domenica 25 luglio 2010

Baccalà in turbante

Tracce della presenza di una prima comunità giudaica a Venezia risalgono al 1396, quando la Serenissima dispone loro un terreno confinante col convento di San Nicolò al Lido per seppellire i loro morti.
“Gli ebrei sono più necessari dei panificatori” dice lo storiografo Marin Sanudo, che nel 1519 parla di circa 700 persone tra uomini e donne. La Repubblica infatti li accoglie anche per la loro utilità, visto che l’usura è proibita ai cristiani.
A dispetto della marginalità spaziale, Venezia privilegia ed è a sua volta privilegiata dalla diaspora ebraica.
Gli stranieri che durante il loro Grand Tour fanno tappa nella città lagunare vengono immancabilmente catturati dal ghetto, luogo di studio e di cultura cosmopolita. Un’andata (con biglietto di ritorno) verso al cultura ebraica è rappresentata dall’arte culinaria: un seducente viaggio attraverso la gola, pericoloso ma momentaneo, una sorta di traghetto dalla chiesa alla sinagoga che ogni cristiano può intraprendere varcando semplicemente il cancello del ghetto.
La cucina del ghetto veneziano è una fusione di elementi arabi, importati dei sefarditi attraverso la Spagna, e di piatti di origine tedesca arrivati con gli ashkenaziti. Ai primi si devono fantasiosi piatti di uova rosti nella brase, conciati con acqua di rose, zucchero e cannella, il bollo confettato, chiamato boyos de pan, buccellato o bussolà, un pane allungato o una treccia composta di farina, zucchero, uova, uva passa, anicini e olio d’oliva. Ai secondi si è debitori di una vasta gamma di piatti che vanno del gefilte fish o ‘pesce dolce alla todesca’, al kelbere krous, budella di vitello ripiene di grasso e farina, al mandel reis, un delicato riso alle mandorle.
Non mancano, malgrado le restrizioni, le carni: “Ciò che Dio proibisce, Dio permette in altre forme”, e l’oca diventa per l’ebreo l’equivalente del maiale per il cristiano. Nel trattare le sue carni i beccai hebrei si dimostrano insuperabili. Il suo grasso diventa valido sostituto dello strutto e anche del più costoso olio d’oliva, ma soprattutto vi si ricavano, salsicce, luganeghe, prosciutti, salami, insomma vere prelibatezze definite con termini volutamente ammiccanti ed equivoci, che viaggiano nella stessa direzione del maiale negato, con il quale l’oca condivide il calendario della vita e della morte.
Inevitabili anche le contaminazioni con la cucina veneta e se è impossibile non rilevare l’intreccio intrigante tra ‘galani’ e ‘orecchie di Amman’, meno problematico è l’accostamento di spinaci e baccalà (alias stoccafisso), giudaici i primi, fortemente veneziano il secondo (per essere arrivato dalle Isole Lofoten con capitano Pietro Quercini): è il Baccalà in turbante.
Ecco la ricetta.
Si porta lo stoccafisso a bollore, lasciandolo riposare per alcuni minuti; si dilisca, si trita a pezzettini e si mescola con tre cucchiai di farina. Si rosola nel burro, aggiungendo latte fino ad avere una crema densa. Si incorporano gli spinaci lessati. Si lega il composto con le uova, sale e un pizzico di noce moscata. Si mette il tutto in uno stampo rotondo col buco in mezzo e si cuoce in forno a bagnomaria. L’effetto del turbante è assicurato.

venerdì 23 luglio 2010

Tobia Ravà in mostra a Venezia

Si inaugura domani, 24 luglio 2010, “Vele d’infinito”, la personale di Tobia Ravà organizzata dalla Venezia Terminal Passeggeri, società che dal 1997 gestisce il traffico passeggeri nel Porto di Venezia.
Dodici tele ed una scultura, che hanno come filo conduttore il viaggio ed il mar Mediterraneo. I lavori  saranno in esposizione all’interno del Terminal 107, primo piano, fino al 15 ottobre 2010.
Ravà, artista veneziano laureatosi in semiologia delle arti a Bologna, dove è stato allievo tra gli altri di Umberto Eco, fin dagli anni ’70 ha partecipato a mostre personali e collettive in Italia, Belgio, Croazia, Francia, Germania, Spagna, Brasile, Argentina, Giappone e Stati Uniti.
Tra i fondatori dei collettivi AlcArte e Concetto d’Arte Contemporanea, dal 1988 si occupa di iconografia ebraica svolgendo un lavoro di ricerca e schedatura nell’ambito dell’epigrafia ebraica nel Triveneto.
Il suo nome è di recente salito agli onori della cronaca in occasione della visita alla Sinagoga di Roma da parte di Benedetto XVI, in quanto il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma ha scelto una sua opera, La direzione spirituale, quale dono al Pontefice.
Nella mostra alla stazione passeggeri, attraverso dodici grandi vele realizzate in raso, Tobia Ravà, rende omaggio alla cultura ebraica europea ed italiana in particolare, utilizzandone la lingua, soprattutto nella sua specificità iconografica, come elemento strutturale e cognitivo per disegnare paesaggi legati al Mediterraneo e all’entroterra veneto dal grande valore simbolico. Elementi chiave per la sua opera, la kabbalah e la ghematria che lega ogni lettera ad un numero ed unisce parole dello stesso valore numerico tra loro.
Cifra stilistica che ritorna nell’unica scultura in mostra, il Leviatano Infinito che prende l’immagine di uno squalo tigre in scala 1:1. Ogni elemento del pesce è costruito con una logica cabalistica diversificata: la coda è formata dai valori numerici e dai concetti relativi ai diversi livelli dell’anima umana; le branchie dai quadrati magici, mentre il resto del corpo sviluppato da equazioni relative ai valori numerici dei concetti principali della mistica ebraica.
“Il mio lavoro ha uno sviluppo intimamente legato alla lingua ebraica antica, - sottolinea Tobia Ravà - , ha un debito profondo con un idioma che era quella dei mercanti del Medioevo e del Rinascimento. Uomini che viaggiavano soprattutto per mare. La scelta di questa sede espositiva, la Stazione Marittima di Venezia, città in simbiosi da sempre con l’elemento acquatico, non può che rafforzarne la capacità evocativa”.
Entusiasta della mostra, l’amministratore delegato della Venezia Terminal Passeggeri, Roberto Perocchio: “ Il Terminal Crociere è ormai una vetrina qualificata per far conoscere ad un pubblico internazionale l’arte e le bellezze della nostra città. Quasi un milione e 600 mila crocieristi potranno, già dal momento dello sbarco, familiarizzare con uno degli artisti veneziani più rappresentativi di oggi, Tobia Ravà, la cui personale si inserisce nell’ambito di “Summer of Arts – The Art exhibition of the cruising season”. Rassegna espositiva promossa da VTP che, attraverso un ciclo di mostre, ogni anno accende i riflettori sui protagonisti dell’arte contemporanea”.

martedì 20 luglio 2010

Una veneziana sul trono di Costantinopoli

Nel 1559 un certo Hasan, che si dice inviato del principe turco Selim II, arriva a Venezia con l'incarico di raccogliere notizie sul casato della moglie del suo signore.
La storia è curiosa. Una patrizia veneziana, Cecilia, rapita da Barbarossa a Paros nel 1537, è finita nel serraglio del sultano dei turchi. E' figlia di Nicolò Venier, che governa l'isola per conto della Serenissima, e di Violante Baffo.
Fatta schiava, la giovane viene condotta a Costantinopoli, impara il turco, diventa musulmana e prende il nome di Nur Banu, "Signora Luce".
Il suo splendore tramortisce Selim, Principe Ottomano, un uomo non facile e a quanto pare non proprio gradevole, smodato nel bere e tanto grasso da non poter stare neanche a cavallo.
Nur s'impone con intelligenza e nel 1546 l'unione viene cementata dalla nascita di Murat.
La personalità di Nur si delinea nitidamente con gli anni, per esprimersi a pieno durante il regno del figlio, il piccolo e tozzo Murat, non spiacente nel volto, ma debole di carattere e non incline agli affari di Stato. E' allora che la potente sultana comincia ad intervenire nella condizione dell'impero: propone ministri e gran visir, si mantiene in contatto con i governi europei (in particolare con Venezia), e corrisponde con altre signore dell'epoca, come Caterina de' Medici, reggente del regno di Francia.
Nur Banu personifica l'essenza della cultura ottomana, e se in privato coltiva abitudini e convinzioni d'altro genere non lo sapremo mai. Visita i santi musulmani, fa devozione, promuove la costruzione di opere pie, finanza fondazioni religiose.
Muore il 7 dicembre del 1538, dopo una breve ma devastante malattia, circondata dal sospetto di avvelenamento.
Secondo il suo volere viene seppellita nel complesso della Basilica di Santa Sofia, in un piccolo mausoleo decorato con splendide ceramiche di Iznik.
Un estremo desiderio, forse espresso per riannodare il filo spezzato della sua origine cristiana ed europea
.

giovedì 15 luglio 2010

Voga alla veneziana

Nel mio precedente post ho citato una breve poesia del Busanelli che conclude con questo verso: "Se va gridando sempre o stali o premi", che, per chi non è pratico di voga veneta, risulta incomprensibile.
Vengo allora a spiegare.
A Venezia c'è una particolare tecnica, un modo specifico di vogare, specialmente, ma non solo, in gondola, così che il vogatore ha l'aria di assecondare il movimento anziché produrlo, ma la cosa non è così facile come sembra, giacché il rematore deve combinare due operazioni, una per imprimere la spinta alla barca, l'altra per mantere la rotta, appunto perché essendo prive di timone, è sempre il remo che assolve entrambi i compiti.
Del resto la terminologia rematoria veneziana si riassume nella coniugazione di tre verbi: premare, stagare e sciare. La vogata premando è quella basilare: tuffata la pala del remo obliquamente, subito bisogna spingere sul remo che è appoggiato alla forcola, in modo da eccitare la resistenza del mezzo. Ma allora onde evitare che la barca finisca per girare su se stessa, il rematore deve leggermente ruotare il remo sulla forcola in modo che la pala, costretta sott'acqua, compia un movimento inverso al primo, così la contromanovra neutralizza le conseguenze della spinta quel tanto che basta a rettificare la direzione del natante, che fila dritto.
Il secondo tempo della vogata è quasi un riposo del remo, d'onde la voce stagare che significa stare o sostare. E di qui gli strani avvertimenti che i vogatori si lanciano alle svolte dei canali: premi o stai, che devono interpretarsi come un suggerimento di manovra al vogatore che viene incontro.
Ma se occorre arrestare la barca all'improvviso, come si fa? Sciando, cioè ponendo il remo davanti alla forcola, la quale servirà come leva per sviluppare una forza contraria.
Anche la direzione della marea è un elemento di cui tener conto: la barca che va a seconda, cioè segue la marea, è in condizione privilegiata rispetto all'imbarcazione che va a contraria, cioè che rimonta la marea, e di qui la facoltà a questa di disporre di più ampia manovra.

