Detta l'Isola dei Cipressi , San Giorgio Maggiore ospita un luogo singolare al quale si accede dalla Fondazione Giorgio Cini, penetrandovi idealmente attraverso una delle tre porte che danno accesso al convento le quali si scorgono osservando l'isola dalla riva opposta, secondo il progetto dell'architetto rinascimentale Giambattista Bregno (1508), sottostante il rilievo marmoreo di San Giorgio a cavallo.
Secondo il romanzo esoterico Hypnerotomachia Poliphili, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499, il significato delle tre porte è, per il neofita, il seguente: la prima porta Gloria Dei, la seconda Mater Amoris, la terza Gloria Mundi.
Progettato nel 1952 da Luigi Vietti e Angelo Scattolin, il Teatro Verde è invece un'opera moderna caratterizzata da un esasperato classicismo, che se riprende la forma del teatro greco da una parte, dei teatri di "verzura" delle ville venete, assume dall'altra, in virtù delle gradinate di pietra e della corona di cipressi secolari, un tratto decisamente sepolcrale e funereo.
Caduto in disgrazia dopo memorabili rappresentazioni notturne di Romeo e Giulietta e della Carmen di Bizet, lo straordinario anfiteatro di 1500 posti, con palcoscenico di 56 metri sul fronte e 210 metri quadri complessivi, giace oggi in completo abbandono. Tuttavia gli alti spiriti che ancora aleggiano nell'atmosfera del Teatro Verde sono quelli di Gabriele D'Annunzio e di Eleonora Duse (le cui lettere sono conservate negli archivi della Fondazione Cini), in particolare riecheggiano ancora le rappresentazioni de La Nave e La Città morta (perché secondo certe indicazioni contenute nel romanzo Il Fuoco, la tragedia d'ambientazione archeologica si sarebbe configurata nella mente dell'autore durante una passeggiata meridiana per Venezia): "Entravano nel campo San Cassiano deserto sul suo rio livido, e la voce e i passi echeggiarono come in un circo di rupi, chiaramente, nel rombo che veniva dal Canal Grande come da un fiume...".
Il Teatro Verde riprende, nella cornice buia e priva di rumori esterni, la condizione notturna in cui ebbe a sprigionarsi dalla mano cieca di D'Annunzio, nell'inverno caliginoso del 1916, la più tenue e duratura fiammella del fantastico veneziano.
lunedì 3 ottobre 2011
Teatro Verde sull'Isola di San Giorgio Maggiore
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lunedì 26 settembre 2011
Streghe a Venezia
A parte qualche caso sporadico (come tale Francesco Barozzi che si considerava un mago), fatture, magie e stregonerie erano a Venezia ad esclusivo appannaggio delle donne, o loro attribuite dalla cultura dell'Inquisizione. Contrariamente alla tradizione, le streghe della Serenissima, o quelle che si ritenevano tali, non professavano culti e patti diabolici con malefizi mortali, sabba od orge demoniache, ma si limitavano per lo più a piccole magie e fatture "casalinghe" riguardanti la salute oppure i tormenti amorosi.
Le streghe veneziane non adoravano il demonio ma al massimo lo invocavano, pagandogli addirittura in anticipo i favori gettando delle monete e manciate di sale sul fuoco; l'unica raffigurazione diabolica che conoscevano era quella presente tra le carte dei Tarocchi.
A volte si ritrovavano presso il cimitero ebraico del Lido, luogo considerato carico di poteri occulti.
Si trattava in sostanza di una stregoneria spicciola, patrimonio dei ceti più poveri dai quali provenivano la maggioranza di queste donne, che applicavano antichi segreti e pratiche di dubbia efficacia. I segreti venivano rivelati di generazione in generazione nelle notti di Natale o in punto di morte e venivano poi usati come mezzo di sostentamento.
Alcune presunte streghe erano anche cortigiane: c'era la convinzione che sapessero fare fatture e incantesimi affinché gli uomini si innamorassero di loro.
