulta difficile per via dell'insolita abitudine di firmarle con il simbolo del pianeta Mercurio. In ogni caso il de' Barbari era già piuttosto celebre prima della fine del Quattrocento, grazie ad alcune opere eseguite per l’imperatore Massimiliano d’Asburgo.
I suoi lavori ricevettero apprezzamenti anche da illustri colleghi come Albrecht Durer (1471-1528), cui si devono alcune annotazioni interessanti sulla vita dell’elusivo artista. Allievo di Alvise Vivarini, Barbari si dimostrò estremamente ricettivo verso la tradizione figurativa nord-europea, riadattandola con felici intuizioni alle proprie radici italiane.
Oltre alla pittura in senso stretto il de' Barbari praticò anche l’intaglio del legno e l’incisione a stampa. Tra i lavori di questo breve periodo, vanno sicuramente ricordati la meravigliosa mappa aerea di Venezia, realizzata con stupefacente precisione millimetrica, ed uno splendido bozzetto di Cleopatra, conservato al British Museum di Londra.
Purtroppo il de' Barbari è oggi quasi dimenticato in Italia, nonostante la presenza di diverse opere custodite a Venezia e alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Gode invece di notevole popolarità in Inghilterra come testimoniato dai grandi apprezzamenti ricevuti per l’esposizione di alcuni suoi pezzi al British Museum, nell’ambito della grande mostra dedicata ai disegni rinascimentali, tra cui spiccava una spettacolare stampa della veduta di Venezia realizzata con sei blocchi di legno di grandi dimensioni su sei fogli di carta che sono stati poi uniti per coprire una superficie di quasi quattro metri quadrati!
La stampa del British Museum è una delle undici originali sopravvissute dalla prima xilografia del 1500 (i blocchi di legno originali sono al Museo Correr di Venezia). L'editore della stampa fu Anton Kolb, un mercante tedesco di Norimberga, che risiedeva a Venezia. Le dimensioni della sua xilografia erano assolutamente senza precedenti. A Kolb venne concesso il diritto d'autore sul design da parte del governo della Serenissima, e venne autorizzato a vendere le stampe al prezzo, allora molto elevato, di tre ducati.
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