... "Se va gridando sempre o stali o premi"

lunedì 12 luglio 2010

Fresco letterario in Canalasso

Giovedì scorso ho avuto l'opportunità di partecipare al "Fresco letterario in Canalasso 2010".
E' stata una bellissima esperienza: decine di barche a remi lungo il Canal Grande, veneziani appassionati e associazioni remiere, per non dimenticare il passato di Venezia, mangiando, bevendo, godendosi il tramonto e i racconti di Alberto Tosi Fei.
Io poi sono stato particolarmente fortunato giacché ero in compagnia di amici su una vera gondola!

Ma cos'è un "fresco"?
Si tratta di una antica tradizione veneziana, in pratica sono cortei di barche, così chiamati perché vi si prendeva il fresco nelle giornate calde. Tali incontri cominciavano dopo Pasqua e si svolgevano in occasione di feste o sagre, verso il calar del sole, vi si partecipava con la propria gondola, per mangiare, bere e ciacolare tra amici.

I freschi furono anche cantati dal poeta secentista Busanelli:

L'istae al fresco gondole a do remi 
Se vede in Canal Grande senza fin
E in mezzo l'armonia di un violin
Se va gridando sempre o stali o premi

Qui trovate alcune foto che ho scattato durante la serata
.

venerdì 9 luglio 2010

Magia a Venezia


“Ma veniamo all’inizio della mia esistenza di essere pensante. Al principio d’agosto del 1733 mi si sviluppò la facoltà della memoria. Avevo dunque otto anni e quattro mesi. Di ciò che può essermi accaduto prima di quella data, non serbo alcun ricordo. Ecco come andò la cosa.

Me ne stavo in piedi nell’angolo di una stanza, a ridosso del muro, con il capo e gli occhi fissi sul sangue che mi usciva in gran copia dal naso e scorreva a terra. Mia nonna Marzia, della quale ero il beniamino, mi si accostò, mi lavò il viso con acqua fredda e, all’insaputa di tutti i famigliari, mi fece salire con lei su una gondola e mi condusse a Murano.

Scendemmo dalla gondola ed entrammo in una catapecchia dove trovammo una vecchia seduta su un misero giaciglio, con un gatto nero in braccio e altre cinque o sei di queste bestie intorno. Era una fattucchiera. Le due vecchie tennero tra loro un lungo conciliabolo di cui io dovevo essere il soggetto. Alla fine del dialogo, che si svolse in dialetto friulano, la strega, ricevuto che ebbe da mia nonna un ducato d’argento, aprì una cassa, mi prese tra le braccia, mi ci mise dentro e mi ci chiuse, raccomandandomi di non aver paura. In verità era proprio il modo di farmela venire, se solo avessi avuto un barlume di coscienza, ma ero come inebetito. Così me ne stetti cheto, con il fazzoletto pigiato sul naso perché perdevo sangue, del tutto indifferente al baccano che mi giungeva da fuori. Sentivo alternativamente ridere e piangere, gridare, cantare e picchiare sulla cassa.

Mi tirarono finalmente fuori e il mio sangue ristagnò. Allora, quella donna straordinaria, dopo avermi fatto una quantità di carezze, mi spoglia, mi adagia sul letto, brucia degli aromi, ne raccoglie il fumo in un lenzuolo, mi ci avviluppa strettamente, mi recita scongiuri, poi mi libera e mi dà da mangiare cinque confetti di gusto molto gradevole. Subito dopo mi sfrega le tempie e la nuca con un unguento che esala un soave profumo e mi riveste. Mi dice che la mia emorragia sarebbe andate sempre diminuendo, a patto che non raccontassi ad anima viva ciò che aveva fatto per guarirmi, e mi minaccia invece della perdita di tutto il sangue e della conseguente morte nel caso osassi svelare a qualcuno i suoi segreti.

Dopo avermi così catechizzato, mi predice per la notte la visita di un’incantevole dama, dalla quale sarebbe dipesa la mia felicità, se fossi stato capace di non dire a nessuno di averla ricevuta. Quindi, io e la nonna partimmo e facemmo ritorno a casa.

Appena a letto, mi addormentai senza neanche ricordarmi della dolce visita che dovevo ricevere; ma quando mi sveglia qualche ora dopo, vidi o credetti di veder scendere dal camino una splendida donna in crinolina, tutta elegante e con in testa una corona costellata di pietre preziose che mi pareva mandassero faville infuocate. A passi lenti e con un’aria dolce e maestosa, venne a sedersi sul mio letto. Trasse di tasca alcune scatolette e me ne rovesciò il contenuto sul capo, mormorando alcune parole. Quindi, dopo avermi rivolto un lungo discorso, di cui non compresi una parola, e dopo avermi baciato sulla testa, se ne andò per dove era venuta, e io mi riaddormentai.”

(Memorie di Giacomo Casanova)

lunedì 5 luglio 2010

Indiani in Laguna

Da sempre i veneziani sono considerati dei validi navigatori. Sembra che alcuni di essi facessero parte dell'equipaggio della piccola flotta di Erik il Rosso quando, all'inizio del XI secolo, superati l'Islanda e i banchi di Terranova raggiunse l'attuale Maine per fondare la mitica Vinland, "terra del vino e del miele", la prima comunità bianca del Mondo Nuovo.
Tutto questo molto prima di Colombo e dei Caboto...
Quella piccola colonia seppe convivere con gli indigeni per parecchi anni, finché, sembra per una storia di donne, i rapporti con gli indiani si guastarono e i bianchi dovettero fuggire.
Si racconta che uno di questi marinai di origine veneziana ritornò a Mazzorbo, completamente tatuato, accompagnato da una donna dai grandi orecchini e dai lunghi capelli nerissimi. La si vedeva spesso avvolta nella sua colorata coperta guardare lontano oltre le barene...
I due ebbero molti figli, che non tatuarono. Sembra inoltre che la donna fosse bravissima a conciare le pelli. Quell'inverno quasi tutti a Mazzorbo circolavano con dei vistosi berretti di pelle di coniglio...

Fonte: Fuga e Vianello

venerdì 2 luglio 2010

Visitare Venezia in barca

La mia attività a Venezia si è arricchita di un nuovo servizio:
Percorsi in barca

Si tratta di due (per adesso) percorsi in barche a remi, su imbarcazioni tipiche della laguna veneta, con uno o due vogatori ed un accompagnatore (che sarei io), grazie ai quali è possibile ammirare Venezia dai suoi rii e rivivere al contempo l'antica consuetudine veneziana di muoversi via acqua.

Per maggiori info:
http://www.laltravenezia.it/percorsi-in-barca.php

E' una possibilità quasi unica dato che l'alternativa ad oggi è data solo dalle costosissime gondole. Con in più, rispetto a queste ultime, la possibilità di avere un profondo conoscitore della città che spiega cosa si sta vedendo (con la stessa logica dei miei già avviati percorsi a piedi).

Non da ultimo il fine di far rivivere, usandole, delle tipiche barche a remi che altrimenti resterebbero abbandonate, soppiantate dalle inquinanti e rumorose barche a motore.

Una magia, quella di Venezia via acqua, che meritava tutto l'impegno che abbiamo profuso al fine di proporre questo nuovo servizio.

giovedì 1 luglio 2010

L'anello del pescatore

Il 15 febbraio 1340 a Venezia si ebbe una gravissima inondazione.
La tradizione narra che quella notte, durante l'infuriare della tempesta, un anziano pescatore che con la sua barca si era riparato sotto il Ponte della Paglia, venne avvicinato da un elegante vegliardo che lo invitò a portarlo prima sull'isola di San Giorgio, dove salì un guerriero in armi e poi al Lido, a San Nicolò, dove, davanti all'abbazia, li attendeva un anziano prelato in abiti vescovili.
I tre chiesero quindi al pescatore di portarli fuori dalla bocca di porto di San Nicolò, in mare aperto, senza dare nessuna spiegazione. Seppur impaurito, il pescatore condusse con la propria imbarcazione i tre sconosciuti verso il mare, dove, tra flutti, spruzzi, venti impetuosi e lampi accecanti era comparsa una galea armata completamente nera, perfino le vele e il fasciame erano neri, piena di diavoli urlanti e guidata da Belzebù in persona, con l'intento di entrare in Venezia.
Avvicinatisi alla nave che, minacciosa, attentava alla città, il primo dei tre sconosciuti, che altri non era se non San Marco in persona, con un semplice segno della mano la fece naufragare con gran folgore di vento, inghiottita in un vortice d'acqua.
Rientrati, il pescatore fece sbarcare il primo dei tre personaggi a San Nicolò del Lido, il secondo nell'isola di San Giorgio e l'ultimo dinanzi al Palazzo Ducale. Quest'ultimo, l'evangelista, rivolgendosi al pescatore, spiegò che il primo a scendere era San Nicola, il protettore dei marinai, e il secondo San Giorgio, l'uccisore del drago. E perché tutti potessero credere al miracolo, consegnò al pescatore un anello col compito di portarlo ai procuratori della Basilica di San Marco e di spiegare l'accaduto.
L'uomo vi si recò e, come prova del miracolo, mostrò l'anello che essi subito riconobbero come quello celato nella Chiesa, conservato nel Tesoro di San Marco, e che mai nessuno avrebbe potuto prendere.
Accompagnarono quindi il vecchio pescatore dinanzi al Doge, il quale riconosciuto l'anello ordinò una pubblica processione di ringraziamento. Il pescatore, devoto e coraggioso, venne ricompensato con una ricca pensione.

La leggenda dell'anello del pescatore è illustrata in un quadro del pittore cinquecentesco Paris Bordon, oggi conservato alle Gallerie dell'Accademia. Anche nel Tesoro Marciano della Basilica vi è una rappresentazione artistica di questa leggenda, si tratta di un magnifico arazzo eseguito dal fiammingo Giovanni Rost.

martedì 29 giugno 2010

Quiz veneziano

Quiz per veri esperti di Venezia:
su quale edificio si trova la patera qua a fianco?

(la risposta giusta, se nessuno indovina prima, sarà data domani)

lunedì 28 giugno 2010

Qualcuno dice che Venezia sta morendo...