Queste fattucchiere sarebbero rimaste anonime se il Sacro Tribunale dell'Inquisizione non si fosse accanito nella caccia alle streghe. Nel resto dell'Europa gli Inquisitori sfogavano le proprie frustrazioni su povere donne che venivano plagiate, sottoposte a torture e mandate al rogo. Per fortuna, data la particolarità della società veneziana, nessun rogo fu mai acceso nel territorio della Serenissima e le torture vennero applicate in pochissimi casi; questo anche perché il governo veneziano, sempre mal disposto nei confronti della Chiesa di Roma, aveva saputo, sottilmente e tra le quinte, conferire un indirizzo speciale alla questione.
(fonte: Brusegan)
Le streghe veneziane non adoravano il demonio ma al massimo lo invocavano, pagandogli addirittura in anticipo i favori gettando delle monete e manciate di sale sul fuoco; l'unica raffigurazione diabolica che conoscevano era quella presente tra le carte dei Tarocchi.
A volte si ritrovavano presso il cimitero ebraico del Lido, luogo considerato carico di poteri occulti.
Si trattava in sostanza di una stregoneria spicciola, patrimonio dei ceti più poveri dai quali provenivano la maggioranza di queste donne, che applicavano antichi segreti e pratiche di dubbia efficacia. I segreti venivano rivelati di generazione in generazione nelle notti di Natale o in punto di morte e venivano poi usati come mezzo di sostentamento.
Alcune presunte streghe erano anche cortigiane: c'era la convinzione che sapessero fare fatture e incantesimi affinché gli uomini si innamorassero di loro.
Queste fattucchiere sarebbero rimaste anonime se il Sacro Tribunale dell'Inquisizione non si fosse accanito nella caccia alle streghe. Nel resto dell'Europa gli Inquisitori sfogavano le proprie frustrazioni su povere donne che venivano plagiate, sottoposte a torture e mandate al rogo. Per fortuna, data la particolarità della società veneziana, nessun rogo fu mai acceso nel territorio della Serenissima e le torture vennero applicate in pochissimi casi; questo anche perché il governo veneziano, sempre mal disposto nei confronti della Chiesa di Roma, aveva saputo, sottilmente e tra le quinte, conferire un indirizzo speciale alla questione.
(fonte: Brusegan)
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giovedì 22 settembre 2011
Campo dell'Abbazia e Scuola della Misericordia
La Scuola della Misericordia nasce col nome di "Santa Maria in Valverde" (per via dell'antica presenza di orti e giardini nella zona) ed è tra le più antiche di Venezia, in quanto le prime notizie di un insediamento religioso risalgono all'anno 936, con l’erezione di una Abbazia e la creazione di un ospizio per pellegrini e bisognosi.
L'attuale edificio che si affaccia sul Campo dell'Abbazia risale invece al 1200, e coeva risulta la chiesa ad angolo (la cui facciata però venne rifatta nel Seicento). Già dopo due soli secoli la sede della Scuola risulta troppo piccola e viene deliberata la costruzione della Scuola Nuova, per opera del Sansovino, dall'altra parte del rio. La Scuola Nuova venne poi abbandonata con l'arrivo di Napoleone e utilizzata per gli usi i più disparati (oggi è sede espositiva).
Il Campo dell'Abbazia è un punto tra i più suggestivi del sestiere di Cannaregio, proteso come appare sull'incrocio di due rii, in modo da assumere l'aspetto di uno scalo fluviale o, nei pomeriggi invernali, porto delle nebbie.
Facco De Lagarda lo descrive così, in una sua poesia degli anni Quaranta:
Esco e già scende la sera
sull'Abbazia calda ancora di sole,
davanti al portale di quercia
guizzano in torneo le rondini.
Lungo il deserto canale degli orti
l'acqua si gonfia nell'alta marea,
disegna molli arabeschi,
s'increspa a un colpo improvviso di vento.