L'altra sera ero a cena da una cugina di mia mamma che abita vicino a San Pietro in Castello.
Nata e cresciuta in campagna si trasferì a Venezia una ventina d'anni fa. All'inizio era preoccupata, temeva di non riuscire, abituata com'era alla campagna, ad adattarsi alla città.
Oggi dice che non andrebbe via da Venezia per nessun motivo al mondo.
Le ho chiesto perché, e lei mi ha risposto così:
"Perche qui non mi sento mai sola. Quando esco trovo sempre qualcuno che conosco e anche se incontro persone sconosciute ci si saluta e si scambiano due parole. C'è solidarietà tra vicini di casa, ci si aiuta. Nel campo sotto casa ci sono sempre i bambini che giocano (tra di loro, non con i videogame... nda), senza pericoli di sorta, e ogni tanto si organizzano feste alle quali partecipano anche tanti giovani"
Vi sembra la descrizione di una città che sta morendo??

giovedì 24 giugno 2010

Venezia e il suo mito

"Nobilissima" qualifica Venezia, nel titolo della sua celebre guida uscita nel 1581, Francesco Sansovino (figlio del più noto architetto Jacopo), volendo, nell'aggettivo, fondere l'idea di bellezza eletta con quella di gestione politica socialmente selezionata. Non solo: Venezia è anche "singolare". In effetti la singolarità sembra il connotato principe della città. Spiccatissima la sua individualità, percepita via via come unica, irripetibile, strana, turbante.
Un ambiente insomma non omologabile. Persino i suoi abitanti paiono una sorta d'anomalia antropologica: essi non arano, non seminano, non vendemmiano. I suoi nobili non hanno niente in comune coi tratti costitutivi dei ceti nobiliari: questi suppongono possesso di terre e castelli con prerogative feudali, quelli invece navigano e mercanteggiano. Già la lettera di Cassiodoro evoca la stranezza di un popolo le cui case hanno legata fuori dall'uscio un'imbarcazione al posto del cavallo.
Nel secolo XIV Frà Nicolò da Poggibonsi si emoziona alla vista di "Vinegia, fatta in altro modo, con le strade che sono canali d'acqua". Sempre l'acqua campeggia, quasi confondendosi e confrontandosi col cielo, attorno e dentro, cornice e sostanza, habitat biofisico. Diaframma e sutura le pietre tra specchio liquido e volta celeste. In questo sta la sua diversità di facies urbana reale e irreale, in certo qual modo alternativa e perciò sempre più caricabile di significati, sempre più satura di stimoli,  sempre più dislocabile sul versante dell'immaginazione. Si dilata, nel definirsi modellarsi e complicarsi della sua forma, a dimensioni esistenziali estreme, da quelle dell'amore a quella della morte.
Venezia è se stessa e, nel contempo, è sempre qualcos'altro, è sempre ulteriorità possibile.
I dotti fuggiti da Costantinopoli caduta, nel 1453, in mano turca v'approdano come ad una seconda Bisanzio, gli umanisti la salutano come un' Atene rediviva.
S'attivano altresì, in sintonia col concreto esercizio del potere, i due meccanismi ideologici più efficaci: quello della presupposizione della sua legittimità e bontà e quello, conseguente, della sua valorizzazione: mitizzabile e perciò mitizzata.
C'è la convinzione del superiore destino della città: essa si sente una seconda Roma, anzi di Roma migliore perché senza le agitazioni sociali del periodo repubblicano, senza le dispotiche degenerazioni di quello imperiale.
L'aristocrazia lagunare non ha remore in fatto di autogratificazione: il suo governo non è soltanto il migliore tra gli esistenti, ma anche tra i concepibili. Essa è la "città felice", la "vera forma di perfetto governo", sintetizza Paolo Paruta.
Ma se il mito del perfetto reggimento politico finisce con lo sfaldarsi nell'età dei lumi, resiste quello della città di sogno appagante e anticipante le fantasie dei poeti. Rimane lo scenario urbano con tutta la sua carica di suggestioni psichiche.
La storia, si può obiettare, bada ai fatti, non s'attarda con ideologismi mitizzatori, né con fantasticherie esistenziali. Ma sarebbe ingiusto applicare a Venezia un'ottica così riduttiva: sfuggirebbero persino i meri fatti. Anzi, mito e realtà, verità e deformazione, si confondono e si compenetrano inscindibilmente.
Le trine marmoree degli edifici specchiantisi nei canali e inquadrati dai campi, i labirintici andirivieni del tessuto viario, l'inarcarsi dei ponti, il rimbalzare delle voci tra pietre ed acque, il subitaneo subentrare del silenzio all'eccitato brusio, i colori movimentati nel cangiare della luce, sono anch'essi storia.
La città è anche quello che significa e che ha significato. Si monca la traccia della sua vicenda se si dimentica la trasformazione in mito della propria civiltà.
Di bellissime città è piena l'Italia, ma Venezia è anche paesaggio mentale, luogo dell'anima, referente attivo e passivo dell'immaginazione, involucro e contenuto per il desiderio.
Tutto ciò s'incorpora nella sua storia.
Proprio perché unica al mondo è la città di cui il mondo ha bisogno.
Senza di lei il mondo sarebbe più povero.

giovedì 17 giugno 2010

Il Mose e i problemi della Laguna di Venezia

Venezia ha dovuto combattere una millenaria battaglia contro le azioni esterne, assai più difficile di quella di qualunque altra città, e fino a tutto il Settecento la Repubblica Serenissima seppe mantenere il precario equilibrio per la sopravvivenza della città e della laguna. Oggi questa lotta si fa più complicata per l'azione di fenomeni nuovi, che ne intaccano fisicamente la struttura, per lo più di origine umana:
- il moto ondoso prodotto dai natanti a motore che corrode le fondazioni degli edifici e gli argini dei canali;
- l'inquinamento dovuto soprattutto (ma non solo) dagli scarichi degli insediamenti in terraferma;
- l'abbassamento del suolo derivante dall'emungimento intensivo del sottosuolo nell'area industriale di Porto Marghera (è stato calcolato un abbassamento reale, in quest'ultimo secolo, del fondo della laguna di circa 30cm!);
- l'innalzamento del livello del mare.
Di tutti questi e di tanti altri problemi, quello delle acque alte è sicuramente il più drammatico. Si tratta di un fenomeno sempre esistito a Venezia, ma che nell'ultimo secolo ha raggiunto frequenze e altezze davvero preoccupanti.
A questo proposito bisogna ricordare quali sono le caratteristiche della laguna stessa: si tratta di uno spazio acqueo (circa 500 Kmq) separato dal mare dalle isole del litorale (Lido e Pellestrina), e ad esso collegata da tre aperture (dette bocche): del Lido, di Malamocco e di Chioggia. Attraverso queste bocche l'acqua del mare entra ed esce seguendo il ritmo delle maree (e cioè due volte al giorno) assicurando l'indispensabile ricambio per la sopravvivenza della Laguna.
Si tratta quindi di un sistema precario da sempre assicurato dalle vigili attenzioni della Repubblica. Equilibrio che negli ultimi tempi è venuto meno per una serie di ragioni concomitanti:
- l'abbassamento del suolo di cui si è detto poc'anzi;
- il maggior volume di acqua che entra dal mare dovuto allo scavo dei canali per il passaggio delle petroliere (...);
- la difficoltà per l'acqua che entra in laguna di espandersi liberamente per il fatto che molte aree barenose sono state convertite ad altri usi (zone industriali di Marghera, il nuovo aeroporto Marco Polo, ecc.) o trasformate in valli da pesca impedendo comunque la libera circolazione delle maree;
- il mancato dragaggio dei canali effettuato dalla Repubblica per mille anni e interrotto a partire dal 1800.
Una situazione grave quindi che avrebbe richiesto una soluzione agente su piani diversi:
- puntando al recupero altimetrico del fondo della laguna (uno dei progetti presentati prevedeva l'iniezione di una schiuma espandente nelle cavità del sottosuolo svuotate dalle industrie di Porto Marghera per recuperare quei 30 cm persi);
- riducendo i volumi d'acqua scambiati tra mare e laguna, ottenibile attraverso un ridimensionamento delle sezioni delle tre bocche di porto;
- migliorando la penetrabilità acquea con la riapertura delle casse di colmata della zona industriale;
- il ripristino della pratica di dragaggio dei canali.
Ma alla fine si è scelta una soluzione diversa. Si stanno costruendo delle enormi paratie mobili sul fondo delle tre bocche di porto, che normalmente staranno sul fondo e che in caso di notevoli alte maree (oltre 110cm) si sollevano e separano il mare dalla laguna. Stiamo parlando del "Mose" (acronimo di MOdulo Sperimentale Elettromeccanico)
In pratica stiamo spendendo milioni miliardi di euro per costruire un opera immensa che servirà solo poche volte all'anno (cioè quando le previsoni dell'acqua alta in città supereranno i 110cm) e che nel caso in cui davvero il livello del mare (come sembra ormai confermato) dovesse continuare ad alzarsi, dovrà separare in maniera definitiva la laguna dal mare facendola morire.
E' come se per aprire la porta di casa, di cui abbiamo accidentalmente dimenticato le chiavi, invece di chiamare un fabbro utilizzassimo un carro armato, con tutte le conseguenze del caso, da quelle economiche al risultato ottenibile.
Per approfondire: nomose

lunedì 14 giugno 2010

Festa di Sant'Antonio a Venezia

Giunta alla dodicesima edizione, la festa di S.Antonio a Venezia è ricordata per la suggestiva processione del Santo che si snoda per le vie della parrocchia di San Francesco della Vigna.
Il programma (dal 12 al 19 giugno) è nutrito di eventi: spettacoli, concerti, balli e tornei sportivi. Da non dimenticare lo stand gastronomico che sforna dal pesce fritto alla garne alla griglia, da succulenti primi a deliziosi dessert.
L'occasione è da annoverare tra le feste a quasi esclusiva partecipazione veneziana, giacché ben pochi turisti arrivano fin qua...
In particolare sabato sera il chiostro di San Francesco della Vigna ha ospitato un importante spettacolo di teatro di ricerca, realizzato dalla Compagnia Teatrocontinuo.

Se ancora qualcuno crede che Venezia sia una città morta dovrebbe venire a vedere quanti Veneziani partecipano a questa come ad altre feste cittadine!

Personalmente ho avuto la fortuna di assitere al bellissimo spettacolo teatrale di sabato sera, ed ho realizzato un piccolo servizio fotografico.

Riporto qui la presentazione dello spettacolo in questione:
Giganti sono coloro che cercano senza alternative, accettando la sfida della destabilizzazione che provoca l'incontro con lo sconosciuto, la trasformazione, il cambiamento; giganti sono acrobati sospesi sulla corda, il bilanciere tra le mani sudate, che passano all'altra parte con spirito leggero.
Lo spettacolo Giganti si configura come un viaggio, rilettura del passato e del presente, prendendo come pretesto la città di Venezia, immenso patrimonio di storia, cultura e umanità.
Venezia diventa nella finzione teatrale come un anziana Signora con problemi di salute e un eredità cospicua che alcuni vorrebbero dilapidare e altri si propongono di conservare: una sfida, quest'ultima, che solo dei Giganti riusciranno ad affrontare, gli stessi che al momento della sua fondazione hanno immaginato e costruito questa straordinaria città anfibia, Utopia dell'umanità.
.

giovedì 10 giugno 2010

Pantalon

Uomo più che fatto, decisamente anziano, naso adunco, costume rosso, mantello nero, incarna il carattere di quei mercanti che piantarono la bandiera del Leone di Venezia in ogni angolo del Mediterraneo Orientale (da qui una delle etimologie:"pianta-leone"). In Pantalone la parsimonia può tramutarsi repentinamente in avarizia, la tenerezza senile in libidine, ma anche la severità in comprensione, soprattutto.
Tuttavia fuori del sistema di valori del Teatro dell'Arte, in cui ciascuna maschera ha una decisa connotazione regionale e sociale (per cui Pantalone è il padrone veneziano che parla in veneziano mentre lo Zanni o Arlecchino sono servitori che, provenienti dall'entroterra, si esprimono nel loro rustico dialetto), è difficile riscontrare un qualche elemento di storicità in questa maschera tranne che nell'ambito cittadino cinquecentesco. Tuttora assai apprezzata dal pubblico di tutto il mondo, la Commedia dell'Arte sembra giunta già da lungo tempo al capolinea proprio in Italia e in particolare a Venezia, dove è coltivata da poche compagnie amatoriali o semiprofessionali, laddove al contrario occorrerebbe forse un intervento pubblico per difendere quello che della tradizione ancora resiste (almeno negli archivi e nelle biblioteche). Fatto sta che, salvo rare eccezioni o presenze di grandi attori (come Dario Fo nel Festival della Biennale Teatro del 1985), gli attori che vogliono studiare le maschere dell'Arte devono riparare alle scuole transalpine, così come fecero già a lor tempo gli Arlecchini di Giorgio Strehler, Mario Moretti prima e Ferruccio Soleri dopo.
Ma per Pantalone è diverso: la mimica è ridotta ad un andamento incerto che cerca spesso sicurezza nel bastone e si guarda intorno in modo sospettoso, e quel che più conta è la parola, a volte assai tagliente soprattutto nei confronti dei giovani e delle donne.
Quella che occorre quindi per un Pantalone che sia degno erede di Cesco Baseggio e di Nico Pepe, è una formazione fortemente locale. Nato a Udine nel 1907 e scomparso all'età di ottant'anni, Pepe si considerò un vero missionario del teatro dell'Arte al quale dedicò fino alla fine grandi stage spettacolari, trascinando di città in città, come gli antichi capocomici, un baule ricolmo di maschere. Scoperto anche lui nel '47 da Strehler per la memorabile edizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Pepe coltivò senza sosta la maschera di Pantalone portandone a perfezione l'interpretazione, ma purtroppo senza creare un allievo degno del suo nome.
Singolare è invece la storia di un certo Giambattista Garelli, vissuto a Venezia nel '700, a tal punto straordinario nell'interpretare questa maschera, da diventarne infine prigioniero. Egli infatti veniva stipendiato annualmente dalla famiglia Vendramin perché non abbandonasse mai il teatro di San Salvador...

Fonti: M.Brusegan, A.Scarsella, M.Vittoria, G.Fuga, L.Vianello

martedì 8 giugno 2010

Le galee veneziane nel Quattrocento

Il Quattrocento rappresenta probabilmente l’apogeo del sistema delle galee veneziane, un sofisticato e articolato sistema di trasporto delle merci e dei passeggeri attraverso il Mediterraneo.
Ma cosa erano, e come navigavano le galee veneziane?

Prima di tutto, occorre ricordare che esistevano due tipi di galee, ben distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente alla guerra, e le «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il trasporto di merci o passeggeri. Tuttavia, contrariamente a quanto spesso si crede e si legge, le galee da mercato non erano le uniche navi che viaggiavano sotto la bandiera di San Marco: anzi, la maggior parte della flotta mercantile, dal punto di vista numerico e da quello del tonnellaggio, era composta da navi a vela. Le galee da mercato invece, che erano navi costruite dallo Stato, venivano noleggiate ai nobili che organizzavano il viaggio raccogliendo le merci dei mercanti. Le galee viaggiavano in convogli composti da tre o quattro navi, la cui rotta era stabilita nei dettagli e non poteva essere modificata: le varie mude, così si chiamavano i convogli, percorrevano una o due volte l’anno i percorsi prestabiliti raggiungendo Costantinopoli e il mar Nero (muda di Romania), il medio Oriente (muda di Beirut e Alessandria), la Francia meridionale (muda di Aigues Mortes, porto alla foce del Rodano), l’Inghilterra e l’Olanda (muda di Fiandre) e infine la Tunisia e l’Algeria (muda al trafégo). L’importanza di queste navi consisteva nel fatto che avendo un equipaggio numeroso (almeno 250 uomini tra marinai e rematori) erano considerate estremamente sicure e quindi venivano destinate a trasportare i carichi più preziosi e più leggeri: le spezie, le sete, l’argento e l’oro.
Quando nel corso del Quattrocento i pellegrinaggi in Terrasanta conobbero una grande diffusione, Venezia organizzò ogni anno una o anche due galee destinate esclusivamente a trasportare i pellegrini in Palestina. Questa circostanza riveste un estremo interesse, perché alcuni di questi viaggiatori hanno scritto un resoconto dettagliato del loro viaggio che sono giunti fino a noi, consentendoci di ricostruire nei dettagli lo stile di navigazione di queste navi.

Le galee da mercato erano navi lunghe circa 37 metri al ponte (23 passi e 3 piedi veneziani, come spiegano i quaderni dei capimastri dell’Arsenale di Venezia) e larghe poco più di sei, con un’altezza di puntale tra i 2,5 e i 3 metri. La caratteristica più nota di queste navi è il fatto di essere dotate di circa 150 remi, ciascuno dei quali mosso da un solo uomo, e questo ha generato l’errata convinzione che usassero prevalentemente questo mezzo di propulsione. Niente di più errato. Anche se è vero che le linee d’acqua degli scafi delle galee sono simmetriche e dimostrano la loro derivazione da imbarcazioni a remi, di fatto le galee navigavano prevalentemente a vela e usavano i remi solo come propulsione d’emergenza.
Le prestazioni che potevano raggiungere sotto vela erano notevoli, come d’altra parte ci si può aspettare da navi con un coefficiente di finezza così buono. Con vento a favore potevano raggiungere comodamente i cinque o sei nodi di velocità; tuttavia, dai diari dei pellegrini che andavano in Terrasanta risulta che le navi percorrevano intere tratte a una media di oltre sette nodi.
Insomma, le galee da mercato erano sostanzialmente delle navi a vela. A cosa servivano allora i rematori?
Fondamentalmente, prima dell’avvento dell’artiglieria, servivano a difendersi. Come spiega lo storico americano Fredrick Lane, «per le galee da mercato la loro capacità di difendersi era seconda come importanza solo alla sua sicurezza in mare, giacché esse erano progettate per combinare non solo alcuni dei vantaggi delle navi a remi con quelli delle navi a vela, ma anche quelli di una nave da guerra con quelli di un mercantile. L'elevato numero di uomini necessari su una galea per manovrare i remi forniva la base per una forza combattente molto più numerosa di quella che poteva essere impiegata su una nave tonda. In tutto l'equipaggio di una galea da mercato contava più di 200 uomini, ciascuno dei quali poteva essere chiamato a prender parte alla sua difesa. Le armi per questo scopo venivano fornite dall'Arsenale e trasportate in un apposito locale della stiva».

I diari dei pellegrini permettono di ricostruire in modo abbastanza accurato la vita a bordo. Prima di tutto, chi intendeva compiere un viaggio in Terrasanta stilava un vero e proprio contratto, estremamente dettagliato, che precisava diritti e doveri delle due parti (ossia del viaggiatore e del patronus della galea). A bordo i pellegrini dormivano per lo più nella grande stiva della nave e, come scriveva nel 1484 Felix Faber (Urbis venetianae fidelis descriptio), si trattava di una «inquieta dormitione». I giacigli erano disposti per madiere, e i pellegrini dormivano con il capo verso la murata e i piedi verso il centronave. Non essendoci fonti di luci a parte il boccaporto principale, ci si doveva avventurare portando con sé un lume. Felix Faber allude alla continue liti, soprattutto all’inizio del viaggio, tra chi voleva dormire e chi voleva rimanere sveglio, liti che spesso terminavano appunto col lancio dei pitali sopra le candele irrispettose…
Al mattino, i bisogni corporali venivano espletati a prua, dove si trovavano due appositi fori, davanti ai quali, nota il frate, si forma una coda «come in quaresima davanti al confessore». In nave, sostiene Faber, occorre lavarsi spesso, per evitare il rischio di prendere i pidocchi. «Ci sono molti invece che non sono provvisti di ricambi, e sono avvolti in tali puzze e fetori, che nella barba e nei capelli crescono i vermi».
Il pranzo era consumato due volte al giorno, al mattino e alla sera, e gli uomini a bordo venivano chiamati a tre «tavole» ben distinte a seconda del rango sociale: gli uomini da remo mangiavano sui loro banchi; i marinai, i balestrieri, il personale specializzato in genere a una mensa intermedia e infine il comitus con lo stato maggiore della galea mangiavano «come se fossero stati a Venezia».