Sosto,
vicino al capitello degli addii.
L'attuale edificio che si affaccia sul Campo dell'Abbazia risale invece al 1200, e coeva risulta la chiesa ad angolo (la cui facciata però venne rifatta nel Seicento). Già dopo due soli secoli la sede della Scuola risulta troppo piccola e viene deliberata la costruzione della Scuola Nuova, per opera del Sansovino, dall'altra parte del rio. La Scuola Nuova venne poi abbandonata con l'arrivo di Napoleone e utilizzata per gli usi i più disparati (oggi è sede espositiva).
Il Campo dell'Abbazia è un punto tra i più suggestivi del sestiere di Cannaregio, proteso come appare sull'incrocio di due rii, in modo da assumere l'aspetto di uno scalo fluviale o, nei pomeriggi invernali, porto delle nebbie.
Facco De Lagarda lo descrive così, in una sua poesia degli anni Quaranta:
Esco e già scende la sera
sull'Abbazia calda ancora di sole,
davanti al portale di quercia
guizzano in torneo le rondini.
Lungo il deserto canale degli orti
l'acqua si gonfia nell'alta marea,
disegna molli arabeschi,
s'increspa a un colpo improvviso di vento.
Sosto,
vicino al capitello degli addii.
lunedì 19 settembre 2011
Gli Squeri di Venezia
Gli squeri erano i cantieri per le barche, spazi più o meno grandi prospicienti un canale e degradanti verso l'acqua per poter agevolmente tirare in secco le imbarcazioni. Spesso hanno delle costruzioni alle spalle per poter lavorare al riparo dalle intemperie. Servono per la costruzione di barche di tutti i generi, comprese le gondole, ma anche per le loro riparazioni. Gli artigiani che vi lavorano vengono chiamati squeraròli, o maestri d'ascia, e provengono dalla categoria dei marangoni (falegnami).
L'esistenza degli squeri e dell'Arte degli Squeraroli era di fondamentale importanza per la Serenissima, in quanto lo sviluppo e la vita stessa della città dipendevano dall'acqua e dai suoi trasporti. La sede della loro Scuola era a San Trovaso, sotto la protezione di Santa Elisabetta, e proprio a San Trovaso esiste ancora un caratteristico squero per le gondole, meta di pittori, poeti e scrittori per il fascino che emana. Qui il tempo sembra essersi fermato: gli strumenti di lavoro sono quasi gli stessi che si usavano un tempo e l'odore della pece aleggia tra le gondole adagiate su un fianco, vicino alla casa che sembra uscita da una cartolina di montagna.
Un tempo gli squeri erano moltissimi, ora ne sono rimasti pochissimi; ve ne sono alcuni di pubblici, dove i cittadini possono tirare a secco le proprie barche per piccole riparazioni; sono dei semplici scivoli sull'acqua, a cielo aperto, e chi li usa si deve arrangiare.
L'esistenza degli squeri e dell'Arte degli Squeraroli era di fondamentale importanza per la Serenissima, in quanto lo sviluppo e la vita stessa della città dipendevano dall'acqua e dai suoi trasporti. La sede della loro Scuola era a San Trovaso, sotto la protezione di Santa Elisabetta, e proprio a San Trovaso esiste ancora un caratteristico squero per le gondole, meta di pittori, poeti e scrittori per il fascino che emana. Qui il tempo sembra essersi fermato: gli strumenti di lavoro sono quasi gli stessi che si usavano un tempo e l'odore della pece aleggia tra le gondole adagiate su un fianco, vicino alla casa che sembra uscita da una cartolina di montagna.
Un tempo gli squeri erano moltissimi, ora ne sono rimasti pochissimi; ve ne sono alcuni di pubblici, dove i cittadini possono tirare a secco le proprie barche per piccole riparazioni; sono dei semplici scivoli sull'acqua, a cielo aperto, e chi li usa si deve arrangiare.