Fonte: Martino Sacchi

martedì 1 giugno 2010

Giovanni Caboto

-->
Giovanni Caboto (?, 1450 circa – Inghilterra, 1498) è stato un navigatore ed esploratore italiano, famoso per aver continuato l'opera di Cristoforo Colombo iniziando la serie di grandi viaggi di scoperta verso il nord-ovest, in particolare per aver scoperto il Canada il 24 giugno 1497.
A seguito della conquista di Gaeta da parte degli Aragonesi, la famiglia Caboto, temendo la vendetta dei vincitori, dovette abbandonare Gaeta e rifugiarsi nel 1461 in Venezia. Circa 15 anni dopo essersi trasferito in Venezia, nel 1476, Giovanni ottenne dal Senato di Venezia la cittadinanza.
Si sposò con Mattea, da cui ebbe tre figli (Sebastiano, Luigi e Santo) che lo seguirono in numerosi viaggi in Oriente, acquisendo ottime abilità nell'arte della navigazione.
Purtroppo la Serenissima non fu così lungimirante ed interessata a sfruttare le qualità del giovane navigatore, perdendo l'occasione storica di inserirsi nel gruppo delle grandi potenze marinare europee impegnate nell'esplorazione degli oceani e di mari sconosciuti, un campo dove predominavano spagnoli e portoghesi, limitandosi così a dedicarsi ai traffici commerciali all'interno del Mar Mediterraneo, non capendo che da lì a poco tutto il mondo dei traffici commerciali sarebbe stato rivoluzionato.
Caboto si spostò infatti a Valencia dove diresse i lavori di ampliamento del porto voluti dal re Ferdinando II d'Aragona. Nel 1493 Cristoforo Colombo ritornava dal suo primo viaggio transatlantico. Ma Caboto intuì che il genovese non aveva raggiunto l'Estremo Oriente e propose a Ferdinando II e Isabella di Castiglia di affidargli un viaggio esplorativo lungo una rotta più settentrionale.
Avendo ricevuto un rifiuto, si trasferì nel 1496 in Inghilterra, per convincere il re Enrico VII a sostenere il suo progetto. Il re, che già aveva perso l'occasione di avere Cristoforo Colombo al proprio servizio, si affrettò a concedere l'autorizzazione a Giovanni Caboto e accolse il suo progetto di viaggio con lettere patenti del 5 marzo 1496. Nel porto di Bristol fu così organizzata una spedizione di cinque navi, armate a spese di Caboto.
Tuttavia, per ragioni ancora da chiarire, il 2 maggio 1497 salpò solo una di esse, il Matthew, naviglio di cinquanta tonnellate con un equipaggio di diciotto uomini: con molta probabilità, si imbarcarono anche i figli Luigi e Sebastiano.
Il 24 giugno 1497, approdò sull'isola di Capo Bretone e toccò la Nuova Scozia, avvistando l'isola di Terranova, e, nell'illusione di aver toccato l'estremità Nord Orientale dell'Asia, ne prese possesso in nome di Enrico VII.
Sulla nuova terra scoperta Caboto piantò la bandiera inglese e quella della Repubblica di Venezia.
Ai primi di agosto, dopo un'assenza di circa tre mesi il Matthew fece ritorno a Bristol e la notizia delle nuove scoperte venne accolta in Inghilterra con grande giubilo anche tra la popolazione. Enrico VII concesse allo scopritore un premio di dieci sterline e più tardi una pensione annua di venti sterline.
L'anno successivo Enrico VII, con le lettere patenti del 3 febbraio 1498, autorizzò Giovanni Caboto ad approntare una spedizione di sei navi e almeno duecento uomini di equipaggio, allo scopo di colonizzare le terre scoperte e proseguire la ricerca di altre terre, nella speranza di poter raggiungere il favoloso Cipangu (l'odierno Giappone).
Le navi salparono nell'estate del 1498: con il figlio Luigi, Caboto toccò il Labrador e costeggiò la Groenlandia meridionale. A questo punto, si perdono le tracce della spedizione inglese.
Secondo alcuni storici, Caboto avrebbe raggiunto le coste del Nord America e avrebbe iniziato a procedere in direzione sud-ovest come previsto dal suo programma. Ciò sarebbe avallato dal fatto che tre anni dopo, nel 1501, l'esploratore Gaspar Corte-Reál ricevette dagli indigeni del Nord America, con cui era entrato in contatto, alcuni oggetti probabilmente appartenuti agli uomini della spedizione di Caboto, ma nulla si seppe della fine dell’intero equipaggio e del suo comandante.
Nonostante il misterioso epilogo della spedizione del 1498 e il blocco di ulteriori esplorazioni inglesi durante il regno di Enrico VII, la spedizione di Caboto pose le basi della futura colonizzazione inglese del Nord America. Inoltre le esplorazioni di Giovanni Caboto assicurarono ai geografi europei le prime indicazioni scientifiche circa la vastità del continente americano e stimolarono la ricerca di un passaggio a Nord-Ovest verso l'Estremo Oriente.

venerdì 28 maggio 2010

Franchetti

La Cà d’Oro fu fatta costruire da Marino Contarini nel 1400 in pieno stile gotico fiorito e fatto decorare con sottili lamine d’oro (da cui il nome) che lo resero immediatamente il palazzo più ammirato del Canal Grande. I Contarini abbandonarono il palazzo a fine ‘700 con la caduta della Repubblica. Fu poi acquistato da un principe russo che ne affidò il restauro ad un ingegnere tedesco che fece uno vero e proprio scempio. Fortunatamente alla fine del 1800 fu acquistato dal Barone Giorgio Franchetti (nobile famiglia di lontane origini mantovane), che lo restaurò ispirandosi al disegno originario, ricreando in pratica l’ambiente di una ricca casa di un patrizio nel 1400; ma fin dall’inizio il suo intento non era di farne una dimora ma di realizzare un vero e proprio museo e di ospitarvi la propria collezione di opere d'arte per renderla visitabile al pubblico. Nel 1916 Franchetti stipulò un accordo con lo Stato Italiano nel quale si impegnò a cedere il palazzo al termine dei lavori in cambio della loro copertura finanziaria. Il 18 gennaio del 1927 venne inaugurato il museo intitolato "Galleria Giorgio Franchetti" alla memoria del barone, scomparso nel 1922.

Il personaggio più avventuroso della famiglia Franchetti è senz’altro l’esploratore Raimondo (1981-1935) che dalle Montagne Rocciose, ai Mari della Cina, all’Africa, viaggiò senza sosta (a parte la parentesi della prima guerra mondiale a cui partecipò).
Ventenne, fu abbandonato su un’isola in Malesia, poiché sull’imbarcazione su cui viaggiava era scoppiata la peste e così, si ritrovò a vivere da solo con una tribù locale per circa un anno.
Fu ritrovato da una missionaria inglese quando ormai tutti lo davano per morto.
Nel 1911 documentò la rivoluzione in Cina.
Nel 1920 sposò a Venezia (nel palazzo Cavalli-Franchetti sul Canal Grande) la contessina Bianca Rocca, discendente per parte di madre dalla famiglia dei dogi Mocenigo, da cui ebbe quattro figli.
Il paese che segnò la sua vita fu però l’Africa, dove, a più riprese, partecipò a varie spedizioni (spesso accompagnato da Luca Comerio, fotografo ufficiale di Casa Savoia, e pioniere del filmato documentaristico)
Memorabile fu quella in Dancalia sulle tracce della spedizione Giulietti massacrata dai dancali.
Su questa impresa scrisse il libro “Nella Dancalia etiopica”, e in ricordo chiamò sua figlia Afdera (che sposerà Henry Fonda) dal nome del lago etiope da lui ribattezzato Giulietti.
Morì in un incidente aereo mentre viaggiava con il governatore onorario della colonia eritrea, insieme al quale stavano trattando con il Negus circa la possibilità di evitare la guerra.
L'incidente suscitò immediatamente vasta eco, anche sulla stampa estera e subito, più volte, si parlò di attentato, forse ad opera di agenti britannici, ma le vere cause non furono mai chiarite. Anzi, la commissione di inchiesta inviata dal governo italiano, per probabili ragioni di opportunità politica, dichiarò rapidamente l'impossibilità di appurare le ragioni dell'incidente.

Da ricordare anche Alberto Franchetti, famoso musicista, che collaborò con D’Annunzio e che fu strettamente amico di Puccini e Mascagni, le cui opere furono dirette da Toscanini e da Mahler
.

martedì 25 maggio 2010

Amori dimenticati, fedelmente raccontati

Dopo aver studiato diritto a Padova, a quindici anni Giacomo Casanova (1725-1798) ricevette gli ordini minori dalle mani del patriarca di Venezia. Ora portava la tonaca, e anche la tonsura, che lo facevano riconoscere per chierico. La gente vedeva già in lui un sacerdote, sua nonna persino un apostolo! Era fiera del nipote, che con la sua vocazione spirituale assicurava a se stesso e all’intera famiglia la salvezza dell’anima.
Il giovane chierico deve tenere la sua prima predica nelle chiesa di San Samuele. Tema prescelto, alcuni versi di Orazio, ma il curato Tosello non approva la proposta: la chiesa non è luogo per poeti pagani. Presto però si presenta al giovane una nuova occasione per farsi valere come predicatore: il 19 marzo 1741, alle quattro del pomeriggio, salirà sul pulpito per tenere la predica festiva in onore di San Giuseppe, il casto sposo della Vergine Maria. Casanova prepara la predica e la impara a memoria, ripetendola la sera prima di andare a letto e la mattina appena sveglio. Non ha problemi con la memoria, lo si è già visto a scuola.
Ma proprio il giorno della festa di San Giuseppe viene inviato a pranzo dal conte di Monreale. Il pranzo è buono e altrettanto il vino. Casanova sta per dimenticare la predica. Un messo viene a prenderlo, e Casanova giunge in chiesa appena in tempo.
Ecco che il giovane chierico si trova sul pulpito, appesantito dal pranzo e dal vino, davanti ai volti della parrocchia riunita. Riesce a dire appena l’esordio, poi perde il filo, si inceppa. I fedeli bisbigliano, trattenendo a stento le risate. A questo punto Casanova si fa prendere dal panico, perde la testa e dimentica la predica appresa così faticosamente a memoria. Evita l’imbarazzo con uno svenimento, mezzo vero e mezzo simulato, e stramazza sul pulpito. Viene portato privo di sensi in sagrestia. Il disastro è completo e Casanova, cui l’oblio fu così fatale, prende una decisione definitiva: “Ebbi la forza di persistere nella decisione di non saggiare più quel mestiere”.
La via è libera alla vocazione erotica di Casanova.
Anch’essa inizia con il curato Tosello o, per meglio dire, con sua nipote Angela. Giacomo ama Angela, Angela ama Giacomo ed è anche disposta a diventare sua moglie, ma fino a quel momento sorveglia “come un drago” la sua virtù e non concede all’amante il benché minimo favore. L’”avarizia” di Angela finisce per sconvolgere l’amante, la sua astinenza lo prosciuga. L’amore diventa un tormento, deve dimenticare “per qualche tempo i rigori della crudele Angela”.
Lo aiuta in questo un soggiorno in campagna.
Di ritorno a Venezia si riaccende in lui la passione temporaneamente sopita per Angela. Casanova ricomincia ad incalzarla con le sue voglie, ma la donna rimane risoluta. Casanova lascia furioso la città e torna a Padova per laurearsi, ma soprattutto per dimenticarla. Il titolo universitario non basterà allo scopo, ma a dimenticare lo aiuteranno in modo molto più efficace, al suo ritorno a Venezia, la sedicenne Nanette e la quattordicenne Marton. La notte è abbastanza lunga per divertirsi sotto le coperte con le due compagne, per fargli provare un piacere di cui godeva per la prima volta in vita sua, e per dimenticare “definitivamente” Angela: “J’oublie Angéla”.

Tutto questo lo veniamo a sapere dalla sua autobiografia, scritta in francese e pubblicata in edizione postuma con titolo Histoire de ma vie (1825), che egli terminò nel 1797, a settantadue anni, nel castello boemo di Dux. Una delle caratteristiche e dei paradossi più affascinanti di queste ‘confessioni’ è che Casanova si ricorda anche, e con la massima precisione, delle circostanze del vari oblii.
Per poter scrivere questi ricordi, da vecchio, lontano dagli affari mondani, Casanova rafforzò per tutta la vita la memoria (che una sola volta, come s’è visto, l’aveva piantato in asso) con note e molte lettere da lui scritte o ricevute. In questo modo potè ricordarsi delle innumerevoli donne da lui amate nel corso della vita, anche se non si vantò mai del numero delle sue avventure amorose. Casanova non è Don Giovanni, e non trae piacere dalle conquiste in sé, ma tutte le donne, a cui a fatto instancabilmente la corte, le ha amate, una dopo l’altra.
E’ vero che in ognuna delle nuove avventure amorose, Casanova cerca sempre nuovi piaceri dei sensi, ma ad eccitarlo non è ciò che in questo gioco si ripete sempre uguale, bensì ciò che ogni volta soddisfa la sua curiosità in modo diverso. Un bibliofilo come Casanova vuol leggere ogni donna come un libro, e questo significa che, come il lettore, prima di aprire un nuovo libro, deve chiuderne un altro. Così tra due amori, come tra due letture, si trova una cesura che nel linguaggio erotico di Casanova è chiamato oblio, e tuttavia un tipo di oblio che non esclude più tardi il ricordo.


.


venerdì 21 maggio 2010

Lettera di Cassiodoro ai Veneziani

"Voi che al margine del suo territorio possedete un gran numero di navi, provvedete con uguale devota grazia a fare in modo di portare con tutta celerità il carico che la provincia è pronta a consegnarvi. Il ringraziamento per la realizzazione sarà pari verso ambedue, dal momento che una parte separata dall' altra non permette che vada a compimento l'impresa. Siate perciò pieni di sollecitudine per questo trasporto nelle vicinanze, voi che spesso attraversate spazi di mare infiniti. In un certo senso voi andate a far visita ai vostri conoscenti, poiché navigate in terra patria. C'è ancora a vostro favore, che avete aperta anche un'altra strada sempre tranquilla e sicura. Infatti quando il mare è chiuso alla navigazione per l'imperversare dei venti, si dischiude davanti a voi l'itinerario attraverso incantevoli canali. Le vostre navi non temono gli aspri venti: toccano terra con somma allegrezza e non sanno che cosa sia fare naufragio, poiché spesso approdano a terra. Da lontano sembrano camminare sui prati, quando accade di non vedere il corso del canale, avanzano tirate da corde, le quali di solito servono a tenerle ferme e, capovolte le condizioni, la ciurma aiuta le proprie navi con i piedi: senza sforzo trascinano le loro portatrici e, invece delle pavide vele, adoperano il passo dei marinai, che è più sicuro.
Ci piace parlarvi di come abbiamo visto l'ubicazione delle vostre case. Le Venezie una volta famose, piene di nobile gente, a meridione raggiungono Ravenna e il Po, ad oriente si deliziano della bellezza del litorale ionico: qui l'alternarsi delle maree ora copre, ora lascia in secco la superficie dei campi con una reciproca inondazione di acqua o di asciutto. Qui voi, alla maniera degli uccelli acquatici, avete la vostra casa. Infatti una persona ora si vede stare sulla terraferma, ora su un'isola, così che ben più a ragione credi che le Cicladi si trovino là, dove osservi che l'aspetto dei luoghi cambia repentinamente. A somiglianza di quelle isole le case appaiono sparse in mezzo ad ampi tratti di mare: e non le ha prodotte la natura, ma le ha create il lavoro umano. Infatti all'intreccio dei vimini flessibili si aggiunge la solidità della terra e non si teme affatto di opporre alle onde marine una difesa tanto fragile: si fa così perché il litorale basso non può scagliare a terra grandi onde, e queste vengono senza forza non avendo l'aiuto della profondità.
Un'unica risorsa hanno gli abitanti, quella di mangiare solo pesci a sazietà. Ivi poveri e ricchi vivono allo stesso modo. Un solo cibo sostenta tutti, uno stesso tipo di abitazione rinserra ogni cosa, non conoscono l'invidia riguardante le case e, vivendo con questo tenore, stanno fuori del vizio, al quale, come si sa, tutto il mondo soggiace. Tutto il loro sforzo è rivolto alla produzione del sale: invece di aratri e di falci fate rotolare dei rulli: di qui viene ogni vostro provento, dal momento che possedete in essi anche gli altri generi che non producete; in un certo qual senso li si conia la moneta per il proprio sostentamento. Ogni onda sottostà al vostro trattamento. E' possibile che qualcuno non vada in cerca d'oro, ma invece non ce n'è uno che non desideri trovare il sale, e giustamente dal momento che ad esso ogni cibo deve il potere di essere graditissimo.
Perciò con cura diligente mettete in sesto le navi, che legate alle vostre pareti, come fossero animali, affinché, quando Lorenzo, uomo di grandissima esperienza, incaricato di procurare le derrate, si metterà a chiedervele, vi affrettiate a correre per non ritardare con alcuna difficoltà a portarci gli acquisti a noi necessari, tanto più che potete scegliere, secondo le condizioni del tempo, il tragitto che vi è più vantaggioso"

Cassiodoro, Senatore e Prefetto del re Vitige, anno 537 d.C.
.

giovedì 20 maggio 2010

Allarme a Torcello, campanile a rischio crollo: chiuso d'urgenza

Il Patriarcato: «Restauro previsto da tempo ma sempre
rimandato per mancanza di fondi. Qui tutto cade a pezzi»

leggi l'articolo


martedì 18 maggio 2010

Intervista a Walter Fano

Ma Venezia ti chiamava...
Esatto, è proprio andata così. Era da qualche parte nel mio cuore, nella mia anima, inevitabilmente sono finito lì, non poteva andare altrimenti.

Leggi tutto


A cura di S. Venturelli
.

domenica 9 maggio 2010

Santa Lucia a Venezia

La realizzazione della stazione ferroviaria a Venezia determinò profonde e radicali modifiche che trasformarono l'aspetto dell'ultimo tratto di Canal Grande sia dal punto di vista urbanistico che architettonico.
Il complesso degli edifici allora esistenti fu abbattuto per far posto alla stazione ferroviaria vera e propria e a tutte le attrezzature connesse al nuovo servizio. Scomparvero così non solo la chiesa di Santa Lucia con il suo monastero, ma l'intero quartiere composto dalle case e dai palazzi, edificati in gran parte tra il XV e il XVIII secolo, che prospettavano la fondamenta o le strette calli interne fino a raggiungere la zona retrostante, ancora tenuta ad orti, e l'ultimo, opposto lembo lagunare.
Nel 1846 il ponte ferroviario translagunare era completato e immetteva in città attraverso un'area di raccordo ottenuta in parte con interramenti. Nel 1858 le due rive del Canal Grande venivano collegate da un ponte di ferro.
Il piccone demolitore che distrusse un'intera area abitata cancellandone le testimonianze storiche, sociali e artistiche, si arrestò, nel primi tempi di attività della stazione, alle spalle della Chiesa di Santa Lucia, la cui zona retrostante divenne punto di arrivo e di parcheggio di locomotori e vagoni. Era comunque evidente l'intenzione di acquisire uno sbocco sul Canal Grande.
Tra il 1860 e il 1861 vennero infatti abbattute oltre alla Chiesa le superstiti costruzioni sulla fondamenta, per far posto all'edificio della Stazione passeggeri, secondo una soluzione urbanistica tra le più ovvie e meno intelligenti.

Fonti storicamente attendibili pongono alla fine del XII secolo la costruzione della prima chiesa. Nel 1280, proveniente da San Giorgio Maggiore, dove si trovava fin dall'inizio del secolo, fu traslato il corpo della martire siracusana Lucia, da cui la chiesa prese il nome.
La fabbrica venne ufficialmente consacrata nel 1343. Alla fine del XV secolo presentava forme gotiche, stilisticamente e volumetricamente molto simili a quelle di San Gregorio alla Salute.
Gli edifici del monastero si sviluppavano lungo il fianco sinistro della chiesa e si intestavano verso il Canal Grande in leggero arretramento rispetto al filo degli altri edifici.
Nel 1565 si ha notizia di un  nuovo intervento riferito all'edificazione di una grande cappella per conto di Leonardo Mocenigo che ne aveva affidato il progetto al Palladio. I lavori non ebbero tuttavia facile corso, è anzi probabile che iniziassero dopo la morte dell'artista (1580), poiché l'opera ebbe termine soltanto nel 1589.
L'antica struttura gotica andò così gradualmente sostituita da una nuova, composta secondo il diverso disegno cinquecentesco, in sostanza si può ritenere che l'intervento, limitato all'inizio soltanto alla cappella Mocenigo, si sia esteso a tutto l'edificio gotico, assumendo il carattere di una vera e propria ricostruzione.
La nuova chiesa ebbe così non solo diversa definizione architettonica e stilistica, ma rispose ad un più moderno criterio di funzione con la facciata rivolta al Canal Grande per l'avvenuta inversione dell'orientamento originario.
La nuova chiesa fu consacrata nel 1617.
Nel 1805 il convento fu soppresso e destinato a sede di una scuola per ragazza povere; stessa sorte subì la chiesa che ebbe fin dalle origini titolo parrocchiale.
Con l'abbattimento della Chiesa il corpo di Santa Lucia venne traslato nella vicina chiesa di San Geremia.

Santa Lucia subì il martirio a Siracusa intorno al 304 durante le persecuzioni di Diocleziano. Di nobile famiglia si consacrò a Cristo; rinunciò al matrimonio e donò ogni suo bene ai poveri. Per questo fu denunciata dal fidanzato: venne imprigionata, torturata e decapitata.
Secondo la leggenda si sarebbe da sola rimessa gli occhi, cavati dai torturatori. Il suo culto si diffuse subito dopo la morte.
E' abitualmente rappresentata con gli occhi su un piatto, la palma del martirio o la spada, e viene invocata contro le malattie degli occhi. Il nome deriva dal latino e significa "luce"

Ogni anno il 13 dicembre a Venezia si va nella Chiesa di San Geremia, dietro l'altare, ci si mette in fila lungo la bara di cristallo, si prega accanto alla mummia della Santa. Fino agli anni '60 si poteva fissare Lucia direttamente nelle orbite cave. I veneziani e la Santa si scambiavano uno sguardo salutare: occhi eccessivi, traboccanti per la commozione, erano messi di fronte a occhi manchevoli, estirpati dal martirio. Era un toccasana spalancare le palpebre davanti alle occhiaie vuote di Lucia: le pupille dei veneziani lacrimavano, i cristallini intorbiditi dalla bellezza si lavavano, le retine peccatrici si purificavano. L'orrore dava l'assoluzione alla bellezza: non c'era nulla di macabro in tutto ciò. Purtroppo il Patriarca Albino Luciani, pastore d'anime dall'indole sensibile, qualche anno prima di diventare Papa Giovanni Paolo I e di rivelare alla cristianità tutta che Dio è la Mamma, ha disposto che la faccia della Santa venisse coperta con una maschera d'argento dai lineamenti aggraziati.

Fonti: Umberto Franzoi, Dina Di Stefano, Tiziano Scarpa

giovedì 6 maggio 2010

Guido Alberto Fano

Guido Alberto Fano nasce a Padova il 18 maggio 1875. Inizia gli studi musicali con Vittorio Orefice (noto maestro di canto e direttore di coro) e intraprende poi quelli pianistici sotto la guida di Cesare Pollini. Nel 1894 Giuseppe Martucci lo vuole suo allievo di pianoforte e composizione a Bologna. Nel 1896 si reca in Germania e Austria per una tournée concertistica e per conoscere la vita musicale di quei paesi, grazie a una borsa di studio ministeriale per perfezionamento all'estero ottenuta "per singolari meriti di composizione".
Nel 1897 consegue il Diploma di Maestro Compositore a pieni voti con lode presso il Liceo musicale di Bologna. L'anno seguente vince il Primo premio nel Concorso indetto dalla Società del Quartetto di Milano con la Sonata per pianoforte e violoncello. Viene nominato Direttore dell'Accedamia "Pierluigi da Palestrina" di Bologna per lo studio e la diffusione dell'arte corale antica italiana.