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lunedì 12 settembre 2011
Scala Contarini del Bovolo
Il Palazzo Contarini del Bovolo (XV secolo) è celebre per la splendida scala elicoidale esterna a forma di chiocciola (in veneziano: bovolo) che si innesta armonicamente alla facciata a loggiati sovrapposti. La scala risulta esser stata realizzata attorno al 1499 da Giovanni Candi. Dietro la cancellata sono visibili alcune vere da pozzo e una pietra tombale della vicina chiesa di San Paternian (abbattuta).
Lo scrittore veneziano Renato Pestriniero ha dedicato a questo insolito monumento il racconto Nodi, pubblicato per la prima volta nel 1981. Si tratta di un'interpretazione visionaria di notevole suggestione:
"Avevamo lasciato Campo Manin per inoltrarci nell'unico accesso alla corte, una fessura in ombra tra cataste di case antiche, occhiaie nere, bocche di cantine putrescenti, muri di mattoni corrosi dalla salsedine, e alla fine ecco la corte, piccola e raccolta, un pozzo formato da pareti di case sovrapposte, protuberanze, anfratti, un labirinto di volumi incastrati l'uno nell'altro nel corso dei secoli. La scala sorge lì. E' una spirale di gradini che si avvolge all'esterno di una torre cilindrica, un nastro orlato di trine marmoree, un capriccio architettonico.
Cominciai a salire aggirando il corpo cilindrico della costruzione sul quale si avvolge la scala. Sul lato esterno la serie ininterrotta di archi si apriva su un vuoto grigio. Ad ogni decina di gradini passavo accanto a una porta di legno simile a quella dalla quale ero uscito. Un numero così elevato di porte faceva prevedere una struttura interna ben strana. Sostai accanto ad una di esse. Filtravano suoni che non riuscivo ad interpretare, una sorta di scalpiccio, un mormorare proprio accanto all'uscio, eppure lontanissimo, passi soffici provenienti da un silenzio per immergersi in un altro silenzio.
Continuai a salire, ma quando ebbi completato un paio di volute e mi trovai nuovamente sulla verticale della corte, mi resi conto che nelle distanze c'era qualcosa di sbagliato..."
Lo scrittore veneziano Renato Pestriniero ha dedicato a questo insolito monumento il racconto Nodi, pubblicato per la prima volta nel 1981. Si tratta di un'interpretazione visionaria di notevole suggestione:
"Avevamo lasciato Campo Manin per inoltrarci nell'unico accesso alla corte, una fessura in ombra tra cataste di case antiche, occhiaie nere, bocche di cantine putrescenti, muri di mattoni corrosi dalla salsedine, e alla fine ecco la corte, piccola e raccolta, un pozzo formato da pareti di case sovrapposte, protuberanze, anfratti, un labirinto di volumi incastrati l'uno nell'altro nel corso dei secoli. La scala sorge lì. E' una spirale di gradini che si avvolge all'esterno di una torre cilindrica, un nastro orlato di trine marmoree, un capriccio architettonico.
Cominciai a salire aggirando il corpo cilindrico della costruzione sul quale si avvolge la scala. Sul lato esterno la serie ininterrotta di archi si apriva su un vuoto grigio. Ad ogni decina di gradini passavo accanto a una porta di legno simile a quella dalla quale ero uscito. Un numero così elevato di porte faceva prevedere una struttura interna ben strana. Sostai accanto ad una di esse. Filtravano suoni che non riuscivo ad interpretare, una sorta di scalpiccio, un mormorare proprio accanto all'uscio, eppure lontanissimo, passi soffici provenienti da un silenzio per immergersi in un altro silenzio.
Continuai a salire, ma quando ebbi completato un paio di volute e mi trovai nuovamente sulla verticale della corte, mi resi conto che nelle distanze c'era qualcosa di sbagliato..."