Nel 1899 ottiene la nomina di insegnante di pianoforte al Liceo Musicale di Bologna, e nel 1900 il diploma di organizzatore dei concerti spirituali per la Mostra di Arte Sacra San Francesco di Bologna. Ottiene inoltre una Menzione d'onore al "Concorso Internazionale Rubinstein per compositori" di Vienna, con l'Andante e Allegro con fuoco per pianoforte o orchestra, la Sonata per pianoforte e violoncello, le Quattro Fantasie per pianoforte solo.
Nel 1905 è nominato Direttore del Regio Conservatorio di Musica di Parma a seguito di concorso per titoli, unico vincitore su trentasei concorrenti per giudizio unanime dei commissari Toscanini, D'Arienzo, Falchi, Gallignani, Zuelli.
Fra il 1905 e il 1912 forma, promuove e incoraggia istituzioni di concerti e di varia cultura musicale, esegue concerti come pianista solista e di musica da camera, dirige concerti sinfonici.
Nel 1911 rifiuta la nomina a insegnante e virtuoso di pianoforte al "College of Music" di Cincinnati Ohio (U.S.A.). Nel 1912 viene nominato Direttore del Regio Conservatorio "San Pietro a Majella" di Napoli.
Nel 1916 riceve la nomina a Direttore del Regio Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo. Nel 1922 ottiene la nomina a Professore di pianoforte principale al regio Conservatorio "G. Verdi" di Milano.
Dal 1938 è rimosso dall'insegnamento a causa delle leggi razziali e dal 1943 al 1945 è costretto a fuggire e rifugiarsi a Fossombrone e Assisi.
Alla fine della guerra riprende il suo posto di insegnamento che lascia definitivamente nel 1947, anno in cui viene collocato a riposo.Muore il 14 agosto 1961 a Tauriano di Spilimbergo (Udine).

La sede dell'Archivio Musicale Guido Alberto Fano è in Calle del Tagiapiera 4674, nel sestiere di Cannaregio, a un passo dalla fermata di Ca' D'Oro. In un'elegante palazzina, al primo piano c'è la casa-museo di chi fra la fine dell' Ottocento e la prima metà del Novecento fu uno dei più significativi musicisti italiani. All'ingresso fa bella mostra di sé il pianoforte Bosendorfer su cui era solito comporre, in salotto, oltre a una biblioteca che raccoglie fra l'altro edizioni cinquecentesche, a partiture e a registrazioni, spiccano i ritratti ad olio del Maestro e della moglie, gli album fotografici, le reliquie di una vita piena, ricca di avvenimenti, di gioie e di dolori: i trionfi musicali, le persecuzioni razziali, gli esili, le incomprensioni...
Anima della neonata associazione è Vitale Fano, nipote di Guido Alberto e figlio di Fabio Fano: una dinastia di musicisti e di musicologhi, la sua, che lungo tutto il Novecento ha visto il nome dei Fano dividersi fra i conservatori di Venezia, Napoli, Palermo, Bologna, Milano, Parma.

martedì 4 maggio 2010

Le tabachine

Il nome della pianta del tabacco deriva dalla piccola isola delle Antille, Tobago; essa è citata in un erbario di Pier Antonio Michiel, stimato botanico della seconda metà del Cinquecento, che la ricevette in dono da Giacomo Contarini, provveditore dell'Armata Veneziana in Fiandra.
Il Michiel afferma che il tabacco era utile per le cancrene e per la peste, il caso volle che egli morisse di peste nel 1576!
Comunque il tabacco si cominciò a coltivare nel Veneto e ad usare solo nel 1600; la vendita era riservata ai soli spezier de fin, inizialmente sotto i portici delle Prigioni Nuove. Si usava soprattutto da fiuto, in quanto provocava una lieve irritazione al naso con conseguente starnuto liberatorio, utile, in particolare, per il ma di testa. L'uso si diffuse rapidamente e la Repubblica pensò di trarne un utile dando in appalto il monopolio del tabacco: il primo ad avere questo compito fu l'ebreo Daniel Davide Da Pisa. Lo spaccio pubblico era situato in Corte Gregolina, nei pressi della Madonna dell'Orto, poi fu trasferito alla Fondamenta delle Penitenti e quindi a S.Andrea.
La prima fabbrica di tabacco si aprì nel 1790, all'interno della Casa Granda di proprietà della famiglia Barbaro, lungo il Rio delle Burchielle: questo edificio, poi, diverrà il magazzino della più vasta fabbrica costruita in epoca austriaca. La Manifattura Tabacchi vide lavorare al suo interno centinaia di persone, per lo più donne che vivacizzavano con il loro passaggio la zona.
Stupenda l'immagine lasciata da Riccardo Selvatico nella sua poesia "Le tabachine":

Bate quatro e za scominzia
Nel silenzio de la strada
Fin alora indormenzada
A sentirse da lontan

Come un susio, che in distanza
Da principio xe confuso
Ma che ingrossa che vien suso
Co' una furia de uragan

La xe lore, za le ariva
Za le spunta, za in t'un lampo
Case, strada, ponte, campo
Tuto introna de bacan

Le xe lore, le ze tose
Le ga el viso fresco e tondo
Le vien via sfidando il mondo
Imbragae de zoventù

Zavatando per i ponti
Le vien zoso a quatro in riga
Par che a tutti le ghe ziga:
Largo, indrio, che semo nu!

Za la zente su le porte
Stà a vardar la baraonda
Che infuriando come un'onda
Urta, spenze e passa in là

Qua un vecieto scaturio
Va tirandose drio al muro
Là una vecia, più al sicuro
Varda e ride dal balcon

Ma le ariva e za le passa
El ze un refolo de vento
Za el fracasso in t'un momento
Va perdendose lontan

E la strada per un punto
Da quel ciasso desmissiada
Quieta, straca, abandonada
La se torna a indormenzar.


Fonte: Marina Crivellari Bizio

venerdì 30 aprile 2010

Fra Mauro, il cosmografo del diavolo

Si racconta che un giorno un senatore veneziano andò a far visita a un umile converso del monastero camaldolese sull'isola di San Michele. Fra Mauro da Venezia se ne stava ritirato nel suo laboratorio intento a disegnare un planisfero su una grande pergamena.
L'onore della visita non confuse il monaco, che era stimato per le sue perizie d'ingegnere e disegnatore di carte nautiche. Si diede quindi da fare per spiegare al visitatore il lavoro che lo teneva impegnato. Il senatore si dimostrò subito ansioso di controllare dove fosse la città del Leone, ma confondendosi tra lo splendore delle dorature e i colori dei nomi variopinti, domandò con impazienza: "Dove zela Venezia?", "La xe qua" rispose il frate indicandola con l'indice, "E perché cussì piccola?" chiese insoddisfatto il senatore, "La xe in proporzion del mondo" spiegò pazientemente Fra Mauro. La risposta non piacque al senatore che, andando fiero della grandezza della Serenissima, replicò: "Fè el mondo più piccolo e Venezia più granda". Fra Mauro non seguì il consiglio e lasciò Venezia in proporzione del mondo, contribuendo ugualmente, con il suo lavoro, alla gloria della Dominante.
Poche sono le notizie sulla vita di Fra Mauro, a confronto dell'enorme fama goduta presso i suoi contemporanei. Si sa che è veneziano, che vive e opera nella prima metà del XV secolo, e che probabilmente muore nel 1459. E' un converso che ha vestito l'abito in età adulta e tale rimane la sua qualifica. Non ci sono dubbi neanche sul fatto che dal 1443 al 1459 dimori esclusivamente sull'isola di San Michele.
Esperto di idraulica e d'ingegneria, la Repubblica lo chiama a consulto sul modo più conveniente per deviare il Brenta affinché non sfoci in laguna. Segno che si era servita della sua opera anche in altre occasioni.
La rinomanza di Fra Mauro è però legata alla cartografia. Aiutato da valenti collaboratori sia laici che confratelli, nel suo laboratorio compone molte carte geografiche e vari scritti, tutti andati sfortunatamente perduti. Tra le opere che gli vengono attribuite ci sono un portolano del bacino mediterraneo e delle coste orientali dell'Africa, rinvenuto nel 1822, un'altra riguarda il frammento di una grande mappa circolare scoperta nel 1955 nella biblioteca del Palazzo Topkapi a Istanbul.
Tra i suoi ultimi lavori vi è un planisfero per il sovrano di Portogallo, iniziato nel 1457 e consegnato nell'aprile del 1459 per mezzo del patrizio veneziano Stefano Trevisan. Il planisfero fu molto studiato e servì da guida per i viaggi compiuti da portoghesi e spagnoli nella seconda metà del Quattrocento. Note di spese e di pagamento nei vecchi registri del monastero ne attestano con certezza l'esecuzione, dal momento che l'opera è andata perduta.
L'unica tra le opere del frate giunta intatta fino a noi è il magnifico e famoso planisfero (detto impropriamente 'mappamondo') custodito per tre secoli a San Michele e, alla soppressione del monastero, trasferito nella Biblioteca Marciana di Venezia. Di proporzioni monumentali e d'una ricchezza senza precedenti, il planisfero è considerato un capolavoro cartografico. Il celeste intenso dei mari, il verde dei fiumi, il rosato, il carminio e l'azzurro dei monti, le lettere d'oro dei nomi dei regni più importanti e quelle rosse delle altre località, le file degli alberi che segnano i confini delle provincie, le città in miniatura, le didascalie in rosso e azzurro danno al planisfero un aspetto variopinto. Ma il maggior pregio di quest'opera superba sta nel fatto che riassume tutte le conoscenze geografiche dell'epoca.
Geografia e cosmografia erano discipline tradizionalmente approfondite nel monastero di San Michele, ed è certo che Fra Mauro si è dedicato a lunghi e profondi studi dei geografi antichi; egli si avvalse inoltre di relazioni scritte, di carte nautiche provenienti dall'estero, ma anche di contatti diretti avuti con viaggiatori e naviganti da lui interrogati per raccogliere notizie sulle terre che avevano attraversato o sui mari che avevano solcato.
I colori magnifici, la precisione e la profondità del tratto, la correttezza delle notizie, la perfezione tutta dell'opera, insomma questo navigare nel mondo senza uscire mai dai confini esigui dell'isola, hanno creato una leggenda sul frate. Una voce di popolo dice che nelle notti particolarmente fosche il cosmografo avesse la capacità di concentrare i sogni di Lucifero sull'isola, proiettandoli poi sulle nuvole. I paesi che l'angelo del male andava sognando, il frate li catturava imprigionandoli sulla pergamena. Così ha potuto conoscere il mondo intero.
La Signoria di Venezia, a cui il planisfero è dedicato, per tramandare ai posteri la sua fama coniò un ritratto del converso. Tutto intorno al profilo del monaco, vecchio e con il volto emaciato, gira la frase:"Frater. Maurus. S.Michaelis. Moranensis. De. Venetiis. Ordinis. Camaldulensis. Cosmographus. Incomparabilis."
Un solo aggettivo che basta a contenere l'impareggiabile straordinarietà del cosmografo del diavolo.