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lunedì 5 settembre 2011
Il triangolo amoroso di George Sand a Venezia
Autrice di un reportage su Venezia pubblicato sulla "Revue de deux mondes", l'anticonformista scrittrice francese (1804-1876) lega il suo nome a quello della città per essere stata protagonista di un chiacchierato triangolo erotico. In breve alla fine del mese di gennaio 1834 George Sand si trova a Venezia, presso l'Hotel Danieli, in compagnia di un amante più giovane di lei di sei anni, ma già illustre nella Parigi letteraria: Alfred de Musset. Il poeta però è febbricitante. Viene chiamato un medico abituato a trattare con l'esigente clientela dell'albergo, tale Pietro Pagello.
Quando, dopo alcuni giorni, De Musset riprende coscienza dal delirio delle febbri e vede il medico, comprende immediatamente quanto è accaduto: il medico premuroso si è preso cura anche della donna del paziente.
Alle sue domande pressanti la Sand risponde negando tacciandolo addirittura di visionario. Intanto però la tresca prosegue senza pause, sfruttando persino, allorché la passione risulta incontenibile, i recessi inopinabili del movimentato Danieli.
Dunque tutto si svolge secondo il copione del classico triangolo borghese, e questo non depone a favore della scapigliata coppia francese, a parole sprezzante di ogni forma di compromesso. Dei tre quello che, per così dire, ne uscirebbe meglio sarebbe proprio Pagello (che in fondo fa il suo dovere di medico di stazione turistica, obbediente al capriccio dell'ospite), se non si fosse fatto convincere dalla donna (che riceve dalle mani di un ormai stremato de Musset) a seguirla a Parigi.
Accompagnato da una fama di stallone, il Pagello si improvvisa battitore di mediocri quadri che da buon veneziano aveva portato in valigia, per sicurezza, non si sa mai, nei convegni e presso i salotti in cui la scrittrice lo trascina. Subisce però lo smacco del contro-triangolo: troppo per un italiano! Meglio scomparire di scena ritornando al suo regno di medico mandato dalla provvidenza, in più cortese e belloccio: Venezia, il Danieli, i turisti pieni di fregole e acciacchi.
Ma al Danieli non c'è una targa che lo ricordi.
(Fonti: M. Brusegan / A. Scarsella / M. Vittoria)
Quando, dopo alcuni giorni, De Musset riprende coscienza dal delirio delle febbri e vede il medico, comprende immediatamente quanto è accaduto: il medico premuroso si è preso cura anche della donna del paziente.
Alle sue domande pressanti la Sand risponde negando tacciandolo addirittura di visionario. Intanto però la tresca prosegue senza pause, sfruttando persino, allorché la passione risulta incontenibile, i recessi inopinabili del movimentato Danieli.
Dunque tutto si svolge secondo il copione del classico triangolo borghese, e questo non depone a favore della scapigliata coppia francese, a parole sprezzante di ogni forma di compromesso. Dei tre quello che, per così dire, ne uscirebbe meglio sarebbe proprio Pagello (che in fondo fa il suo dovere di medico di stazione turistica, obbediente al capriccio dell'ospite), se non si fosse fatto convincere dalla donna (che riceve dalle mani di un ormai stremato de Musset) a seguirla a Parigi.
Accompagnato da una fama di stallone, il Pagello si improvvisa battitore di mediocri quadri che da buon veneziano aveva portato in valigia, per sicurezza, non si sa mai, nei convegni e presso i salotti in cui la scrittrice lo trascina. Subisce però lo smacco del contro-triangolo: troppo per un italiano! Meglio scomparire di scena ritornando al suo regno di medico mandato dalla provvidenza, in più cortese e belloccio: Venezia, il Danieli, i turisti pieni di fregole e acciacchi.
Ma al Danieli non c'è una targa che lo ricordi.
(Fonti: M. Brusegan / A. Scarsella / M. Vittoria)
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giovedì 1 settembre 2011
Divertimenti veneziani
I luoghi prediletti dai veneziani per i loro divertimenti erano i casin, detti anche ridotti. Questi erano delle piccole case o soltanto delle stanze, dove i veneziani restavano fino all'alba per divertirsi giocando d'azzardo o intrattenendosi con delle cortigiane.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.
domenica 21 agosto 2011
Ponte delle Tette
Il Ponte delle Tette si trova a San Cassiano, nella zona detta delle Carampane. La storia di questo nome curioso è molto semplice. Vicino a Rialto, le Carampane era una di quelle aree di Venezia nelle quali le prostitute erano obbligate a concentrarsi per disposizione delle leggi sull'ordine pubblico.
Per attirare la clientela, esse sedevano sulle finestre a seno nudo e con le gambe penzoloni per mostrare tutte le loro grazie, o ancor di più, stavano completamente nude davanti alle finestre: il tutto proprio sopra il ponte in questione.
Si narra che potessero stare in questi atteggiamenti grazie ad un'ordinanza del XV secolo che, addirittura, le incoraggiava a mostrarsi per richiamare clienti. Questo per distogliere la popolazione maschile da un'ondata di omosessualità che era diventata quasi un problema di stato. Si ritrovano infatti, tra i fascicoli dei processi più famosi, molti casi contro omosessuali o per violenza "contro natura". Ad esempio tale Francesco Cercato fu impiccato per sodomia tra le colonne della Piazzetta San Marco nel 1480, e tale Francesco Fabrizio, prete e poeta, fu decapitato e bruciato nel 1545 per il "vizio inenarrabile". Comunque sia, sembra che l'omosessualità fosse molto diffusa nella Venezia del Cinquecento, tanto da indurre le prostitute, nel 1511, ad inviare una supplica al procuratore Antonio Contarini affinché facesse qualcosa in merito, perché sembrava non avessero più clienti.
Forse però la vera ragione della loro crisi economica era un'altra: nel 1509 a Venezia vi erano 11.654 cortigiane censite (su una popolazione di 150.000 abitanti...), con tale abbondanza di offerta sembra logico pensare che i guadagni pro-capite calassero di molto!
Per attirare la clientela, esse sedevano sulle finestre a seno nudo e con le gambe penzoloni per mostrare tutte le loro grazie, o ancor di più, stavano completamente nude davanti alle finestre: il tutto proprio sopra il ponte in questione.
Si narra che potessero stare in questi atteggiamenti grazie ad un'ordinanza del XV secolo che, addirittura, le incoraggiava a mostrarsi per richiamare clienti. Questo per distogliere la popolazione maschile da un'ondata di omosessualità che era diventata quasi un problema di stato. Si ritrovano infatti, tra i fascicoli dei processi più famosi, molti casi contro omosessuali o per violenza "contro natura". Ad esempio tale Francesco Cercato fu impiccato per sodomia tra le colonne della Piazzetta San Marco nel 1480, e tale Francesco Fabrizio, prete e poeta, fu decapitato e bruciato nel 1545 per il "vizio inenarrabile". Comunque sia, sembra che l'omosessualità fosse molto diffusa nella Venezia del Cinquecento, tanto da indurre le prostitute, nel 1511, ad inviare una supplica al procuratore Antonio Contarini affinché facesse qualcosa in merito, perché sembrava non avessero più clienti.
Forse però la vera ragione della loro crisi economica era un'altra: nel 1509 a Venezia vi erano 11.654 cortigiane censite (su una popolazione di 150.000 abitanti...), con tale abbondanza di offerta sembra logico pensare che i guadagni pro-capite calassero di molto!
mercoledì 10 agosto 2011
Simbolismo dell'acqua
"Il forestiero che arriva a Venezia dal rumore del mondo - scrive Marc Bloch - approda in una specie di liquido amniotico del silenzio", "L'acqua di Venezia - aggiunge Dominique Fernandez - non è acqua limpida: è consistente, sostanziale, prenatale, plasmatica". Ora il viaggio veneziano corrisponderebbe, secondo questa linea di pensiero al ritorno al grembo materno. Qualcuno ha persino collegato all'immagine del seno di donna, la struttura topografica e le numerose cupole fluttuanti nel cielo.