(Fonte: C. Coco)

venerdì 23 aprile 2010

La Biennale di Venezia


La Biennale di Venezia, nata nel 1895, deve il suo nome alla cadenza dell’Esposizione Internazionale d’Arte, voluta e sostenuta da un gruppo di intellettuali dell’epoca, tra cui Riccardo Selvatico, commediografo e poeta, allora sindaco della città.
Negli anni Trenta l’istituzione veneziana diventa Ente Autonomo sotto il controllo del Governo Italiano. Hanno inizio in quegli anni: il Festival della Musica (1930), la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (1932), il Festival Internazionale di Teatro e di Prosa (1934).
Le rassegne sono sempre accompagnate da eventi speciali e retrospettive di artisti italiani e stranieri.
Fin dall’inizio la Biennale si configura come una delle principali istituzioni organizzatrici di manifestazioni nei diversi settori delle arti e della cultura contemporanea.
Nel 1968 la contestazione investe anche la Biennale, che sospende in parte le sue attività, ma viene poi riformata con nuove idee e forti impulsi nel 1973.
Dal 1975 sono realizzate anche rassegne di Architettura.
Nel 1998 la Biennale, da Ente Autonomo, diventa Società di Cultura, soggetto giuridico privato.
A tutt’oggi la Biennale interviene con mostre, esposizioni e attività culturali nei settori: arti visive, architettura, cinema, musica, teatro, danza e, grazie alla raccolta di documenti conservata nel suo Archivio Storico, svolge una funzione primaria per lo studio e la ricerca nell’ambito dell’arte contemporanea.

E’ importante ricordare anche la storia delle strutture che la ospitano: già nei primi decenni del Novecento iniziarono a sorgere nei Giardini di Castello ben 27 strutture nate dagli studi di famosi architetti, tra cui: Carlo Scarpa, James Stirling, Alvar Aalto, Bruno Giacometti, e il gruppo BBPR. Negli anni seguenti gli spazi occupati dall’Esposizione vennero sempre più ampliati, fino ad utilizzare anche ampie zone in disuso del vicino Arsenale (come le Corderie). A questi si aggiunsero i Saloni del Sale alle Zattere, e i Granai alla Giudecca negli anni Ottanta. Dopo l’ulteriore utilizzo di nuove aree dell’Arsenale oggi si può ben dire che quasi l’intera città partecipa offrendo sempre nuovi spazi ad esposizioni e installazioni.

Da segnalare che quest’anno il Direttore del Settore Architettura sarà Kazuyo Sejima, nata in Giappone, nella prefettura di Ibaraki, nel 1956 e prima donna a salire sul gradino più alto della rassegna lagunare. Formatasi nello studio di Toyo Ito, nel 1995 - insieme a Ryue Nishizawa - fonda SANAA, lo studio di Tokyo che ha firmato alcune fra le più innovative opere di architettura realizzate di recente in tutto il mondo, dal New Museum di New York al Serpentine Pavilion di Londra, al 21st Century Museum of Contemporary Art di Kanazawa, premiato nel 2004 proprio col Leone d'Oro della 9 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia per l'opera più significativa.

Galleria fotografica edizione 2009
.

lunedì 19 aprile 2010

Castradina Sciavona

Un tempo la Riva degli Schiavoni non era così ampia e soprattutto non era la tipica passeggiata che è oggi, ma era lo scalo delle navi commerciali che giungevano dall’oriente; questa era la vera porta d’ingresso alla città prima che la costruzione del ponte della Libertà ancorasse Venezia alla terraferma costringendoci ad entrare dal retro…
Qui attraccavano galee mercantili, tartàne albanesi e bastimenti turchi, sulla fondamenta si incontravano marinai orientali con braghesse, fez e scarpe a punta, e non c’erano certo alberghi di lusso, ma casotti di legno per lo stoccaggio delle merci, banchi di vendita all’ingrosso, squeri (cioè cantieri per il rimessaggio e la riparazione delle barche), e un incredibile viavai di merci e uomini, un intreccio di facce, lingue, e abiti che arrivavano da tutti i porti per scaricare prodotti di ogni genere, soprattutto alimentari: formaggi, pesce, animali vivi come agnelli, montoni, bovini.
Animali che  per lo più giungevano dai Balcani, ed è per questo che la Riva prese a chiamarsi “degli Schiavoni”, perché con il termine Sclavonia si indicava la fascia costiera della Dalmazia, della Bosnia e dell’Albania. Dopo aver scaricato le loro merci le navi ripartivano cariche di manufatti di metallo, di legno, ferro e di armi… insomma un immagine ben diversa da quella di oggi!
Di quel periodo resta memoria in un tipico piatto che si consuma ancora oggi a Venezia in occasione della Festa della Salute il 21 di Novembre, e cioè la Castradina S'ciavona, in pratica carne di montone castrato affumicata ed essicata al sole, servita con brodo di verze.
Ecco la ricetta:
"Per fare una buona castradina cole verze ci vuole innanzitutto tempo. Si lascia la carne di montone a bagno per un giorno, in acqua prima bollente poi tiepida. Si lava in molte acque, si taglia a pezzetti e la si mette sul fuoco con gli aromi d'uso. Si lascia bollire e freddare, e la si pone in luogo fresco. Il giorno dopo si toglie il grasso rappreso che si è formato in superficie e si rimette la pentola sul fuoco con le verdure del brodo e le foglie, abbondanti, di cavolo verzotto. Si fa sobbollire, senza fretta, fino a quando la carne non diventa tenera e le verze ben cotte"
.

mercoledì 14 aprile 2010

Hugo Pratt, viaggiatore incantato

"Avevo quattro o cinque anni, forse sei, quando mia nonna si faceva accompagnare da me al Ghetto Vecchio di Venezia. Andavamo a visitare una sua amica, la signora Bora Levi, che abitava in una casa vecchia. A questa casa si accedeva salendo un’antica scala di legno esterna chiamata “scala matta” oppure “scala delle pantegane”, o ancora “scala turca”. La signora Bora Levi mi dava un confetto. una tazza di cioccolata bollente e densa, e due biscotti senza sale. che non mi piacevano. Poi lei e la nonna, immancabilmente, si sedevano e giocavano a carte, sorridendo e sussurrando frasi per me incomprensibili. E così, a me non restava che passare minuziosamente in rassegna tutti i cento medaglioni appesi alla parete di velluto rosso scuro, che mi osservavano dai loro ovali di vetro. Dico che mi osservavano, perché questi medaglioni racchiudevano vecchi ritratti di severi signori in uniformi asburgiche o di rabbini con treccine nere e feltri a larghe tese. E tutti sembravano fissarmi con un’insistenza che certo sconfinava nell’indiscrezione. Un po’ imbarazzato andavo alla finestra della cucina e guardavo giù in un campiello erboso con una vera da pozzo coperta di edera. Quel campiello ha un nome: Corte Sconta detta Arcana. Per entrarvi si dovevano aprire sette porte, ognuna delle quale aveva inciso il nome di un shed, ossia di un demonio della casta dei Shedim, generata da Adamo durante la sua separazione da Eva, dopo l’atto di disubbidienza . Ogni porta si apriva con una parola magica, che era poi il nome del demone stesso.
Li ricordo ancora quei nomi terribili: Sam Ha, Mawet, Ashmodai, Shibbetta, Ruah, Kardeyakos, Nà Amah.
Ricordo che un giorno la signora Bora Levi mi prese per mano e mi condusse nella Corte Sconta illuminando il cammino con un “menorah”, il candelabro a sette braccia, e ogni volta che apriva una porta soffiava su una candela. La corte era piena di sculture e graffiti: un re armato di arco e frecce, a cavallo di un dio; un neonato; una cacciatrice anch’essa con arco e frecce; una vacca con un occhio solo; una stella a sei punte; un cerchio tracciato nei suo1o con lo scopo di far ballare una ragazza nuda; i nomi degli angeli caduti o veleni di Dio, Samael, Satael, Amabiel. La signora ebrea mi parlava di tutte quelle cose, rispondendo alle mie domande. Poi apriva una porta sul fondo della corte e mi faceva passare in una calle con le erbe alte, che conduceva in un altro campiello bellissimo e che molto più tardi ritrovai uguale e pieno di fiori in una casa della Juderia di Cordoba.
Ricordo che nella Corte Sconta c’era una signora molto bella, sempre circondata da bambini e fanciulle che giocavano attorno a una farfalla gigante di vetri colorati. Era Aurelia, la farfalla gnostica.
La gnosi rappresentando se stessa come fonte inesauribile di sapienza e offrendo, in mille riflessi di vari colori, quello che ognuno desidera..."

(Hugo Pratt)
leggi tutto


“Vustu che mi te insegna a navegar?
Vate a far una barca o una batela,
Co ti l’a fata, butila in mar,
La te condurà a Venezia bela”.
Così recita una delle delicate Villotte Veneziane. Pratt, invece, ha fatto in qualche modo il percorso inverso. Dopo l’infanzia veneziana ha girato il mondo e la sua barca l’ha condotto lontano, dall’Africa al Sud America.
Questo tuttavia non lo ha snaturato: una volta imparato “a navegar” a Venezia, è stato ben capace di solcare tutti i mari, ovunque riscoprendo – in un angolo, in un’atmosfera, in un personaggio – Venezia,
e a Venezia poi ritrovando luoghi, colori, sensazioni dei più sperduti posti del globo.
Sì, un viaggiatore incantato. E di tanta sua meraviglia ci ha fatto partecipi. Quanti tramonti esotici, quanti inseguimenti, quante avventure abbiamo vissuto insieme a Corto Maltese!
Umberto Eco ha definito Pratt “il Salgari dei nostri tempi”, ma se Sandokan è l’eroe perfetto, Corto è l’uomo del nostro tempo, è Ulisse nel cuore e nella mente. E infatti, quale altro aggettivo meglio si adatta a Corto se non il “politropos” che Omero straordinariamente scelse per il re di Itaca?
Amava dire Pratt: “Mi diverte essere inutile”. Era una sfida, uno sberleffo contro chi si ostinava a non capirlo e a non coglierne la grandezza d’artista. Ma era anche la semplice verità.
Certo che si divertiva, perché lui sapeva “andare in altre direzioni”, uscire dal gregge, prendere il largo. E certamente era inutila, perché non si faceva usare.
Era inutile come i racconti d’avventura, inutile come i sogni, come la dolce trasgressione.
Inutile… o no?

(Massimo Cacciari)