Loredana Gambuzzi, psicologa junghiana, campionando delle testimonianze di "genti disperse" trapiantate a Venezia, ha reso attendibile quest'ipotesi affascinante, che rilancia il tratto iniziatico originario di ogni grande insediamento urbano, non solo di Venezia, con la differenza che a Venezia, come grande isola pedonale, labirintica e difesa dall'acqua, esso sarebbe ancora direttamente percepibile.
Recenti teorie psicanalitiche riconoscono nelle acque di Venezia la capacità di portare a galla la nostra vera natura, spiegando pertanto il così vasto ventaglio di emozioni diverse che essa suscita; in pratica, ognuno vede in Venezia ciò che è lui stesso.
Venezia dunque assume la veste di iniziatrice, della Grande Madre che riceve l'iniziato e attraverso i suoi labirinti lo libera dalle strettoie della coscienza raziocinante, facendo riaffiorare l'energia della libido primordiale.
Occorre inoltre tener conto di quanto ricorda Enrico Raffi, scrittore della scuola di Alberto Moravia (che aveva pure lui una casa a Venezia, presso la Basilica della Salute): "Sono state le acque a salvare Venezia, quelle acque che dovrebbero infradiciare i ponti, ma che in questo caso sono più simili a quelle a cui dovette la vita il piccolo Mosè". Si analizzi questa frase alla luce della persistenza del mito biblico nel mito di Venezia: Mosè salvato dalle acque separerà le acque, come si auspicherebbe, per la salvezza della città, separare le acque del mare da quelle della laguna con una macchina dal nome "Mose".
Non a caso l'episodio della salvezza di Mosè dalle acque è stato affrontato anche da Tintoretto e Veronese, i quali collocano l'episodio biblico nel contesto di una sorta di gineceo. Acquaticità e femminilità sono dunque assunti come motivi convergenti e indissolubili.
Loredana Gambuzzi, psicologa junghiana, campionando delle testimonianze di "genti disperse" trapiantate a Venezia, ha reso attendibile quest'ipotesi affascinante, che rilancia il tratto iniziatico originario di ogni grande insediamento urbano, non solo di Venezia, con la differenza che a Venezia, come grande isola pedonale, labirintica e difesa dall'acqua, esso sarebbe ancora direttamente percepibile.
Recenti teorie psicanalitiche riconoscono nelle acque di Venezia la capacità di portare a galla la nostra vera natura, spiegando pertanto il così vasto ventaglio di emozioni diverse che essa suscita; in pratica, ognuno vede in Venezia ciò che è lui stesso.
Venezia dunque assume la veste di iniziatrice, della Grande Madre che riceve l'iniziato e attraverso i suoi labirinti lo libera dalle strettoie della coscienza raziocinante, facendo riaffiorare l'energia della libido primordiale.
Occorre inoltre tener conto di quanto ricorda Enrico Raffi, scrittore della scuola di Alberto Moravia (che aveva pure lui una casa a Venezia, presso la Basilica della Salute): "Sono state le acque a salvare Venezia, quelle acque che dovrebbero infradiciare i ponti, ma che in questo caso sono più simili a quelle a cui dovette la vita il piccolo Mosè". Si analizzi questa frase alla luce della persistenza del mito biblico nel mito di Venezia: Mosè salvato dalle acque separerà le acque, come si auspicherebbe, per la salvezza della città, separare le acque del mare da quelle della laguna con una macchina dal nome "Mose".
Non a caso l'episodio della salvezza di Mosè dalle acque è stato affrontato anche da Tintoretto e Veronese, i quali collocano l'episodio biblico nel contesto di una sorta di gineceo. Acquaticità e femminilità sono dunque assunti come motivi convergenti e indissolubili.
venerdì 22 luglio 2011
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